“Jacopo della Quercia – Donatello” di Luigi De Mitri

Il contesto socio–culturale in cui  vede operare Jacopo Della Quercia e Donatello è stato senza dubbio uno dei più esaltanti della storia dell’Arte, e non solo. “L’Umanesimo”: è in questo momento che l’uomo prende coscienza delle proprie capacità cognitive, ponendosi al di sopra del mondo e della natura, ove tutto converge in lui e diverge da lui.
Non è più un sentimento incerto di fiducia sotto lo stimolo di un bisogno naturale, come lo è stato nella civiltà Romanica ed in parte in quella Gotica, ma è una forte e sentita convinzione che deriva non solo da un atteggiamento individuale, ma da un preciso pensiero filosofico.
Il continuo obiettivo della filosofia Umanistico–Rinascimentale è stato determinante per far sentire l’uomo al centro dell’universo, esaltandone tutte le qualità, in primis la ragione, come sì evince dal pensiero dell’Alberti, del Ficino, del Poliziano, del Landino, del Pulci e di Pico della Mirandola, il quale affermò che l’uomo libero è artefice e costruttore del proprio destino.
Questo voleva dire che l’uomo rivendicava la piena autonomia del proprio pensiero intellettivo e spirituale, senza però mettere in discussione i valori religiosi, semmai era il contrario: infatti i valori religiosi vennero esaltati e connessi con i nuovi valori, propri della natura umana. Lo stesso Pico Della Mirandola, infatti, sottolineava che l’uomo nella sua esaltazione manifestava il forte desiderio di identificarsi a Dio. E’ in questo periodo che la ragione diventa la protagonista in assoluto, per capire ed indagare prima se stessi, poi il mondo ed i fenomeni naturali che nel Medioevo venivano accettai come verità rivelate. L’Arte in questo periodo inizia ad avere un ruolo determinante, contribuendo a fare sentire l’artista non più come costruttore di immagini, come nel Medioevo, ma un uomo pensante capace di progettare e realizzare la propria opera. E’ in questo periodo che all’Arte verrà riconosciuta la sua normale funzione civile, considerandola tra le più alte manifestazioni spirituali dell’uomo, accostandola a pieno titolo alla poesia, alla musica, alla matematica per i suoi fondamenti sulla prospettiva, come anche alla filosofia per la formulazione di una nuova disciplina: “l’Estetica” dando inizio alla critica d’Arte.
E’ in questo contesto che  l’artista sente il dovere di creare nuove forme e di aspirare ad avvicinarsi sempre di più verso quell’ideale estetico ed universale che aveva fatto grande la civiltà greca classica, il cui obiettivo era la gloria ed il successo personale. Ritengo che sia stato questo il motivo principale che ha incentivato lo sforzo degli artisti del Quattrocento a creare sempre nuove forme per poter primeggiare sugli altri.
Il risultato è stato quello di realizzare opere immortali che il mondo intero ci invidia.
Donato di Niccolò dè Bardi  detto Donatello (1386 ca-1466) nasce a Firenze da Niccolò di Betto Bardi cardatore di lana e da Monna Orsa.  La sua potente genialità creativa e la sua modernità di linguaggio in breve tempo lo porteranno ad incidere profondamente sul pensiero  filosofico umanistico e a rivoluzionare totalmente l’arte della scultura. Con lui si chiude definitivamente con il passato per avviarsi ad esplorare con la ragione se stessi ed il mondo circostante.
Forse sarà stato, come sostiene qualcuno, di modesta cultura come suo padre, ma come artista merita a pieno titolo di fare parte insieme al Ghiberti, Jacopo della Quercia, Masaccio, Brunelleschi e l’Alberti tra le personalità più rappresentative dell’Umanesimo. Donatello come età anagrafica è quasi coevo dell’amico e protettore Cosimo dei Medici  (1389), sei anni più giovane del suo amico e rivale Nanni di Banco (1380), otto anni più giovane del Ghiberti (1378), nove anni più giovane del Brunelleschi (1377), quindici anni più anziano di Masaccio ( 1401), dodici anni più giovane di Jacopo della Quercia 1374. L’inserimento di Jacopo della Quercia tra gli innovatori dell’umanesimo non è casuale ma voluto, perché ritengo giusto e onesto riconoscere a questo grande talento la sua giusta collocazione.
