“Il Mar Mediterraneo: l’onda della civiltà” di Giovanni Teresi

Partire alla scoperta del Mediterraneo è ancora oggi partire non verso un paesaggio ma verso innumerevoli paesaggi; non verso un solo mare ma verso un mare dalle luci di una varietà infinita; è partire non verso una civiltà nata sul mare ma verso civiltà che si sono stratificate nel corso d’una storia millenaria le cui tracce affiorano dappertutto; è trovare il mondo romano sulle rive del Libano, la preistoria in Corsica, l’impero ottomano in Iugoslavia. È immergersi nel più profondo dei secoli, quando popoli che vissero in questi mari eressero le costruzioni megalitiche di Malta, navigarono con i primi battelli i cui resti vengono oggi scoperti dagli esploratori sottomarini e , pezzo a pezzo, analizzati per ricostruire i primi mom

enti dell’uomo su queste acque.

Partire alla scoperta del Mediterraneo è penetrare l’arcaicità di mondi insulari chiusi in se stessi, ma anche conoscere civiltà che sempre si rinnovano, e incontrare l’Africa, l’Europa e l’Asia nei loro problemi d’oggi, nel ricordo della loro civiltà di ieri.

Il Mediterraneo è la somma di una serie di scenari che sono cresciuti e sovrapposti come fondali di un teatro; questo mare, dall’apparire sulle sue rive del primo uomo in poi, ha visto cambiare la linea fragile dei litorali; i suoi fiumi hanno modificato il loro corso, immergendosi talvolta nella terra, scavandosi letti profondi, o penetrando il mare con forme a delta in continua trasformazione come le foci del Po. Il Mediterraneo significa “mare nel mezzo delle terre”, un mare chiuso che non s’apre sull’oceano se non a Gibilterra, sul Mar Nero e sul Bosforo.

È il paesaggio di mare che ci è più familiare. La casa color gesso a picco sulla scogliera, l’orizzonte blu; i pini, gli olivi; le barche con la lampara. Anche per chi conosce i fondi subacquei, il Mediterraneo è inconfondibile. Poche acque al mondo hanno la sua trasparenza, rocce di granito bianco punteggiate dalle macchie violacee dei ricci; e i prati di alghe ondeggianti nella risacca come  campi di grano che in tanti punti giungono sino a costa.

V’è nel Mediterraneo, una rottura fondamentale. Una bipartizione. Una linea mediana sembra andare dal Canale di Otranto che chiude a metà l’Adriatico fino alle coste della Tunisia: a Est c’è l’Oriente, brulichio di isole, terre e acque mitizzate, il mondo dell’Iliade. A Ovest, al contrario c’è l’Occidente, le grandi superfici, è il mondo dell’Odissea, la ricerca, la conquista di nuovi spazi liberi. Al centro, come cerniera, l’isola più grande del Mediterraneo: la Sicilia che si trovò sul cammino di tutti i conquistatori. Fenici e Greci vi hanno creato le loro città coloniali, Selinunte, Agrigento; e così i Cartaginesi e poi i Romani, che sostituirono i primi dopo le guerre puniche; e ancora i Bizantini, e gli Arabi. In Sicilia le stratificazioni storiche sono più evidenti che altrove.

E così le eredità di civiltà, culture, tradizioni. Tra le tante in Sicilia si può trovare, ancora viva, una delle tradizioni di pesca più antiche del Mediterraneo: la caccia al pesce spada.

Le condizioni climatiche, particolarmente favorevoli, permettono lungo le coste coltivazioni estensive di olivi, vite e grano. La vite si trova in tutte le regioni del Mediterraneo. Fin dai tempi omerici il vino aveva valore di moneta; i guerrieri dell’ Iliade lo barattavano con bronzo, schiavi, bestiame. L’esploratore sottomarino, che oggi incontra resti archeologici subacquei, ha la prova di quanto importante fosse il commercio del vino nel Mediterraneo dall’abbondanza di anfore, dette appunto vinarie, che giacciono in fondo al mare. L’olivo è l’albero simbolo del Mediterraneo; è l’albero sacro di questo mare; i Greci lo ascrivevano ad Atena, i Romani a Ercole. Simbolo di pace segna il legame tra la natura e l’uomo. Dopo vino e olio, è quasi ovvio ricordare l’importanza della coltivazione mediterranea del grano. Vino, olio, pane: il cibo quotidiano del pescatore e del contadino mediterraneo come complemento del pesce e della carne.

