Il silenzio della poesia

di Nicola Romano -La poesia comincia a prendere forma essenzialmente nel silenzio che precede la composizione e, ancor di più, nel silenzio che segue ad ogni lettura. Il testo restituito, pur nella compostezza della sua stesura, è interamente intriso di silenzio, quel silenzio che giustamente scaturisce dall’immaterialità del paradigma e dallo stagno inanimato della parola scritta, nonché dal mutismo continuato ed inevitabile durante la riflessione lievitante della lettura. Il silenzio prende corpo tra gli spazi elastici dei versi, si distende tra parola e parola, si materializza nelle pause e nei luoghi incontaminati della pagina, s’impone tra le sollecitazioni della metafora che costringe il pensiero - già avviato - ad una sorta di rallentamento, al fine di comparare e ricucire l’esito della comunicazione in essere.

Il silenzio rappresenta l’unico strumento per cercare di trasformare in parole quelli che sono i flussi della memoria, le configurazioni dell’ignoto e le pareti rocciose del mistero. Durante tali silenziose operazioni prevale un senso di smarrimento, una perdita di orientamento, un esilio mentale che cerca un naturale approdo nella parola, come in un bisogno di ritorno in patria, una specie di rientro nella propria identità, perché intanto la parola viene concepita come entità negativa e contrapposta ad una lingua ideale: un metalinguaggio, quindi, per la ricerca del quale la silente introspezione ne è condizione essenziale.

Attimi di silenzio, per predisporsi a rimandare a cose “altre” le cifre nascoste a cui il testo allude, momenti di mutismo organizzato per decodificare l’essenza del messaggio, per individuare e zippare il movimento delle cose tradizionalmente fisse e immobili, oppure per imbalsamare una qualche cosa di vivente. Il lettore si allontana in punta di piedi, in silenzio, per non farsi scoprire dall’autore nel momento in cui tradisce il suo dettato per trasmigrare verso plaghe inesplorate.

Il silenzio s’impossessa di ciò che è lontano, lo cattura piano piano, lo custodisce, lo protegge col manto della parola, e arriva perfino a dare all’assenza in esame una forma più propria e determinata rispetto all’effettiva presenza.

Dentro il silenzio forze vitali si abbattono a rimestare l’anima, e con esse giunge la poesia dell’entroterra, la mediazione con ciò che è trascorso: catturando il passato e traducendolo in versi, le sirene d’Ulisse pervennero opportunamente ad intrecciare un canto, il dolce canto del nostos che sale da un procelloso mare di silenzio.

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