La sua potente personalità di artista merita di diritto di far parte della schiera degli artisti citati in precedenza.
In virtù di questo, sento la necessità di valutare alcune sue opere prima di affrontare la figura di Donatello.
Jacopo della Quercia nasce a Quercia Grossa, un borgo presso Siena, tra il 1373/74, figlio di Angelo Guarnieri scultore ed orafo e forse anche politico, secondo le notizie  inviateci da Giorgio Vasari, che lo vuole fuggito insieme a suo figlio a Lucca per ragioni politiche intorno al 1391. Da notizie certe Jacopo nel 1394 si trovava a Lucca per eseguire l’Annunciazione lignea per la chiesa di Benabbio; nel 1401, data della  sua partecipazione al concorso per la realizzazione della seconda porta del Battistero di Firenze, si trovava a Firenze, dove ha avuto modo di incontrare il Ghiberti  e forse Donatello ed il Brunelleschi. Dopo la partecipazione a questo concorso, che come si sa, fu vinto dal Ghiberti, Jacopo viene chiamato dal signore di Lucca Paolo Guinigi intorno al 1406 per eseguire il monumento funebre della giovanissima moglie Ilaria del Carretto morta di parto nel 1405. Ilaria era figlia del Marchese Carlo del Carretto, sposata con Paolo Guinigi nel 1403, 1404 partorì un maschietto di nome Ladislao. Ilaria era la seconda moglie di Paolo, la prima Maria Cristina degli Antelminelli fu abbandonata perché il matrimonio non venne consumato. Alla data di questa committenza Jacopo aveva 31 o 32 anni, in piena maturità artistica e l’esito di questo eccezionale monumento lo conferma. E’ un opera di un’intensità artistica di altissimo livello, da non riuscire a capire l’ostinazione di alcuni critici che ancora si chiedono se Jacopo sia stato un artista Gotico o Rinascimentale.
Jacopo con quest’opera può competere con la grandezza dell’idealizzazione Fidiaca, le cui passioni scompaiono per dare posto all’idea, all’archetipo della bellezza e dell’esistenza. Solo con quest’opera dovrebbe entrare di diritto senza tentennamenti tra gli innovatori dell’Umanesimo. Il suo approccio con il mondo classico è molto più profondo rispetto ad alcuni acclarati innovatori, perché non si basava solo sul recupero del pensiero filosofico o del canone di bellezza, ma sulla struttura portante dell’arte classica Greca, quella dell’essenza e dell’esistenza. Jacopo con questo monumento rompe con la tradizione del monumento funebre a parete dei periodi Romanico e Gotico, per recuperare il sarcofago dei periodi Etrusco – Romano – Cristiano, dove la defunta o il defunto venivano rappresentati sul coperchio. In verità, precedentemente Claus Sluter (1340 – 1406) scultore Fiammingo, si era già servito del sarcofago per il monumento funebre dei Duchi di Borgogna. Jacopo però alla fredda indagine plastica di Sluter  inserisce una ricerca introspettiva in grado di ottenere una umanizzazione capace di sottolinearne la bontà, la dolcezza e l’accettazione della morte. Il volto di Ilaria sembra che ancora non sia stato raggiunto dalla morte, come anche parte del corpo. Infatti analizzandolo attentamente sembra pervaso da un moto mortale che parte dai piedi e gradualmente si avvia verso il volto, lasciando tra la vita e la morte il tratto del corpo dalle mani al volto.
Azzardo un parallelismo: è come il percorso salvifico portale-altare delle cattedrali Romaniche Gotiche, in cui ci  si avvia dal buio del peccato all’esaltazione della luce; sta qui tutta la genialità di Jacopo: esistere-non esistere, vita–morte, in un'unica soluzione.
Ilaria sembra che stia dormendo e che stia sognando qualcosa di piacevole da quanto si deduce da quella quasi impercettibile smorfia delle labbra e degli occhi, anche se sono chiusi, ma il loro valore plastico–luministico rendono le palpebre quasi trasparenti da farceli vedere nella loro reale bellezza.