Nel Mediterraneo più che altrove, gli uomini, le istituzioni, il clima, gli animali, le piante, le acque sono strettamente collegati gli uni agli altri e così le civiltà si generano e si spiegano le une con le atre; per questo i frammenti strappati al passato sono talvolta testimonianza incomprensibile se manca qualche anello per congiungere l’evoluzione generale dei popoli.

Sul bacino del Mediterraneo si svilupparono le più antiche civiltà. Di queste, ancor oggi, rimangono numerose vestigia, come i resti della città fenicia di Biblos, nel Libano. La vicinanza e l’amore, che hanno legato la civiltà egea al mare, sono attestati nelle decorazioni delle dimore più ricche. Un ragguardevole esempio è offerto dal raffinato mosaico della Casa dei Delfini a Delo.

Nel Museo Nazionale di Reggio Calabria sono conservati i Bronzi di Riace, due statue di bronzo che rappresentano, senza dubbio, uno dei momenti più alti della produzione scultorea di tutti i tempi e il più importante rinvenimento archeologico dell’ultimo secolo.

La tecnica, la resa anatomica, la sicurezza nelle proporzioni e la raffinatezza del modellato non lasciano dubbi sulla datazione delle sculture al V secolo a. C. Più complessa la collocazione ad annum. La statuaria bronzea si sviluppa e si afferma, in  Grecia e nelle colonie, nel cosiddetto periodo severo, tra il 500 e il 470 circa a. C.

È la fase in cui la scultura supera la rigidità arcaica, in cui prende avvio lo studio accurato dell’anatomia umana e delle proporzioni, è il momento in cui i volti e le espressioni, perdendo l’ingenuità fittizia del sorriso arcaico acquisiscono maggiore realismo.

Un tempo nel Mar Mediterraneo, oltre ai pericoli eterni del mare: le tempeste, le correnti, i venti, c’erano altri pericoli: erano i pirati che per due millenni hanno spadroneggiato, attaccato coste e navigli per impadronirsi di carichi e fare schiavi.

Le torri di guardia di tutte le coste settentrionali del Mediterraneo, Spagna, Francia, Corsica, Sicilia, Sardegna, e Grecia testimoniano la paura che la pirateria saracena seppe suscitare.

Durante l’inverno nel Mediterraneo antico le guerre si arrestavano. Le stesse galere dei corsari erano messe a riposo; i riti contrassegnavano l’apertura della stagione del mare in marzo e la sua chiusura in settembre. Analoghe abitudini si ritrovano secoli più tardi nei codici marittimi delle città medioevali sul mare. L’inverno mediterraneo era il periodo delle riparazioni delle barche, della revisione degli scafi, della messa in ordine del materiale da pesca.

Oggi, le tecniche di navigazione sono ben diverse, tutti i pericoli sembrano vinti per i navigatori della civiltà industriale. Eppure è proprio questa civiltà vincente ad alimentare ancora paura; un’altra paura, di ben diversa natura. È la paura della fine biologica del Mediterraneo; dello spegnersi della vita proprio in quel mare che ha aiutato, favorito il sorgere di alcune fra le maggiori civiltà della storia dell’uomo.

Non è, questa, una paura infondata, ma un pericolo imminente. Solo se esso sarà scongiurato, il mare più prezioso del pianeta sarà salvo per l’umanità futura. Occorrerà, allora, che la consapevolezza ecologica continui a crescere nonostante i problemi economici del momento; occorrerà che la consapevolezza archeologica continui a farsi più viva e si opponga alla creazione di certe nuove fonti di energia che potrebbero ancor più inquinare il mare.

Se l’uomo sarà saggio, il Mediterraneo potrà salvarsi; e nel futuro chi scenderà nelle sue acque potrà continuare a godere dello straordinario spettacolo della sua luce, della sua vita guizzante e della sua poesia.

 

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