Profili da Medaglia/21 - "Vintilă Horia" di Tommaso Romano

Nato a Segarcea, in Romania, nel 1915, morì a Collado Villalba nel 1992.
La Romania gli ha dedicato un francobollo.
si laureò in Legge all’Università di Bucarest e frequentò i corsi di Lettere e Filosofia alle Università di Bucarest, Perugia e Vienna. Subito dopo, diresse la rivista di poesia “Meşterul Manole”. Durante la seconda guerra mondiale fu addetto stampa alle ambasciate del suo Paese a Roma e a Vienna. Arrestato dai tedeschi nel 1944, fu liberato dagl’inglesi alla fine della guerra. Tra il ritorno in patria, ormai in mano comunista e l’esilio, scelse la via più difficile: l’esilio. Fu in Italia sino al 1948, poi a Buenos Aires fino al 1953, a Madrid sino al 1960, in Francia sino al 1964 e, infine, di nuovo a Madrid, divenendo cittadino spagnolo nel 1972. Autore assai prolifico e dinamico, poté vantare, al suo attivo, volumi di vario genere: romanzi, racconti, saggi, raccolte di articoli, esperienze di viaggio, diari.
Come narratore fu agli onori della cultura internazionale nel 1960, quando gli fu assegnato il Premio Goncourt per il suo Dieu est né en exil (Dio è nato in esilio), contestatogli poi scandalosamente per motivi ideologici. Come giornalista collaborò a molte testate spagnole, francesi e italiane, ai quotidiani “Il Tempo” e “Roma”, alle riviste “Intervento”, “metapolitica” e “La Destra”, del cui Comitato internazionale fece anche parte. Dal 1966 insegnò Letteratura contemporanea presso la Scuola di Giornalismo di Madrid.
Dalla fine del 1971 diresse “Futuro Presente”, rivista mensile tramite cui cercò di conciliare la ‘futurologia’, intesa quale spinta ideale antimarxista e antiprogressista che caraterizzò la sua personale “visione del mondo”. Molte opere di Horia sono state tradotte in Italia, soprattutto i romanzi, fra cui: Dio è nato in esilio; Il cavaliere della rassegnazione; Gli impossibili; La settima lettera; Una donna per l’Apocalisse; nonché alcuni saggi: La rivolta degli scrittori sovietici e Diario di un contadino del Danubio, editi da Il Borghese; Giovanni Papini, edito da Volpe; Viaggio ai centri della Terra e Considerazioni su un mondo peggiore, editi da Ciarrapico; Dio è nato in esilio; La settima lettera; Il cavaliere della rassegnazione.
Horia fu un intellettuale, un integrale uomo di cultura, che espresse il meglio di sé nella scrittura creativa. La prima volta lo incontrai a Roma, all’inizio degli anni Settanta, a una sua conferenza organizzata da “Una voce”, Associazione per la Salvaguardia della liturgia latino-gregoriana.
Fu il medesimo incontro che mi diede la fortunata e luminosa, unica, opportunità di conoscere e conversare con Cristina Campo. Era il 17 Gennaio 1973 e di quell’evento mi resta un suo autografo a ricordo. Con Horia, in quell’occasione, lo scambio di opinioni fu fugace (al contrario dell’incontro con la Campo), ma l’uomo e la sua conferenza mi colpirono assai positivamente.
Segnato dall’esilio e dal piatto conformismo della cultura europea che lo emarginava a fronte della sua grandezza (fu amico e stimato da Eliade e Jonesco e ne condivise svariati aspetti del loro operare), Horia vede soltanto ora – e finalmente – una nuova stagione di rinnovati interessi per i suoi libri.
Come me in quegli anni, ammirava la figura di Codreanu e la guardia di Ferro romena e mi era grato – mi disse in seguito – per aver pubblicato in Italia un libro intervista a Horia Sima, l’erede di Codreanu, ad opera e cura di un allora esordiente scrittore e giornalista, Maurizio Cabona, nonché un libro storico su Josè Antonio e il Falangismo, firmato da Emilio Carbone.
Tuttavia, Horia non si nutriva esclusivamente di nostalgia, pur sentendo la patria lontana con straziante dolore.
Scrisse lucidamente a tal proposito: «Esilio vuol dire separazione, volontà di opporsi di un nemico che invade un paese al fine, non soltanto di sfruttarlo, ma soprattutto di mutarlo nel profondo, di sradicarlo dalla sua stessa traditio». Più volte, negl’incontri romani successivi, insistette sulla riscoperta della Tradizione come unico vettore futuro possibile, senza però demonizzare il progresso tecnologico, le conquiste che dovevano, a suo avviso, migliorare l’uomo e la qualità della vita. la sua era una visionarietà metapolitica alta (infatti, fu amico e collaboratore di Silvano Panunzio e, appunto, collaboratore della sua “metapolitica”), nutrita da un caldo umanesimo latino. Mi piace ricordare ciò che ebbe a scrivere Vintilă su “Sacro e Profano” (n. 2, maggio 1989): «Stiamo attraversando il momento più arduo della lunga storia dell’uomo, il più crudele, il più mostruoso, il più menzognero, quello maggiormente caratterizzato da incerte ideologie e dalle più feroci realtà; abbiamo vissuto due guerre mondiali e ci siamo spinti tanto avanti sul sentiero della scienza e così poco su quello della conoscenza, che ormai il nostro habitat è minacciato dai suoi stessi abitanti. Può darsi che tutto ciò subisca una fine prossima e atroce.
La menzogna e l’inganno stanno polverizzando il corpo e l’anima del nostro essere, divenuto a un tratto indifendibile». parlammo a lungo dei suoi romanzi, specie il Viaggio al San Marcos, testo bellissimo. Horia era un credente “sveglio” (per usare l’espressione di un’altra grande e dimenticata scrittrice, Orsola Nemi), eppure lontano dal clericalismo. Ammirava Franco e me ne enumerò le ragioni, anche quelle conseguenti e relative alla scelta di vivere e insegnare in un’università spagnola. Animatore di battaglie culturali, partecipò a molti incontri in Italia, specie con l’Associazione Internazionale Cultura Occidentale; sempre seguitissimo.
Gli sono assai grato, ancora, per una bella ed essenziale recensione che, sul quotidiano madrileno “El Alcazar”, volle dedicarmi per la mia raccolta poetica L’Isola Diamascien, letta come soltanto un poeta che aveva vissuto nella sofferenza dell’esilio, come Lui, poteva vergare.
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