Antonio Veneziano e le "Canzuni spirituali" - di Maria Nivea Zagarella

L’edizione critica (2012) del “Libro delle Rime Siciliane” di Antonio Veneziano (1543/1593) a cura della filologa palermitana Gaetana Maria Rinaldi (1941/2011), frutto di un lavoro  più che trentennale teso anche a sceverare i componimenti autentici da quelli falsamente attribuiti dalla tradizione al poeta monrealese, consente una ordinata “rilettura” delle rime religiose dell’autore cinquecentesco, che ne integrano significativamente il profilo umano e intellettuale. Accendono le Canzuni spirituali la curiosità su un aspetto meno vulgato della personalità di Veneziano. Più noto infatti è il ritratto lasciatoci da Sciascia che, mentre ne ricostruiva nel 1967 la biografia avvalendosi delle pagine del canonico Gaetano Millunzi e di altri, lo tratteggiava come un uomo violento, sensuale, scialacquatore, carico di debiti (e di mal francese…) incostante negli affetti familiari e negli amori, assolutamente sprovvisto di rispetto per le istituzioni e gli uomini che le rappresentavano. Terzo di sette figli, che il padre ebbe dalla terza moglie (oltre i due nati dalla prima e dalla seconda), Antonio Veneziano fu in vero molto ricordato ai suoi tempi, e dopo, proprio per la vita irregolare -“fra protervia e libertinaggio” scrive pure N. Zago-, ma indiscusso rimane anche per noi lettori del Duemila il suo primato poetico. Sul “siculo Petrarca”, cantore della misteriosa Celia, annotava già intorno al 1627 nel suo “Palermo Restaurato” Vincenzo Di Giovanni che le sue canzoni erano “di tanto pregio che ogni cosa bella si reputava da lui” e che “tra i nostri poeti quel si reputava buono che più allo stile del Veneziano si appressava”, il quale anche nei versi latini “non era meno altiero che nell’altre sue opere”. In un secolo in cui il toscano era la lingua letteraria nazionale, il monrealese scelse e preferì esprimersi in ottave e in siciliano, piegandolo a sfumature sottili di concetti e di sentimento e ad abilissime variazioni di stile, su toni ora nobili e sostenuti, ora più dimessi e anche popolari, tuttavia nell’ambito sempre di una visione alta, “aristocratica” del fare poetico. Oltre ai testi d’amore, una ulteriore conferma della sua statura letteraria e della sua cultura viene dalle Canzuni Spirituali, nelle quali i segni della adolescenziale e giovanile formazione presso i gesuiti di Palermo, Messina, Roma (anche se uscì dalla Compagnia di Gesù a vent’anni) traspaiono dalla rigorosa, razionale, tessitura delle argomentazioni e  dalla “reale” incidenza interiore delle espressioni di Fede. Nelle ottave dei testi religiosi, la nettezza del pensiero teologico e un dire fermo, di ascendenza talora dantesca, si incarnano in una severità di stile, appunto altiero, che viene modulando momenti di un “sentire“ religioso per nulla posticcio, anzi autenticamente umano nel suo porsi, interrogarsi, confessarsi. Ciò che colpisce il lettore di oggi, così poco incline ormai a simili ”rientri” e pause interiori, è proprio la linea meditativa e di “colpevolezza” soggettiva sobriamente intonata, e non mistificata o mistificatrice.

