"Nobiltà di spada, di toga e di carta" di Carmelo Currò

La redazione del giornale spagnolo "Cronica", nello scorso mese di aprile affermava che a questo mondo non è stato ancora visto tutto. L'articolo commentato dava infatti la strana notizia dell'arresto di un cittadino iberico, accusato di aver trafugato un volume manoscritto del XVI secolo, allo scopo di falsificarlo e di poter così essere ammesso come cavaliere nobile nell'Ordine (quello vero) di Malta.
Dobbiamo smentire il collega spagnolo. Mai come in questo eveniente, il proverbio che recita "niente di nuovo sotto il sole" fa proprio al caso nostro, poiché il furto, la falsificazione, le aggiunte, costituiscono ben note attività per consentire ai maniaci della nobiltà e delle decorazioni di dare corpo ai loro sogni di gloria.
Come si sa, dopo il Concilio di Trento, la Chiesa dispose in tutto il mondo cattolico la registrazione dei Sacramenti, in modo da controllare l'effettiva applicazione dei dettami canonici. Si avevano già casi isolati in cui alcuni zelanti sacerdoti annotavano i battesimi o i matrimoni dei loro parrocchiani; ma in seguito ai precetti conciliari, l'uso fu reso obbligatorio, con alcuni formulari precisi come quelli che prevedevano il nome dei genitori dei bambini, quello dei padrini, le date di nascita e di battesimo (gravissime sanzioni colpivano coloro che facessero passare molti giorni tra i due eventi).
Allora, in una società regolata da consuetudini inattaccabili, quasi ovunque si iscrivevano le persone secondo il grado che ricoprivano (o era loro riconosciuto) nella società. Ad esempio, se i genitori erano contadini, pastori o carbonai, come la stragrande maggioranza della popolazione, nessun appellativo accompagnava il loro nome; se erano artigiani ricchi o possidenti, al nome si aggiungeva talvolta la dicitura "magnifico" o “spettabile”; se nobili, si introduceva il "don" o si ripeteva “il magnifico”; e se nobili titolati, si scriveva il titolo completo.
Ora, il povero sognatore, aspirante barone, sedicente aristocratico e sfortunato ricercatore di antenati nobili, se nelle inutili indagini genealogiche non trova il suo Eldorado cartaceo, ha pochi mezzi per ascendere alla sospirata corona: o chiude un occhio ed entra in uno tra quegli ordini falsi che a prezzo d'occasione concedono titolo cavalleresco, nobiliare e uno stemma (in genere simile a quello di una famiglia nobile che per caso ne porta lo stesso cognome); o si inventerà qualche via d'uscita. E' tramontata la scusa dell'incendio degli archivi e dei roghi protestanti: troppa gente ha scoperto la copie, le trascrizioni, fondi archivistici alternativi, regesti pergamenacei che testimoniano come le antiche carte siano ineducatamente ancora esistenti e testimonino uno scomodo passato.
E allora, perché non ricorrere alla falsificazione? Che nobili veri abbiano fatto tanti giochi di prestigio con le loro carte, è ben saputo. Nel mio libro "La casa di Morgana", ricordavo come due nobilissime famiglie messinesi, l' Arena e la Silipigni, pretendendosi discendenti l'una dai Re normanni, l'altra da un condottiero ravennate, ignoravano o fingevano di ignorare di avere molto probabilmente come loro avi alcuni doviziosissimi mercanti o agricoltori di cui rimangono di grande prestigio (come quello di Calatrava), era necessario far sparire antenati che si fossero dedicati a lavoro allora ritenuti non aristocratici (ma che avevano fatto la loro fortuna); o inventarsene di nuovi.
Ho ricordato già più volte il grido (isolato e inascoltato) di allarme che il canonico minorese Pompeo Troiano, vissuto a cavallo fra il Sei e il Settecento, lanciava alla società, alla Chiesa e ai nobili, a proposito delle incursioni compiute dai ricchi mer inopportuni documenti. Per essere ammessi in Ordini canti dell'area amalfitana tra i registri parrocchiali. Pompeo che era un grande esperto di documenti e pergamene, aveva scoperto che i registri sparivano dalle chiese, per poi riapparire “aggiornati”, riempiti e pronti all'uso. In pratica, riempendo alcuni spazi vuoti, si aggiungevano nomi di inesistenti antenati nobili di un mercante; nomi che tra loro formavano un albero genealogico. Oppure si cancellavano e modificavano i cognomi di nobili le cui famiglie erano estinte, inserendo quelli dei committenti delle falsificazioni. A questo punto il committente poteva presentarsi dal parroco (quasi certamente già al corrente) e farsi preparare la certificazione che ne attestava l'antica nobiltà. A quanto pare la brutta abitudine era ancora in uso alcuni decenni fa, quando un frate abile calligrafo confessò di aver riempito i vuoti di un registro parrocchiale conservato un paese meridionale, per accontentare un professionista amico e farlo accedere in due Ordini prestigiosi (da cui fu peraltro espulso dopo un accurato controllo della sua artefatta discendenza dai soliti principi bizantini).
Niente di nuovo, dunque, neanche nella tradizionalissima e sfolgorante Spagna della nobiltà che ha saputo comunque difendere la sua storia e il suo materiale culturale.
Ma ormai i principi bizantini, niceani, trebisuntini, balcanici, dodecanesiani e moscoviti in cui ci imbattiamo quotidianamente non hanno neppure bisogno di questi artifizi: per sostenere i loro affari cartacei a loro basta solo mentire, inventarsi uno stemma e una serie di titoli di cui i veri sovrani d'Oriente non avevano ai loro tempi alcuna cognizione. Noi siamo abituati a digerire.
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