A 100 anni dalla nascita di Italo Calvino, Giovanni Teresi commenta il suo libro: “Le cosmicomiche”

L’idea del carattere originario del mito, anche come elemento propulsore della conoscenza scientifica, orienterà il progetto calviniano di letteratura cosmica, dopo l’agnizione favorita dalla scoperta della concezione della storia della scienza di Giorgio de Santillana (prof. a Roma insegno storia e filosofia della scienza), punto di partenza per le Cosmicomiche. Mito e cosmologia arcaica si intrecciano in narrazioni piene di fascino, che aprono a Calvino una visione unitaria dell’universo e pongono la questione cruciale di una letteratura scientifica, quella di come far nascere il mito dalla razionalità, l’«idea di raccontare l’universo come una grande macchina scientifico-cosmologica», rovesciando la direttrice individuata da Santillana, in una sfida che Massimo Bucciantini (prof. di storia della scienza) così sintetizza: «È possibile fare narrazione a partire dai risultati acquisiti dal mondo della scienza? Questa è la sfida che Calvino lancia a se stesso e da cui nasce il nuovo progetto […]. Ed è, a pensarci bene, l’esatto rovesciamento del progetto perseguito da Santillana, che era appunto quello di mostrare come nasce la razionalità dal mito, anzi, che la razionalità è forma del mito». Più in generale, Calvino si interroga – con un’evidente reminiscenza leopardiana – su che cosa pensano del satellite «i pastori dell’Asia centrale» e ricerca in questo nuovo orizzonte cosmico lo spazio per estendere i limiti dell’immaginario letterario: «Io vorrei servirmi del dato scientifico come d’una carica propulsiva per uscire da abitudini dell’immaginazione, e vivere anche il quotidiano nei termini più lontani dalla nostra esperienza; la fantascienza invece mi pare che tenda ad avvicinare ciò che è lontano, ciò che è difficile da immaginare, che tenda a dargli una dimensione realistica o comunque a farlo entrare in un orizzonte d’immaginazione che fa parte già d’un’abitudine accettata».

Tale sguardo cosmico non viene ospitato soltanto nelle scelte letterarie dell’ultimo periodo, ma traspare in annotazioni e osservazioni svolte a proposito di altre scritture; è il caso dell’individuazione di uno “stoicismo cosmico” in Montale (1981), che peraltro rievoca l’«universo inospite e avaro» di Leopardi: «Non c’è messaggio di consolazione o d’incoraggiamento in Montale se non si accetta la consapevolezza dell’universo inospite e avaro; è su questa via ardua che il suo discorso continua su quello di Leopardi, anche se le loro voci suonano quanto mai diverse. Così come, confrontato con quello di Leopardi, l’ateismo di Montale è più problematico, percorso da tentazioni continue d’un soprannaturale subito corroso dallo scetticismo di fondo. Se Leopardi dissolve le consolazioni della filosofia dei Lumi, le proposte di consolazione che vengono offerte a Montale sono quelle degli irrazionalismi contemporanei che egli via via valuta e lascia cadere con una scrollata di spalle, riducendo sempre la superficie della roccia su cui poggiano i suoi piedi, lo scoglio cui s’attacca la sua ostinazione di naufrago». Come scriverà in un articolo di cinque anni dopo, Filosofia e letteratura (1967): «La scienza si trova di fronte a problemi non dissimili da quelli della letteratura: costruisce modelli del mondo continuamente messi in crisi, alterna metodo induttivo e deduttivo, e deve sempre stare attenta a non scambiare per leggi obiettive le proprie convenzioni linguistiche. Una cultura all’altezza della situazione ci sarà soltanto quando la problematica della scienza, quella della filosofia e quella della letteratura si metteranno continuamente in crisi a vicenda». Il progetto di “letteratura cosmica” prende corpo concretamente nel 1963 e impegnerà Calvino fino alla morte. Calvino è andato avanti, alla ricerca di un approccio nuovo, più preciso, più rigoroso col mondo: negli ultimi racconti ha cercato, come dice lui stesso, di “impegnare un’immaginazione e un linguaggio siderali, col distacco dell’astronomia”, per raccontare situazioni tipicamente umane, situazioni drammatiche e angosciose, e risolverle con procedimenti d’astrazione, come se si trattasse di problemi matematici. Questo è stato il suo programma stilistico. E forse non solo stilistico».

 

Le Cosmicomiche Ti con zero, proseguono intenzionalmente il grande progetto mitopoietico avviato da Ovidio nelle Metamorfosi, proponendo una raccolta di miti moderni in sintonia con le più aggiornate teorie cosmologiche; e al riferimento ovidiano si aggiungono anche Lucrezio. Nella chiusa di La Luna come un fungo, che mette in scena il distacco della Luna dalla Terra in seguito a una marea solare, sempre alla luce della teoria di George H. Darwin, Calvino propone un desolato sguardo lunare: «Alle volte alzo lo sguardo alla Luna e penso a tutto il deserto, il freddo, il vuoto che pesano sull’altro piatto della bilancia, e sostengono questo nostro povero sfarzo. Se sono saltato in tempo da questa parte è stato un caso. So che sono debitore alla Luna di quanto ho sulla Terra, a quello che non c’è di quel che c’è».

E infine in Le figlie della Luna appaiono le oscillazioni imprevedibili di una Luna «malata» e «smarrita»: «Antiche espressioni come luna piena, mezzaluna, ultimo quarto continuavano a essere usate ma erano soltanto modi di dire: come la si poteva chiamare ‘piena’ quella forma tutta crepe e brecce che pareva sempre sul punto di franare in una pioggia di calcinacci sulle nostre teste? E non parliamo di quando era tempo di luna calante! Si riduceva a una specie di crosta di formaggio mordicchiata, e spariva sempre prima del previsto. A luna nuova, ci domandavamo ogni volta se non sarebbe più tornata a mostrarsi (speravamo che sparisse così?) e quando rispuntava, sempre più somigliante a un pettine che sta perdendo i denti, distoglievamo gli occhi con un brivido».

Mentre in Leopardi lo sguardo sul cosmo si risolve in uno “spettacolo senza spettatore”, in Calvino la presenza dello spettatore, spesso “troppo umano” per essere vero, rende inverosimile lo sguardo stesso mascherando la prospettiva cosmica con una veste comica. Un eccesso di umanità che ben si riconosce se si guarda – nell’occasione di un’eclissi – alla grande pietra sospesa, come propone Roberto Casati nella sua Scoperta dell’ombra: «Per la prima volta ho visto la Luna per quello che è veramente […]. La Luna è un sasso tenebroso piuttosto cospicuo che se ne sta a una certa distanza sopra la mia testa e stranamente non mi cade addosso. Naturalmente conoscevo le leggi che la tengono ben salda in orbita. (…) Di solito la luce diafana della superficie lunare regala allo sguardo l’illusione di una lanterna delicata e leggera. Durante l’eclisse la Luna perde la sua natura di semidea, si separa dalla corte degli altri oggetti celesti visibili, tutti brillanti. […] L’ombra della Terra rivela la vera natura della Luna». La pietra sospesa che l’Alcesti leopardiano sogna di veder cadere nel prato: piccola cosa materiale imparagonabile con la grande Luna immaginaria e poetica.             

 

 

Bibliografia:

Massimo Bucciantini, Italo Calvino e la scienza. Gli alfabeti del mondo, Einaudi, Torino 2007
Italo Calvino, Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, 2 voll., Mondadori, Milano 200 (1995)

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