Altro geniale accorgimento di Jacopo è stato quello di aver incorniciato il volto del soggolo e del cercine fiorito e delle chiome dei capelli che le scendono lateralmente; tutto questo gli ha permesso di evidenziare la delicatezza epidermica e finanche il suo diafane colorito. Discutibile la frase del Longhi in merito all’abbigliamento di Ilaria: “la pompa crudele  del gotico di parata”, senza pensare che gli abiti che indossa sono quelli del suo momento storico e del suo rango sociale, forse avrebbe voluto vederla vestita come una contadinotta?
Altro particolare eccezionale sono le mani, per la loro bellezza e ricerca anatomica, dove ancora si evince l’ultimo soffio vitale. Proprio le stesse mani, infatti, per la loro  bellezza lineare e grafica, influenzeranno successivamente due grandi artisti come il Verrocchio, nella Dama del Mazzolino, e Leonardo, nella Gioconda. Concordo con alcuni critici che riscontrano nella linearità delle pieghe della pellanda elementi Gotici, ma è anche vero che si nota pure una ricerca realistica nell’andamento di alcune pieghe che ne modellano  il corpo.
Jacopo, quindi, palesa elementi gotici; il che mi sembra naturale considerando la sua formazione artistico–culturale della scuola Senese che era basata sull’eleganza, la raffinatezza e la sinuosità della linea, che erano i punti di arrivo di ogni artista a differenza della scuola Fiorentina che era  basata sulla plasticità e la forza grafica.
In virtù di questo, trovo discutibilissimo il pensiero di Cornellius 1896 e del Perkins 1864: “che a Jacopo mancassero la delicatezza la raffinatezza e l’eleganza dei grandi fiorentini”.  Altro accorgimento geniale è la presenza ai piedi di Ilaria del proprio cane, che come si sa è simbolo di fedeltà coniugale, ma al di là del simbolo, la sua presenza così piena di vita, sottolinea e rafforza l’idea della vita-morte di Ilaria, in una grande e geniale soluzione. Il cane presenta ammirevoli passaggi plastico luministici che denotano una conoscenza profonda del dato oggettivo, questo però in arte è relativo, la grandezza di Jacopo sta nell’aver dato quel soffio vitale che solo i grandi artisti se lo possono permettere.  Il sarcofago presenta  sulle  facce lunghe degli amorini che reggono dei festoni, in quelle corte trovano posto gli stemmi delle due famiglie,  Guinigi – Carretto.
A mio parere anche gli amorini sono stati realizzati da Jacopo e non da Valdombrino o da  Civitale come alcuni sostengono.
Il monumento fu smembrato nel 1432, dopo la morte di Paolo Guinigi. Poi fu ripreso, aggiungendo nel 1800 la base. Successivamente alcuni pezzi sono stati ritrovati nella bottega del maestro Matteo Civitali, così solo nel 1913 il monumento fu ricomposto in tutte le sue parti.
Altra opera di mano del maestro è la “Speranza” (marmo 110*90), faceva parte della seconda nicchia della fonte Gaia, i cui frammenti originali si trovano presso il Palazzo Pubblico di Siena. L’opera gli fu commissionata nel 1409 e fu portata a termine nel 1419. Quest’opera, pur trattandosi di un’opera allegorica, palesa un linguaggio del tutto quattrocentesco per l’analisi del reale che è cosi evidente, specialmente nell’indagine psicologica capace di trasformare la materia in un personaggio vero, deciso e sicuro. Il tutto viene  suggellato da una forte concentrazione dello sguardo, che guarda lontano,  direi in embrione quello del “David” di Michelangelo, che sicuramente avrà notato ed apprezzato l’opera di Jacopo.
