“L’illusione del ritorno in Bartolo Cattafi a 40 anni dalla morte” di Pierfranco Bruni

Lo avevo letto alcuni anni fa (molti anni fa) e quel sentimento del viaggio mi aveva chiaramente affascinato. Un viaggio che mi sembrava precario. Non avevo colto o non ero riuscito a cogliere l’essenza di quel viaggio. Sono passati anni. E Bartolo Cattafi, questo poeta siciliano ma che ha girato mezzo mondo abitando anche a Milano e poi è ritornato in una sua vecchia casa, ristrutturata, nella sua terra messinese, è ancora nei miei scaffali di poesia di un tempo che considero ormai “antico” nella mia casa di Calabria.
Ho riletto questo poeta del viaggio - viaggiare. In una avventurosa ricerca della geografia dell’anima. Sono gli anni, le altre letture accumulate, l’esperienza, il saper ascoltare la poesia con pazienza (leggo la poe-sia non più con la frenesia di un tempo e rigorosamente mi impongo delle scelte e non tutto resta più tra gli scaffali della libreria e questo non solo per questione di spazi ma soprattutto per una scelta di stili e di “gusti” che minuziosamente vado compiendo), che mi permettono di confrontarmi con la letteratura attraverso strumenti più consoni (forse meno critici) alle mie sensibilità, ai miei sentimenti, all’impostazione culturale di una vita, al mio modello esistenziale (non è forse, anche questo, un metodo critico?).
Ebbene, parlavo di Bartolo Cattafi. Nato a Barcellona Pozzo di Gotto il 6 luglio 1922 e morto a Milano il 13 marzo 1979). Lo avevo cominciato a leggere solo qualche anno prima della sua morte. Poi, come dicevo, un vuoto. Oggi lo ritrovo. Mi aveva colpito allora quella Partenza da Greenwich. “Si parte sempre da Greenwich/dallo zero segnato in ogni carta e in questo/grigio sereno colore d’Inghilterra”. Forse, allora, non ero riuscito ad afferrare sino in fondo il gioco reale ma anche immaginario della metafora.
Oggi, invece, ritrovo la profonda dimensione esistenziale di un poeta che è sempre partito e che ha avuto sempre la illusione di ritornare. La sua Sicilia, quell’isola che porta i suoni e “la musica e il miele/degli Arabi e dei Greci”, è un luogo abbandonato perché è un luogo perduto perché si è perduto un tempo e nel luogo il tempo è una tensione dell’essere e dell’esistere.
La precarietà del viaggio in Cattafi diventa la sicurezza del ritrovare il tempo tra gli spazi della memoria che si fa poesia. La precarietà di quella “partenza” diventa la certezza del viaggio in quel Cattafi che vive, soprattutto nella sua ultima stagione, la via della fede. Durante il suo viaggio a Lourdes annota in una lettera agli zii Barresi: “Qui tutto è meraviglioso… i miei occhi sono spesso due gioiose fontane. Manderei qui a imparare e a sbattere il muso tutti gli atei del mondo”.
Già in una poesia del 1945 - 55 dal titolo: “L’agave” si può ascoltare: “Abbandona la sabbia siciliana, la musica e il miele/degli Arabi e dei Greci,/rompi i dolci legami, questo torbido/latte delle radiche, /discendi in mare regina sonnolenta/ verde bestia con braccia di dolore/ come chi è pronto al varco; nelle grandi/ città, nelle nevi, nel bosco, nel deserto/ carovane camminano in eterno;/ viaggia assieme all’anima/ fredda dei gabbiani/ assieme al cuore fecondo al pesce pregno/ che arricchisce la rete più lontana/ e la mano lentissima di Dio/ venuta in volo da un nido di nebbia”.
Arabi e Greci sono la memoria di una poesia che decodifica tutti gli elementi storici possibili e vengono ad essere decifrati come segni del tempo. Un tempo poetico che racconta una vita. D’altronde è lo stesso Cattafi che dice: “La storia dei miei versi non può che coincidere con la mia storia umana”. In un’altra poesia, però del 1971 - 72, dal titolo: “Sotto le rocce di Tindari” si trova quasi una uguale atmosfera.
Il richiamarsi ad una eredità che è archeologica inserisce costantemente nella poetica di Cattafi dei richiami mitici. La sua Sicilia è un suono che giunge da lontano e porta ricordi. Sono gli infiniti ricordi di una terra che si impasta con un’infanzia. La terra delle radici, l’infanzia del poeta sono in quella sicilianità che è mediterraneità. Un poeta Mediterraneo è chiaramente Cattafi, la cui poesia è un dolente riecheggiare i codici di una memoria indelebile.
Nella poesia appena citata si legge: “Scaturiti dalle rocce/ destatisi da un sonno millenario/ volano goffi gracchiando/ storditi dai dardi della luce/ tra loro si lanciano richiami/ e intese in antica combutta/ con suoni greci arabi latini./ Qui ogni mese fu buono/ con o senza l’erre/ per caccia pesca rapina/ su queste rocce lasciarono/ scialbi detriti di guerre/anfore colme di storia e di guano./ Quello col becco più adunco/ forse è Verre”. Ancora segni che sono ricami intorno alle parole. Quella “partenza” non è mai una partenza definitiva.
Così, forse, il ritorno, in Cattafi, è oltre rispetto allo stesso tema omerico. Il ritornare alla memoria è un riconciliare i segni perduti con quelli dell’attesa. La metafora dei due mari (Tirreno e Ionio) non è solo un fatto geografico ma è piuttosto un avanzare tesi mitico - letterarie che sono formative nella cultura poetica del Mediterraneo.
Un titolo: “Buddàci”: “Dalla padella nella brace/e da Scilla a Cariddi pensa/nuotando da una morte all’altra/il tipico pesce dello Stretto/detto buddàci”. Un coreografico metaforico spaccato che si veste di una “impresa” ironica nei versi di “Tirreno e Jonio”: “Si cambiano sovente i connotati/diventano violenti/schiumano sul luogo dello scontro/e le seppie schizzano inchiostro/le triglie s’aggirano torve come squali/i passeggeri si tengono alle maniglie/se l’acciuga avanza come un mostro”. Sono poesie del periodo 1971 - 72.
Questo sentire si avverte emblematicamente nei versi singolari della poesia “Storia” (del 1945 - 55): “Dov’è l’antica Grecia/con dracme sonore/come il mare d’Omero”. Ed è tutto detto. Il viaggio, dunque come modello culturale che trova nella sua poetica una tensione esistenziale. Tutta la sua poesia non è altro che il suo racconto di uomo.
Un poeta che non conosce allegorie altre se non quelle metafore che sono la sua vita e la sua poetica. Metafore che hanno raccontato un vissuto tra il tempo della memoria e il suo non assentarsi con il vivere quotidiano. E l’ho riletto, dunque,  questo poeta. Era stato da me, dimenticato. Non lo è più.
 
 
 
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