"UNITÀ E LIBERTÀ" di Antonino Sala

4 novembre, 17 marzo e 25 aprile memoria e gloria del I e del II Risorgimento (la Resistenza)

Il 4 novembre 1918 si chiuse ufficialmente il primo conflitto mondiale per l’Italia con l’entrata in vigore dell’armistizio tra il Regno d’Italia e l’Impero austro-ungarico firmato il 3 novembre 1918 a Villa Giusti. Fu la conclusione di un conflitto sanguinoso che aveva visto contrapporsi i popoli europei e che aveva conosciuto l’orrore di una guerra “industriale” con l’uso di mezzi di distruzione di massa altamente sofisticati e letali per quei tempi, come i gas, l’aeronautica e i carri armati, senza nessun rispetto per la vita umana ma soprattutto la conflagrazione era diventata “una zuffa” senza limite e onore.

Si era tradotto nei fatti l’etimo della parola “guerra”, che gli studiosi della materia fanno risalire a quello di provenienza germanico-longobardo “werra” che ha un’accezione ben diversa da quella latino di “bellum”. Infatti per i popoli barbarici significava più uno scontro disordinato, una baruffa o una mischia, a differenza del significato che gli antichi romani davano a “bellum” cioè di combattimento ordinato. In ogni caso per gli italiani si era tramutato in 650mila morti sui campi di battaglia e secondo il War Office britannico per gli austroungarici in 1.200.000 caduti, su un totale che varia tra 15 milioni e 17 milioni di morti, e se includiamo le vittime mondiali della influenza spagnola del 1918-1919 le cifre toccano i 65 milioni.

Aveva ragione Sua Santità Benedetto XVI quando il 1 agosto 2017 definì il conflitto “una lotta tremenda, la quale, ogni giorno più, apparisce inutile strage”, mi permetto di aggiungere come tutti gli scontri armati: dalla guerra del Peloponneso all’odierna Ucraina nulla cambia e la striscia di sangue rimane indelebile anche a distanza di secoli. La svolta nella Prima guerra mondiale per noi avvenne a seguito della “battaglia del solstizio”, così chiamata da Gabriele D’Annunzio, combattuta dal 15 al 24 giugno 1918 tra l’esercito Imperiale austro-ungarico e il Regio esercito italiano: l’ultima grande offensiva delle truppe imperiali che si infranse contro la resistenza italiana sulla linea del fiume Piave. L’insuccesso delle forze dell’Impero, ormai logore e colte di sorpresa dalla grande ostinazione italiana nel non mollare a tutti i costi, culminò il 24 ottobre con la battaglia di Vittorio Veneto che arrise alle truppe italiane.

Nemmeno Francesco Saverio Nitti credeva nel nostro successo tant’è che scrisse allora capo del governo Vittorio Emanuele Orlando “siamo battuti, l’offensiva è infranta, si profila un disastro e tu ne sei il responsabile”, ma il rifiuto dei reggimenti cechi, polacchi e ungheresi a proseguire i combattimenti determinarono quella che Indro Montanelli chiamò “una sorta di Caporetto alla rovescia” e aprì le porte invece allo sfondamento italiano.

Subito dopo le conseguenze militari si tramutarono in politiche aprendo la strada all’armistizio firmato il 3 novembre che entrò in vigore il 4 novembre. Nonostante già dal 3 ai soldati austriaci era stato dato l’ordine di fine ostilità, non fu tenuto in conto dal solito Badoglio che ordinò che si continuasse come se nulla fosse, prendendo prigionieri intere divisioni nemiche, con l’infamante esito che ai nostri soldati fu poi lanciata l’accusa di una vittoria poca onorevole “contro un esercito che non combatteva”.