La figura si presenta seduta con le gambe rivolte a sinistra (guardando) e il corpo e la testa sono rivolti a destra, questo contrapposto favorisce nella mente del fruitore un’acquisizione cognitiva prospettico–spaziale importante, perché ne sottolinea l’energia vitale che la pervade. Non vi è dubbio che anche questo particolare è stato oggetto di studio da parte di Michelangelo facendolo proprio e manipolandolo secondo la sua potente personalità,  da come si evince in diverse sue opere, dal Tondo Doni alle Sibille ai profeti della Sistina, al Mosè e ad altre; come anche a Michelangelo e a Donatello non gli è sfuggito il meraviglioso dialogo tra avambraccio-polso–mano che si nota in quest’opera. Ritengo che Jacopo sia rimasto affascinato dalla bellezza del volto e delle mani di Ilaria del Carretto che inconsciamente o consciamente ha riproposto in quest’opera, ridandogli la vita.  Infatti, analizzando il volto di Ilaria con il volto della Speranza si possono notare alcuni particolari in comune, come l’ovale del volto, la profondità e la conformazione degli occhi, l’inserimento del naso con lo stesso valore plastico–anatomico e le labbra con lo stesso valore grafico. La Speranza si presenta mutila della mano destra mentre la sinistra pur abrasa dal tempo, presenta un impianto grafico che richiama le mani di Ilaria.
Alcuni studiosi attribuiscono l’opera della “Madonna col Bambino” nel Duomo di Siena a Jacopo giovane, collocandola intorno al 1395/97. Personalmente trovo delle difficoltà nel notare anche la minima traccia della sua personalità, forse l’autore potrebbe essere o Masseo da Lucca o Giovanni da Imola o qualche altro suo collaboratore. La Madonna come si può notare si sviluppa su di un asse ad “esse” tipico del periodo Gotico fiorito o Internazionale, come anche l’andamento delle pieghe che sembrano scendere verso il basso, ma in realtà vanno verso l’alto. Il volto plastico–monumentale presenta tratti somatici lontani dalla personalità di Jacopo come anche l’impianto grafico delle mani. L’attenuante di attribuire l’opera ad un  Jacopo giovane da parte di alcuni critici  non può bastare a determinare la sua paternità, perché nelle opere giovanili dei grandi artisti si notano sempre le tracce della loro personalità.
Se pensiamo a Michelangelo che aveva 16 anni quando ha realizzato la Centauromachia o la Madonna della Scala o a 23 anni quando ha realizzato la Pietà Vaticana, i “Segni” della sua potente personalità futura vi sono. E come!
In virtù di questo mi diventa difficile accettare tale attribuzione. Spesso capita che alcuni studiosi per attribuire un’opera ad un grande  artista, per ragioni estranee all’arte, si servono del solito stratagemma etichettando l’Opera  come “Opera giovanile”, perché sono della convinzione che in pochissimi metteranno in dubbio il loro cattedratico giudizio. L’opera nella sua stesura plastica suggella un percorso artistico che va da Nicola a Giovanni Pisano ed in particolare verso Arnolfo di Cambio.
Altro elemento che mi convince a non accettare la paternità a Jacopo è la mancanza di comunicabilità fra madre e figlio, cosa alquanto strana per un artista di tale portata. (Vedere lo straordinario dialogo muto che intercorre tra la madre ed il bambino nelle Madonne di Giovanni Pisano, che sicuramente Jacopo ha avuto modo di vedere tra Pisa e Siena) Altra opera dubbia di mano del Maestro è l’altare della famiglia Trenta in San Frediano a Lucca, iniziato verso il 1416 e terminato verso il 1422.
L’altare nella totalità dell’assieme presenta stilemi del Gotico Fiorito e diversi interventi dei suoi collaboratori, tanto  da non permettere una valutazione chiara e precisa. Trovo interessante e forse di mano del Maestro i Santi Orsola e Lorenzo. L’opera tutta di mano di Jacopo è la formella Bronzea del fonte battesimale del San Giovanni di Siena. L’opera gli fu commissionata intorno al 1417 e consisteva nella realizzazione di due formelle quadrangolari, Jacopo riuscì a portarne a termine una solamente, quella dell’ “Annuncio a Zaccaria”;  l’altra, come si sa, fu realizzata da Donatello, rappresentante il “Banchetto di Erode”.  Altre due furono realizzate dal Ghiberti, il “San Giovanni Battista” e il “Battesimo di Cristo”; le ultime due furono realizzate da Turino di Sano e da suo figlio Giovanni. Vedere insieme  le opere di queste grossissime personalità per la compilazione di questa ammirevole opera, sarà stato sicuramente un evento storico, anche perché erano passati sedici anni quando Ghiberti e Jacopo parteciparono  al concorso Fiorentino per la seconda porta del Battistero. In tale circostanza la storia li aveva visti come concorrenti, invece adesso li ritrova maturi e famosi, ognuno con la loro forte personalità. Questa volta la formella di Jacopo è arrivata a noi in tutto il suo splendore a differenza della formella del “Sacrificio di Isacco” presentata per il concorso sopra citato, che, come si sa, non è arrivata a noi.