Le ottave su lu santissimu Sacramentu di la Eucharistia focalizzano con convinzione, nel ringraziamento devoto, il miraculu/misteriu di un Dio che, copertu sutta l’umbra d’accidenti, si dona a noi Diu et homu vivu e veru, e resta “indiviso”, e tuttu (intero) in chiù hostii comu in specchi visu (come in più specchi un volto), e in un pane e in un vino subito transustanziati al pronunciarsi di quello <<Hoc est>>, perché -riflette l’autore- chistu è essiri Diu omnipotenti/ tutt’una la potenzia e la voghia (la volontà). Il linguaggio si intenerisce solo in parte nei versi della preghiera/lode alla Vergine che dovrebbe abbaxari i suoi occhi in attu di clemenzia humani e duci verso i suoi, benché imperfetti, occhi di uomo. Il fondamento teologico si autoafferma qui, in climax ascendente, nelle sequenze concettuali: chi si l’eternu Verbu a una tua vuci/ in tia vinni, in tia xisi e cu tia stetti, e ancora, con la consueta tripartizione, in: Tu sulu stata sì Virgini e matri/ innanti partu, in partu e poi di partu, innalzandosi infine a una acuta, ardita, antitesi quando l’autore precisa la condizione della prima persona della Trinità, che eternamenti senza matri/ è Diu di Diu in coeternu partu. Tuttavia il religioso colloquio in questa canzuni è sostanzialmente centrato sull’Incarnazione (ch’avendu iddu la carni sua di tia), la quale, avendo il poeta desiderio di salvarsi, lo fa percepire da uomo quale è, carne con carne quasi identico a Cristo/figlio intrinseco a Maria/madre, donde l’invocazione a lei corredentrice con Cristo redentore (chi cu la carni tua per nui patiu) di avere pietà di lui peccatore, perché -afferma- di to fighiu imagini sugn’iu. Frenato poi dal timore di avere osato troppo nel raxunari di lei cosa infinita (Ma chi mi lassu traspurtari fori,/ indignu ferru, d’auta calamita), chiede perdono per la voglia troppo audace e prega che, accettando l’affettu e lu cori, l’alma regina di li eccelsi chori, renda conformi a l’animu la (sua) vita.

Ancora meglio scavano nell’animo del poeta i dialoghi con la Croce, con le piaghe preziosissime di Cristo, con la lancia altrettanto preziosa che ne trapassò il costato, e la riflessione ultima in cinque ottave su San Francesco. La Croce è inizialmente celebrata con metafore militari come l’autu (alto) stendardu dispiegato sul monte Calvario nell’ultimo assalto di Cristo a lu mundu, a la carni, a lu aversariu, assalto reso nella progressione ritmica dell’endecasillabo come una discesa agli inferi, sempre più abissale, fino alle origini stesse del male (l’aversariu diabolico). Tinta (ossimoricamente) di sanguigno smalto, la Croce prima solo tributo di peccati, si è antiteticamente mutata in strumentu hereditariu del regno celeste, ed è per il monrealese in tutto pari a Maria. Questa è stata, nel suo ventre, per nove mesi virdi scrignu del Messia; la Croce, albero secco (si noti il nuovo spericolato ma efficacissimo gioco di antitesi che proseguono nelle ottave successive con continui rimandi tra morte e vita fisicamente e spiritualmente intese), fu degna per cinque ore d’havirlu vivu -scrive- e poi mortu cu tia. Viene celebrato il santu lignu come simbolo e esperienza universale di salvezza, e perciò si eleva come ”albero” nuovo e vitale che un brazzu a l’ortu (Oriente), n’autru a occasu (Occidente) stendi,/ la cima in celu e lu pedi a l’abissu, ma è anche assimilato alla durezza/cecità del peccatore (alias lo stesso Veneziano) e perciò rimproverato perché resta impassibile davanti al dolore e non chica i rami (non strappa i suoi rami), e non mostra che l’offende il fatto che pata (soffra) Diu e che la causa ne sia lui stesso (e causa sì tu stissu). E mentre tutta la natura e gli elementi, in una bellissima ottava di apocalittico sconvolgimento, compatinu lu nostru e so fatturi e le tombe si spalancano e le pietre si spezzano e l’airu s’oscura, solo lei, pianta che aveva una volta i rami flexibili e lenti e moddi per l’humuri, invece si indura (e tu sula t’induri?). Nella strofa conclusiva il ricordo popolare del miracolo del soldato Longino e la metamorfosi (evenienza la metamorfosi ricorrente nel contesto analogico manieristico) della Croce in una alta mai chiù vista celidonia (favolosa erba medicinale qui assurta a surreale, quasi mistica, visione di illuminazione) si fanno occasione per l’invocazione della stizza (goccia) che restituisca (Sbrizza a lu mancu qualchi gutta, sbrizza…[sprizza almeno qualche goccia, sprizza…]) la luci a l’alma afflitta e trista. In un modo più confidenziale, e di rapporto diretto, si sviluppa invece il testo sulle piaghe di Cristo. Il dialogo è con il Signore, agnellu purissimu innocenti, cussì spietatamenti nchiagatu (piagato) da lancia e chiodi che  -scrive il poeta- lu cunfessu chi sugn’iu/ cu l’armi di l’horrendu miu peccatu. E amareggiato, affettuosamente rimproverandolo (Chi fai, Christu ducissimu, chi fai?), quasi lo provoca a ribellarsi: Quali liggi lu voli o lu consenti/ chi per mia to nimicu chi culpai / ti fazzi (tu ti faccia) senza culpa delinquenti?, e più oltre aggiunge: A chi flagelli, a chi martirii tanti?-  che oltrepassano ogni misura, e la tua figura così arsa e trasformata, tu che per noi creasti cielo, terra e abissi, opera e theatru di tia dignu, e che con un sulu to penseri (pensiero) potevi redimere la persa creatura? E insiste ossessivamente (abivirassi, assuppassi), secondo l’immaginario orroroso del tempo, sul sangue da Cristo liberamente versato fino all’ultima goccia (E mentri di gran sangu e acqua allaghi…), meravigliandosi molto, fino al punto di non comprenderla razionalmente, della grande bontà di quello: ma chi ti svixerassi e chi spandissi/ lu sangu to per nui passa ogni signu. E il ringraziamento nella strofa successiva fonde vangeli, leggendario popolare e preghiera contrita: sia [io] -conclude- per lu sangu to di lepra sanu (dalla lebbra risanato). E ciò dopo avere lodato Cristo come cortese e pio samaritano, che del suo sangue e acqua fa olio e vino per le ferite dell’uomo, e come benignu e svixeratu pelicanu (pellicano) che recrija (fa rinascere) col sangue del suo petto lacerato il suo puddicinu (pulcino). Per rafforzare infine preghiera, propositi e speranza di conversione torna Veneziano a insistere sulla sua identità, nell’umanità, con Cristo: S’iu su imagini tua com’è chi su/ e tu archetipu sì, tu stampa mia,/ non dimurari (non indugiare), no, Christu miu chiù (a salvarmi),/ si cireneu non voi chi per tia sia, se non vuoi cioè che io continui a essere complice della tua sofferenza.