Il governo dell’unione liberale guidato da Vittorio Emanuele Orlando aveva concluso il Risorgimento con la vittoria nella IV Guerra d’Indipendenza raggruppando sotto un’unica corona i territori che ancora oggi, più o meno sono quelli della Repubblica Italiana. Un esecutivo sostenuto dal Partito democratico costituzionale italiano e dal partito democratico di ispirazione liberal sociale, dall’Unione elettorale cattolica italiana di ispirazione cristiana liberale fondato a Roma nel 1906 da Vincenzo Ottorino Gentiloni, dai cattolici conservatori nato come gruppo parlamentare nel 1861 e poi divenuto partito nel 1913 di idee conservatrici e clericali, dal Partito radicale storico, da non confondere con quello attuale, che aveva le sue radici culturali nel mazzinianesimo e nell’anticlericalismo di stampo risorgimentale, dal Partito socialista riformista italiano, dal Partito repubblicano italiano.

Celebrare oggi il 4 novembre non significa certamente solo ricordare una vittoria militare ma la grande epopea guidata dalla destra storica di cultura liberale del Risorgimento. Significa onorare i morti e dare ai vivi un orientamento per il futuro, perché la recente proposta del presidente del Senato Ignazio La Russa di indire come festa nazionale anche il 17 marzo come memoria della proclamazione del Regno d’Italia e dell’unità, se realizzata, farebbe il paio proprio con il 4 novembre: sarebbe la giusta collocazione di due eventi storici fondativi dell’Italia unita e moderna. Seppur con tutte le criticità che gli avvenimenti storici di così grande portata, che coinvolgono milioni di persone, inevitabilmente trascinano con sé, questi due momenti sono rappresentativi della italianità contemporanea, come lo è per gli Stati Uniti d’America la Guerra d’indipendenza dal Regno di Gran Bretagna.

Così oggi ci si offre l’occasione di rivivificare i più nobili sentimenti patriottici nella giusta collocazione storica: il Risorgimento. Quello che avvenne poi dopo l’unificazione, con l’estensione della legislazione prima del Regno di Sardegna all’ex Regno delle Due Sicilie e poi quella del Regno d’Italia ai nuovi territori, segnò l’ingresso degli Italiani nel novero dei popoli che si ispiravano nella pratica di governo alle liberal democrazie più avanzate di allora, come appunto gli Stati Uniti d’America o l’Inghilterra.

Solo per citare due esempi: la legge sulla libertà di stampa che porta l’indissolubile firma dell’allora capo del Governo del Regno di Sardegna Camillo Benso di Cavour, il quale ne era un così convinto sostenitore che nel 1848 affermava che fosse “il primo principio d’ogni prosperità sociale, la libera e rapida circolazione delle idee” ritenendola il presupposto per lo sviluppo di un popolo, pur sapendo che essa, come tutte le attività umane, può avere risvolti poco piacevoli per gli uomini politici “infatti, affermava, gli amici della libertà sanno e dicono sempre che non è possibile godere i vantaggi della stampa senza soffrirne gli inconvenienti; si è sempre detto che essa, come la lancia di Achille, ferisce e sana ad un tempo”. Ed anche le riforme nei trasporti, per la libera impresa e per le libere elezioni che si tennero a suffragio ristretto anche e finalmente al sud che solo dal 1812 era uscito, almeno formalmente, dalla feudalità.

E così con l’Unità italiana arrivarono le altre conquiste in ambito sociale e politico come il suffragio universale maschile del 30 giugno 1912 ad opera del governo Giolitti. Un allargamento dei confini nazionali certamente fu la guerra ma anche un’estensione dei diritti costituzionali: la cifra di un modo di pensare lo Stato retto da liberali e conservatori, a tratti con il contributo essenziale delle forze della sinistra storica, quella più avveduta e moderata. Oggi con la proposta La Russa, se attuata avremmo la possibilità di riappropriarci come nazione, termine tornato in voga con il nuovo governo, di un patrimonio culturale fatto di libertà e progresso.