Questa importante opportunità  di vedere insieme Donatello, Ghiberti e Jacopo della Quercia consente di valutare con più obbiettività queste tre grandi personalità sotto il profilo artistico–culturale e di poter evidenziare  dove sono presenti le spinte innovative dell’Umanesimo.  La prima impressione che si nota di fronte alla formella di Jacopo è la differenza stilistica con le opere precedenti.  I personaggi rappresentati presentano una individualità psico–somatica ed una gestualità ben studiata nell’assieme dell’organizzazione prospettico–spaziale tra le figure e le strutture architettoniche.
La partecipazione di ogni singolo individuo presente  all’evento è sottolineata da un misto di meraviglia e di consenso per il miracolo che si sta svolgendo sotto ai loro occhi, l’incontro tra il trascendente e l’immanente.  Tutta la composizione è divisa da un asse verticale passante per il centro del contenitore dell’incenso e dell’altare su cui poggia. A sinistra dell’altare Zaccaria,  a destra L’Angelo (guardando), in questo modo Jacopo ha ottenuto lo  spazio ideale per potenziare il dialogo fra i due.
L’Angelo Gabriele comunica al vecchio  Zaccaria che avrà un figlio, il quale incredulo e stupito dalla notizia si porta la mano sinistra sul petto, come se volesse dire proprio io avrò un figlio? O anche potrebbe essere interpretato come segno di accettazione e di gratitudine verso Dio, lo stesso gesto nel 1600 il Merisi lo riproporrà con il San Matteo. L’evento storico avviene nell’interno di un tempio, le sue strutture architettoniche si sviluppano su piani degradanti ottenuti mediante lievi aggetti, alla maniera dello stiacciato donatelliano. La prospettiva frontale gioca un ruolo determinante nell’organizzazione dei vasi murari il cui punto di concorso ed il punto principale sono collocati a sinistra fuori dal riquadro, ad un’altezza quasi tangente alle teste dei personaggi posti a sinistra in primo piano.
I panneggi  dei personaggi sono studiati e modellati con grande maestria, avvolgono  i corpi secondo la loro specifica struttura anatomica, la quale è  intrisa da una notevole forza plastica. La luce gioca un ruolo importante  e determinante in quest’opera,  Jacopo l’ha manipolata  e convogliata sui punti chiave della composizione, sia sulle figure che sulle strutture murarie, ottenendo un unicum ben equilibrato tra luce ed ombra in grado di determinare  le singole espressioni,  le differenze somatiche dei personaggi e i loro valori prospettici. Si rimane incantati o allibiti nel constatare la bravura di Jacopo da come è riuscito a modellare ogni singolo volto, specialmente quello di Zaccaria e dell’Angelo.  Entrambi evidenziano una forza somatico–espressiva impressionante, ottenuta con tocchi di stecca e di pollici  rapidi e sicuri, senza tentennamenti e ripensamenti  sottolineati da un’oculata luce ben organizzata. Il tutto per focalizzare l’attenzione “sull’Intesa” tra i due, attraverso dei messaggi muti che sono  sottolineati dai loro decisi sguardi che viaggiano entrambi su una stessa linea orizzontale in un moto perpetuo di andata e ritorno.
E’ qui tutta la grandezza di Jacopo, è qui la sua modernità,  capace di competere alla pari con la grandezza degli altri innovatori dell’Umanesimo.
Per capire il valore artistico di Jacopo, ritengo opportuno confrontare la sua formella con quella di Donatello.
