"A proposito di poesia in dialetto" di Giuseppe Pappalardo

Uno dei fatti linguistici di cui mi sono accorto studiando il dialetto siciliano è che la Sicilia (come, del resto, altre regioni d’Italia) non ha un «dialetto di koinè», cioè un dialetto parlato e scritto allo stesso modo in tutta l’Isola. Ne deriva la difficoltà di stabilire regole che valgano per tutti, come avviene nell’italiano standard.
Quanto sopra non è un fatto secondario, se si pensa che la questione della koinè tiene aperta un’annosa quanto tediosa diatriba sul modo di scrivere il dialetto letterario. In mancanza di regole condivise, infatti, i poeti continuano a discutere se l’alfabeto "fonetico" (non fonografico!), utile a trascrivere le parlate, possa essere applicato anche alla scrittura delle poesie.
Io ho cercato un equilibrio nell’uso della grafia, come nell’uso del lessico e della morfosintassi. Ne è risultato un modo mio personale di scrivere (utilizzo, ad esempio, alcuni segni diacritici; rifiuto la "j siciliana"; etc.) con cui ho voluto contemperare la creazione poetica con l’uso del mio dialetto. Per ottenere questo risultato ho dovuto faticare non poco, entrando anche in antitesi con opinioni diverse dalle mie. Mi hanno aiutato la lettura della produzione poetica più recente, ricca di spunti localistici e, dagli stessi, arricchita e vivacizzata, oltre che la mia ferma convinzione che non si può
obbligare un poeta ad usare suoni e parole estranei alla sua parlata. La poesia di Meli, a cui alcuni fanno riferimento come modello di lingua siciliana «illustre», non tiene conto dell’esistenza e della ricchezza lessicale dei dialetti locali, anzi ne pregiudica la valenza.
Infatti nel modello meliano appare evidente la stretta dipendenza dalla lingua italiana. Pertanto adeguarsi a quel modello significherebbe ingessare il dialetto e, ancor più, proporne una forma che non è parlata in nessuna zona geolinguistica della Sicilia.
Io penso invece che la poesia dialettale del Terzo Millennio non debba tornare al Settecento. Occorre guardare ai risultati a cui è giunta la ricerca linguistica dal secondo dopoguerra in avanti. Un uso accorto del Vocabolario
Siciliano di Piccitto-Tropea-Trovato offre valide soluzioni a chi scrive in dialetto. In alternativa, il Vocabolario siciliano-italiano di Antonio Traina, anche se risale alla seconda metà dell’Ottocento, è uno strumento valido per scrivere un buon «dialetto letterario».
Un altro fatto linguistico di cui ho preso atto è l’impoverimento lessicale a cui è andato progressivamente incontro il dialetto siciliano. Questa lingua, a partire dal Cinquecento, ha subito il predominio del volgare toscano, negli atti ufficiali come nella letteratura. In tal modo essa si è indebolita per il fatto stesso di essere rimasta "dialetto", cioè lingua del familiare, del privato, dell’autobiografico.
Nel secolo scorso, tuttavia, questa povertà lessicale non ha impedito al dialetto siciliano di andare oltre le tematiche legate al mondo di origine del poeta, alla sua gente, alla sua terra. Il dialetto è riuscito a coniugare i temi connessi alla contemporaneità con quelli attinenti all’interiorità dell’uomo, alle sue gioie, alle sue speranze, alle sue sofferenze. Il dialetto, in altri termini, ha conquistato spazi nella poesia sociale come in quella lirica, acquistando così risonanza universale. La sfida era di riuscire a produrre bellezza e
leggerezza con un linguaggio povero e non standardizzato. Posso affermare, confortato da voci ben più autorevoli della mia, che questa sfida è stata vinta. Ed è stata vinta mettendo in campo la peculiarità del dialetto di essere «lingua degli affetti» insieme con la sua capacità
di evocare suoni, sensazioni, emozioni che la lingua italiana non sempre riesce a rendere con pari efficacia e intensità.