Nel testo sulla prezziusa lanza, fra le pieghe del frasario religioso corrente, colpiscono ancora una volta l’intensità e la forza plastica di certe immagini (e ossimori e antitesi), come la lancia che spietatamenti piatusa ha creato per noi un “nido” nel santo petto di Cristo, o il passaggio dal grand’odiu per l’empia lancia all’elogio trionfalistico della sua santa tirannia grazie alla quale non c’è più porta chiusa fra lui (Antonio) e Dio, o addirittura l’invidia/voglia di identificarsi con essa (ch’iu fussi lanza) per entrare intra la chiaga (piaga) nettu e puru e starvi caudu (al caldo), vivendo cioè al riparo della grazia/amore di Cristo. E che l’impeto/volo del riscatto desiderato lì vorrebbe fermarsi e fissarsi, nel santu pettu, lo scolpiscono magistralmente la chiusa e il gioco anch’esso abituale in Veneziano delle iterazioni: Fermasi ccà, sia ccà l’ultimu signu…accussì comu in tia, Christu benignu,/ l’ultimu colpu fu colpu di lanza. Bravura solo stilistica e consumatissima, come quella di tante poesie d’amore per Celia e altre donne? Ma lì il gioco, quando c’è, si fa scoperto e si avverte nel sorriso compiaciuto che inonda la gioia disinteressata dell’inventio poetica e dell’ornamentazione retorica. In queste rime invece ogni parola cade nel posto necessario, meditato, calibrato, pochissimo superfluo, in un ripiegamento pensoso dell’io come nella singolare meditazione su san Francesco, exemplu vivu e friscu di Diu. In pieno clima e ambiente controriformistici di autocrazia monarchica e ecclesiastica e di pompose, scenografiche ritualità, il poeta monrealese si sofferma invece sull’assimilarsi, per reciproco amore, di san Francesco a Cristo nella povertà e nelle stimmate. Dice infatti che: si vesti a Christu è un san Franciscu,/ si spoghi a san Franciscu formi un Christu, e ancora che: comu in carta dda stampa immortali (Cristo)/ li proprii chiaghi in li toi carni (di San Francesco) impressi. E accompagna Veneziano l’ardore serafico del Santo nella contemplazione della redenzione, della morte, dello svilimento del “mondo” con la scelta di essere umile frate, appunto, “minore” (cu lu nomu di minuri), fino alle celesti porti. “Canzuni spirituali” queste di Antonio Veneziano che fra stilemi danteschi e sensibilità manieristica (il creato “teatro” di Dio) bene relazionano e focalizzano immensità divina e limiti dell’ingegno dell’uomo, che ha bisogno/necessità di Cristo, fattosi per tutti sacerdoti e sacrifiziu.   

      

 

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