La formella Bronzea di Donatello presenta le stesse dimensioni (cm. 60x60) di quella di Jacopo e del Ghiberti, l’episodio rappresentato è il “Banchetto di Erode”. Quell’Erode che in pubblico fu redarguito da Giovanni Battista per aver ripudiato la moglie solo per poter sposare Erodiade, madre della bella Salomè. Per questo motivo Erode decise di fare arrestare il Battista e ad un incontro conviviale lo stesso Erode, già mezzo ubriaco, fu affascinato dal movimento danzante della bella Salomè, tanto che arrivò a prometterle di chiedere qualsiasi cosa, che sarebbe stata esaudita.
Salomè chiese ed ottenne di avere su di un piatto la testa del Battista. L’episodio già per se stesso è drammatico e terrificante, a differenza di quello di Jacopo dove aleggia un sentimento di stupore per la presenza dell’Angelo che reca il messaggio di Dio a Zaccaria.
Nella formella di Donatello l’evento si svolge ugualmente in un interno, non  più in  un tempio sacro, ma nel palazzo reale. La composizione è sostenuta da una piacevole articolazione prospettica dei vasi murari che sono ordinati da una valida prospettiva frontale. Stranamente Donatello in un’unica composizione  rappresenta diverse fasi temporali dell’accaduto, che, come si sa, è un  retaggio storico del passato: vedere  Andrea Pisano,  Giotto,  Masoliono da Panicale ed anche artisti del suo momento storico,  Masaccio e Piero della Francesca.
Il tavolo insieme alle strutture murarie degradanti verso  la profondità  sono paralleli al quadro prospettico, mentre le linee delle loro profondità sono perpendicolari e in geometria descrittiva, tali linee concorrono al punto principale che si trova al centro dell’asse verticale, all’altezza del primo marcapiano. Il tavolo gioca un ruolo determinante nella distribuzione spaziale delle figure. In avanti, vicino all’osservatore, Donatello ha posto le figure rappresentative delle fasi temporali dell’evento storico,  a destra (guardando) Salomè con i carnefici, a sinistra il militare che offre a Erode la testa del Battista su di un piatto, il quale alla vista di tale scempio si tira indietro terrificato, lo stesso dicasi per i due commensali posti a destra del tavolo. In alto, al di sopra del marcapiano vi è una grande trifora a tutto sesto dalle proporzioni  direi quasi auree tra base e altezza.
In quella centrale in basso si vede la parte  superiore del corpo di un musico intento a suonare, in quella di sinistra sempre in basso si vedono i volti di profilo di due uomini  rivolti verso il musicista. La parete in profondità si presenta con una bifora aperta con archi a tutto sesto, in quella di sinistra si vede un volto di donna visto di profilo che regge il piatto con la testa del Battista che procede  verso destra; a quella di destra vi sono tre profili di donne rivolti a sinistra verso la donna che procede verso di loro, forse Salomè, Erodiade e una loro serviente.
Nell’analisi delle due formelle, in quella di Jacopo si nota una chiarezza compositiva ove le figure dialogano con lo spazio con più naturalezza ed ogni figura a secondo della sua collocazione prospettica si presenta con le sue giuste dimensioni.  Altro elemento importante che si nota è che le figure in primo piano si impongono con evidenza sulle strutture architettoniche. Questo induce a pensare che Jacopo ha voluto mettere in evidenza la centralità dell’uomo secondo le linee culturali dell’Umanesimo. Tutto questo non si nota nella formella di Donatello, dove regna una certa confusione compositiva. Pur condividendo in parte la riflessione critica del grande critico d’arte Artur  Rosenavuer che spiega il perché di questa confusione, che è dovuta allo sgomento di tutti i presenti nel momento in cui  fa il suo ingresso il militare che porta su di un piatto la testa del Battista a Erode. E questo in parte è vero, più nella realtà di meno in arte, perché il fine per un artista rimane sempre la ricerca quasi spontanea nell’organizzare la sua composizione affinché possa regnare una certa armonia ed equilibrio, anche quando la rappresentazione è drammatica, come in  questo caso. Altro elemento discutibile è che alcune figure presentano un’analisi anatomica debole e sono meno spontanee nella loro singola gestualità  ed espressività, tanto da peccare di teatralità, in confronto  alla spontaneità delle figure di Jacopo.  In questa formella di Donatello, pur notando una pregevole prospettiva centrale nell’analisi dei vasi murari, non si riscontra la stessa analisi prospettica tra le figure poste in primo piano con quelle sul secondo e terzo piano di profondità. Ritengo che Donatello, date le sue enormi potenzialità, si sarebbe potuto impegnare di più in questa formella a differenza dell’impegno profuso da Jacopo nella realizzazione della sua formella. Sicuramente diversi storici dell’arte  non condivideranno questa valutazione, in parte negativa perché va controcorrente, ma è sempre auspicabile che ognuno di noi debba vedere e valutare le cose secondo la propria personalità senza fare sconti a nessuno. Con questo non si vuol mettere in luce Jacopo per diminuire la portata artistica di Donatello, perché è acclarato il  suo ruolo primario di tutta la scultura del XV secolo, che è meritato per la grandezza artistica delle sue opere successive.