Ecco perché, nonostante io avessi preso coscienza di certi limiti del dialetto, alla fine ho deciso di affidare in esclusiva a questo codice linguistico la scrittura delle mie poesie. La decisione è nata dal mio
convincimento che il dialetto permette al poeta di non smentire le proprie radici, di sperimentare nuove soluzioni in un campo in parte inesplorato, di superare il disagio di una lingua italiana che va inaridendosi sotto l’inesorabile pressione dei forestierismi. E poi, più scrivo poesie, più mi persuado che i suoni e le parole del dialetto risvegliano l’inconscio sia nell’autore sia nei lettori.
Il dialetto è lingua del cuore, mentre l’italiano è «lingua del pensiero». Il dialetto ha quindi un potenziale di creatività che non va mortificato, ma utilizzato e sviluppato, in ispecie quando il poeta scopre nel dialetto un mezzo idoneo a dar voce alla verità, a quella esterna come a quella custodita dentro di lui; una verità che altrimenti non riuscirebbe ad emergere, a comunicare, ad emozionare.
Cos’è stata la poesia in dialetto fino al primo Novecento? Un mezzo per rappresentare usi, costumi, tradizioni di noi siciliani; per descrivere il nostro patrimonio paesaggistico; per stigmatizzare vizi e difetti della società isolana; per far sorridere o divertire; per far riflettere sui problemi del nostro popolo; per richiamare l’attenzione sulla famiglia e sui suoi valori; per testimoniare l’attaccamento dei siciliani al sacro e ai suoi riti; per dare testi alla musica, etc.
Cosa sarà la poesia in dialetto del Terzo Millennio? Una poesia che, nel superamento delle esperienze neo-dialettali del secondo Novecento, cercherà nuove funzioni, nuovi stili, nuove tecniche. Una poesia destinata ad abbandonare i temi classici per addentrarsi ancor più nell’intimo del poeta ed esplorarne la coscienza, l’inconscio, il subconscio. Ecco quindi l’accendersi delle immagini e l’uso più
intensivo delle figure foniche, sintattiche, semantiche; ecco la rinuncia alle rime, sia a quelle classiche sia a quelle liberamente inserite fra i versi; ecco la rinuncia ai ritmi tradizionali (settenario, endecasillabo, etc.). Ecco insomma l’abbandono degli schemi classici e l’adesione al versiliberismo, riaffermato emblema di nuove sperimentazioni stilistiche.
E tuttavia, riguardo l’uso della metrica, io penso che ogni poeta possieda un suo ritmo interno legato alla sua musicalità. Perciò, quando l’uso della metrica accentuativa consente a quella dote innata del poeta di esprimersi appieno, non vedo ragioni per rinunciarci.
Penso inoltre a ciò che asseriva Giorgio Caproni: le rime creano una trama di richiami sonori che guidano la lettura; inoltre le rime svolgono, nei confronti dei versi, una funzione portante analoga a
quella che le colonne svolgono nei confronti degli archi. In ogni caso, come per altre attività artistiche, a decidere sarà sempre il gusto del poeta.
Per quanto sopra, e per concludere, non posso sottacere del mio auspicio che la «letteratura ufficiale» tenga nel debito conto i passi compiuti dalla poesia in dialetto verso una creatività che, oggi, le consente di sostenere a fronte alta il confronto con la poesia in lingua italiana, fatti comunque salvi i distinguo fra poesia popolare e poesia colta ovvero - come preferiscono alcuni - fra poesia «dialettale» e poesia «in dialetto». Lo lasciava intendere il linguista Tullio De Mauro quando scriveva che la scelta del dialetto è «una scelta colta, consapevole letterariamente e intellettualmente»; lo comprovano le opere di Ignazio Buttitta, di Santo Calì e di altri poeti siciliani di fine Novecento; lo conferma l’apporto di tanti autori contemporanei che contribuiscono a mantenere vivi i fermenti della poesia in dialetto siciliano.
 
 

(nota in "Çiuri di notti ", ed. Thule, 2019)

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