Ma c’è un’altra idea che mi sento di offrire nel dibattito intorno a questi temi: il 18 marzo 1983 si spense in esilio l’ultimo Re d’Italia S.M. Umberto II e lì rimase sepolto, a distanza di 40 anni dalla sua morte sarebbe un ulteriore momento di conciliazione patriottica riportarlo a casa qui in Italia, magari proprio tra i padri della patria a Roma nel Pantheon.

A lui certamente non possono essere imputati gli anni del fascismo, nemmeno le varie guerre in cui fummo trascinati, né le infami leggi razziali, anzi se dopo il referendum del 2 giugno 1946, i cui risultati furono da subito contestati dal mondo fedele alla Monarchia e da parte di esponenti della politica ed anche dell’esercito, non scoppiò un altro conflitto fratricida, e le avvisaglie c’erano tutte vista la strage di via Medina a Napoli dell’11 giugno 1946 nella quale morirono nove militanti monarchici e che causò un centinaio di feriti, fu grazie alla saggezza e alla benevolenza di Re Umberto II che preferì lasciare la sua terra per evitare ulteriori lutti al popolo. Fu un gesto di signorilità e magnanimità d’animo impareggiabili, perché come lui stesso disse la monarchia non poteva reggersi con il cinquanta più uno percento dei consensi era altro, il filosofo Tommaso Romano in “Tradizione regale. Singolarità fra autorità e libertà ed. Thule” scrive è una mistica.

Il ritorno del Re in Italia, come per il suo predecessore e padre Vittorio Emanuele III, non sarebbe solo un gesto di pietà cristiana ma un momento in cui veramente anche la destra farebbe i conti definitivamente con la propria storia e sarebbe anche il riconoscimento definitivo della lotta di liberazione dall’invasore tedesco e dal nazifascismo. D’altronde non credo che l’istituzione Repubblica, peraltro molto sentita dal presidente Meloni, abbia nulla da temere per la sua tenuta, anzi come è stato per altre nazioni europee ne acquisterebbe solo ulteriore prestigio.

Si perché lo stesso Umberto, sia da principe di Piemonte che da luogotenente del Regno, con funzioni di Re, si mise alla testa delle formazioni dell’esercito che lottarono contro i reparti della Wehrmacht presenti in Italia rendendosi protagonista di azioni al limite della temerarietà. Altri e alti meriti potrei enumerare ma mi sembrano più rilevanti da rimembrare: l’abolizione della pena di morte, lo status di cobelligeranti degli alleati, lo statuto dell’autonomia alla Sicilia, suffragio universale in occasione del referendum 2 giugno del 1946.

Sarebbe un gran giorno per l’Italia dopo avere festeggiato oltre al 17 marzo, giorno della proclamazione del Regno d’Italia, gioire per il ritorno del Re, questa volta per sancire che la Resistenza fu il nostro secondo Risorgimento ed anche per questo mi permetto di offrire un consiglio “non richiesto”, alla presidente Meloni: festeggi il 25 aprile insieme al presidente della Repubblica Sergio Mattarella in nome della libertà ritrovata e speriamo mai più persa, magari a Mignano Montelungo dove iniziò il riscatto dell’Italia proprio 80 anni fa, con la battaglia che dal 7 al 16 dicembre 1943 vide per la prima volta durante la II guerra mondiale il nostro esercito cobelligerante contrapporsi ai reparti statunitensi agli invasori tedeschi, costringendo i nemici alla ritirata sulla linea Gustav.

E lì Umberto II andò volontario per una pericolosa missione di ricognizione aerea volando sopra le linee tedesche, nel mezzo di un fitto fuoco di sbarramento della contraerea tant’è che Edwin Walker, comandante del terzo reggimento del First Special Service Force, lo propose per la Bronze Star Medal, che non gli fu conferita per opportunità politiche. Questo per rammentare a tutti che la Resistenza, il Secondo Risorgimento, fu combattuta da monarchici, liberali, cattolici, socialisti, e non solo dai comunisti, ed oggi deve essere una memoria condivisa e unitiva come lo fu il primo.

 

in: l'opinione delle libertà.it, 4 novembre 2022

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