Il 26 Marzo del 1425 Jacopo ebbe l’incarico da Ludovico Alamanno, legato pontificio a Bologna, di eseguire la decorazione degli Stipiti del Portale Maggiore della chiesa di San Petronio a Bologna. E’ stato sicuramente l’incarico più prestigioso della sua vita, perché lo colse in piena maturità umana ed artistica.
Jacopo riprende la forma quadrangolare per sviluppare su dieci formelle, dieci episodi della Genesi, 5 su quello di sinistra e 5 su quello di destra. In contemporanea a Firenze all’amico e rivale Ghiberti venne assegnata la seconda porta del Battistero, la cosiddetta “Porta del Paradiso”, come  ebbe a battezzarla Michelangelo.
Anche il Ghiberti si servirà di dieci formelle quadrangolari per raccontare dieci storie Bibliche, in queste formelle  farà sfoggio della  nuova scienza: la prospettiva per creare ambientazioni architettoniche valide e abbastanza complesse dove far rivivere i suoi personaggi, mentre  Jacopo annullerà del tutto qualsiasi riferimento ambientale, e quindi la prospettiva, per concentrarsi esclusivamente su pochi personaggi in grado da proiettarli con la sua Arte a protagonisti della storia umana, facendoli vivere in uno spazio cosmico metastorico.  In queste formelle Jacopo rivela una sintesi plastico–costruttiva nuova,  più consona alle linee umanistiche del momento.  Le figure presentano, oltre alla loro bellezza fisico–anatomica una forza espressiva e vitale che parte dai volti e investe tutto il corpo. Esempio massimo è la formella dei nostri progenitori, condannati da Dio al duro lavoro,  entrambi  sono colti nella loro prestanza fisica ad espletare ognuno il proprio ruolo, la donna ai lavori domestici e alla crescita e all’educazione dei figli, l’uomo al duro lavoro nei campi. Ammirevole l’impianto plastico–luministico e la ricerca anatomica sul corpo di Adamo. L’anatomia dei corpi sembra espandersi come una forza centrifuga in tutte le direzioni che a stento riesce a contenere  quel concentrato di energia che li pervade. Jacopo in queste formelle raggiunge esiti culturali ed artistici notevoli, dimostrando di aver compreso bene le istanze culturali–filosofiche dell’Umanesimo e di averle manifestate con grande efficacia e senza tentennamenti e ripensamenti, facendosi guidare solo dal suo grande talento. Le sue figure vivono in un’armonica e poetica pacatezza, in un ambiente ove sembra che il tempo si sia fermato, sospeso fra il passato ed il presente, in una dimensione onirica, ove gli echi della classicità greca fanno il loro ingresso per trasformarli in esseri immortali. Non desta meraviglia che il grande Michelangelo quando si trovava a Bologna per realizzare la statua in bronzo di Giulio II ne abbia subito il fascino di questi meravigliosi bassorilievi, basta vedere i nudi della Sistina.
Alla luce di quanto esposto Jacopo della Quercia dovrebbe di diritto e senza perplessità entrare nella cerchia degli innovatori dell’Umanesimo.            
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