Anna Maria Bonfiglio, “Il profumo del mandorlo” (Di Felice Edizioni)

di Ester Monachino

 

Di certo, e non sotterraneamente, i luoghi e i tempi dell’infanzia, l’amore, hanno attraversato l’intero percorso di scrittura di Anna Maria Bonfiglio. Temi, questi, che ritroviamo nell’ultimo lavoro in prosa, “Il profumo del mandorlo”, edito da Di Felice.

Il volume è una raccolta di quattordici racconti dalla consueta voce limpida, dalla rotta lineare e senza tentennamenti: più verso l’interiorità piuttosto che verso il frastuono del quotidiano e vertiginoso mondo cittadino. Nella scrittura, sempre fa capolino la tempra poetica della Bonfiglio, leggibile soprattutto nelle soste descrittive  di luoghi esterni che, invero, sembrano cesellare intime visioni dalla forza inesplicabile.

Tutte le figure di donne che sono fulcro di narrazione vanno toccate con delicatezza perché l’autrice ce le porge con le loro fragilità, con l’animo spalancato e nudo nelle aspettanze, nelle disillusioni e disincanti, nelle ferite aperte, dolenti nella cifra del vivere.

Arieggia un senso sottile di sacro quando riemergono i luoghi della memoria: la Valle dei Templi akragantina, con il profumo dei mandorli fioriti, “Il profumo amaro e disfatto di ciò che si perde” (pag. 20); Punta Bianca, sempre offerta alla visione come “una promessa..” (pag. 60); e ancora i pini resinosi di Monte Pellegrino, i lontani monti del nord. Tempi d’infanzia, ricordi come istanti resurrettivi seppure di lampante fuggevolezza. “…i ricordi non muoiono mai del tutto, aveva pensato, forse si trasformano” (pag. 21) divenendo focalità rassicuranti  contro certe forze  di lacerazione e dissacrazione del vissuto.

Così, i tempi della memoria tengono radicati, abbracciano contro vie di fuga, contro diaspore insensate. Sono il credo dell’autentico nella profondità del sé, nelle tracce indelebili che scrivono il profondo dell’anima.

L’amore che, invero, è il tema principe dei racconti, non è quel porto che fa terraferma, non è fiume quieto o irruento che si versa nella dimensione gioiosa del vivere. E’ terra frastagliata di difficile approdo, è fiume sotterraneo cupo e soffocato, è lama rovente di tradimento, è disincanto: per questo le atmosfere non si abbandonano alla fulgidezza delle ariosità mattutine e meridiane ma sono velate di malinconia, da un sentore indefinito  d’incompletezza e incompiutezza¸ da “dolore incarnito” (pag. 73).

Dal fondo della psiche di queste donne possono trarsi tutti i dialoghi possibili con la vita, con i sensi, con la sensualità, con l’assurdo, con il vuoto e con le attese. Come meditazioni sull’esistenza fatte vivendo. Come esorcismi che restituiscano, in armonica purezza, le irrazionalità e le dissonanze.

Non vi sono chiusure in queste figure femminili: in ciascuna vi è ansia di verità e un varco per quanto non è contingente. Donne vere, di carne e sangue. Anna Maria Bonfiglio, con mano ferma e cristallina sa bene muovere i loro passi, sa metterci di fronte ai loro occhi, ai loro quadri di vita non opachi.

Di certo, e non sotterraneamente, i luoghi e i tempi dell’infanzia, l’amore, hanno attraversato l’intero percorso di scrittura di Anna Maria Bonfiglio. Temi, questi, che ritroviamo nell’ultimo lavoro in prosa, “Il profumo del mandorlo”, edito da Di Felice.

Il volume è una raccolta di quattordici racconti dalla consueta voce limpida, dalla rotta lineare e senza tentennamenti: più verso l’interiorità piuttosto che verso il frastuono del quotidiano e vertiginoso mondo cittadino. Nella scrittura, sempre fa capolino la tempra poetica della Bonfiglio, leggibile soprattutto nelle soste descrittive  di luoghi esterni che, invero, sembrano cesellare intime visioni dalla forza inesplicabile.

Tutte le figure di donne che sono fulcro di narrazione vanno toccate con delicatezza perché l’autrice ce le porge con le loro fragilità, con l’animo spalancato e nudo nelle aspettanze, nelle disillusioni e disincanti, nelle ferite aperte, dolenti nella cifra del vivere.

Arieggia un senso sottile di sacro quando riemergono i luoghi della memoria: la Valle dei Templi akragantina, con il profumo dei mandorli fioriti, “Il profumo amaro e disfatto di ciò che si perde” (pag. 20); Punta Bianca, sempre offerta alla visione come “una promessa..” (pag. 60); e ancora i pini resinosi di Monte Pellegrino, i lontani monti del nord. Tempi d’infanzia, ricordi come istanti resurrettivi seppure di lampante fuggevolezza. “…i ricordi non muoiono mai del tutto, aveva pensato, forse si trasformano” (pag. 21) divenendo focalità rassicuranti  contro certe forze  di lacerazione e dissacrazione del vissuto.

Così, i tempi della memoria tengono radicati, abbracciano contro vie di fuga, contro diaspore insensate. Sono il credo dell’autentico nella profondità del sé, nelle tracce indelebili che scrivono il profondo dell’anima.

L’amore che, invero, è il tema principe dei racconti, non è quel porto che fa terraferma, non è fiume quieto o irruento che si versa nella dimensione gioiosa del vivere. E’ terra frastagliata di difficile approdo, è fiume sotterraneo cupo e soffocato, è lama rovente di tradimento, è disincanto: per questo le atmosfere non si abbandonano alla fulgidezza delle ariosità mattutine e meridiane ma sono velate di malinconia, da un sentore indefinito  d’incompletezza e incompiutezza¸ da “dolore incarnito” (pag. 73).

Dal fondo della psiche di queste donne possono trarsi tutti i dialoghi possibili con la vita, con i sensi, con la sensualità, con l’assurdo, con il vuoto e con le attese. Come meditazioni sull’esistenza fatte vivendo. Come esorcismi che restituiscano, in armonica purezza, le irrazionalità e le dissonanze.

Non vi sono chiusure in queste figure femminili: in ciascuna vi è ansia di verità e un varco per quanto non è contingente. Donne vere, di carne e sangue. Anna Maria Bonfiglio, con mano ferma e cristallina sa bene muovere i loro passi, sa metterci di fronte ai loro occhi, ai loro quadri di vita non opachi.

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