Gino Pantaleone, "Canti a Prometeo" (Ed. All'Insegna dell'Ippogrifo)

di Franca Alaimo
 
 
         Ci vuole una bella dose di coraggio nel riproporre nei propri versi (anch'essi degni di stupore, come dopo si dirà) una figura che nel corso del tempo ha ispirato letterati, autori dell'arte pittorica, musicisti e filosofi, arricchendosi di sfaccettature sempre nuove fino ad allontanarsi dal mito originario per divenire un'immagine da riempire di idee e perfino ideologie, come, per esempio, ha fatto Camus che, attraverso l'icona di Prometeo, si interroga sul destino dell'uomo di fronte alla civiltà delle macchine.
         Gino Pantaleone nei suoi “Canti a Prometeo” sembra sposare insieme  elementi del mito classico e riflessioni più attuali, sovrapponendo, per di più, ad essi un'audace ed eroica identificazione del Titano con  la figura ed il ruolo del Poeta all'interno del tessuto sociale contemporaneo, non senza un sofferto autobiografismo, lontano da ogni tronfia superbia, quanto, invece, prossimo ad una ferma assunzione di responsabilità.
         L'autore manifesta una forte fede nel potere della parola laica che non è lontana da quella religiosa: come, infatti, il poeta ha il compito di ricreare il legame tra le creature del mondo attraverso la bellezza e la bontà delle parole; così il Verbo di Cristo sarà quello che ancora una volta, se riscoperto e seguito, ristabilirà il dialogo d'amore fra Umanità e Divinità.
         Pantaleone, insomma, si schiera dalla parte di Dostoevskij che nella Bellezza vedeva il farmaco dei mali del mondo, mentre intanto concepiva una tra le figure più commoventi e incredibili della letteratura: quell'Idiota che è l'Uomo Cristico, che è il Poeta della parola umana come dono e lenimento.
Egli, inoltre, attualizza il paganesimo del mito classico attraverso uno sguardo ferito dalla falsità della passione degli uomini contemporanei nei confronti di miti assurdi e di dei meschini, un parallelismo che vitalizza un tòpos  letterario altrimenti inerte; e in ciò mi sembra risieda l'originalità di questi 22 sonetti, che, in definitiva, rappresentano un inno  all'Amore e alla Poesia, secondo quell'inclinazione universale alla categoria del Romanticismo, che non ha nulla a che fare con una scuola letteraria, ma con un archetipo mentale e spirituale.
Dicevo all'inizio che trovo i versi di Gino Pantaleone stupefacenti, e non solo perché sono pieni di una passione ormai rara nella letteratura contemporanea sempre più dominata dall'intellettualità, ma anche perché scelgono di stare dentro la gabbia della metrica e della struttura del sonetto (oggi poco praticato, anche se non dimenticato, ché potrei citare diversi autori contemporanei che lo tengono felicemente in vita), e lo fanno attraverso un curioso impasto lessicale in cui termini desueti si mescolano con altri più moderni, e l'iconografia classica convive con immagini attuali.
Ma ciò che più mi ha incuriosito è come la gabbia delle rime abbia condotto il poeta a soluzioni inedite, quali: passanti/consonanti; nome/crome; lamiera/sera; secco/becco, che rivelano un'inventiva non usuale e che sottolineano come, infine, le strutture precostituite, mentre impongono limiti, stimolino l'oltrepassamento. Ne conseguono un'impressione di folgorante energia e un nobile respiro visionario, palpitanti di belle intuizioni ed ampie epifanie.
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