“Il rapporto tra la costituzione dell’anima e quella dello stato ideale in Platone e Aristotele” di Ferdinando Bergamaschi
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- Creato: 03 Gennaio 2024
- Scritto da Redazione Culturelite
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Ne La Repubblica di Platone, e specificamente nel Libro IV, si può constatare un aspetto molto importante della sua filosofia: il fatto che ad ogni elemento dell’anima corrisponda una virtù e una classe sociale. Da ciò ne deriva anche che lo Stato di Platone ha delle precise caratteristiche che corrispondono esattamente alle caratteristiche che dovrebbero essere quelle dell’ “uomo e della donna ideale”, per così dire. Ma vediamo qual è per Platone la costituzione dell’anima dell’uomo.
Innanzitutto bisogna dire che in Platone vi è una tripartizione nella costituzione dell’anima: al sommo vi è l’anima sapienziale, il nous (solitamente tradotto con il pessimo “anima razionale”) che governa l’uomo; poi, come principale alleata dell’anima sapienziale, vi è l’anima impetuosa o combattente (tò thymoidès: è stato giustamente fatto notare che si traduce il più delle volte con il non troppo opportuno “anima irascibile”, che però colora negativamente una caratteristica che in Platone è invece positiva); infine, al livello più basso, l’anima concupiscibile o appetitiva (tò epithumetikòn). Ciò che nelle pulsioni dell’anima tende ad essere dominato dai desideri materiali e venerei (ricchezze, plutos, su tutto e a rimorchio di esse gli altri desideri del corpo) è l’elemento inferiore, quello concupiscibile; mentre l’elemento impetuoso e combattente, che gerarchicamente si trova nel mezzo, svolge essenzialmente due funzioni: da un lato vigila che l’elemento concupiscibile svolga la sua funzione secondo le regole, secondo il suo ruolo e senza la pretesa di dominare gli altri due elementi (il sapienziale e l’impetuoso stesso) a lei superiori gerarchicamente; d’altro canto, una volta che disgraziatamente l’elemento concupiscibile dovesse scatenarsi e ribellarsi ai suoi superiori, il dovere dell’anima impetuosa sarà appunto quello di combattere contro di essa.
Questa gerarchia è espressa perfettamente, oltre che nel Fedro (con il mito della biga alata), nel seguente passaggio de La Repubblica: “Pertanto queste due facoltà [l’anima sapienziale e l’anima combattente], così allevate e messe veramente in grado di assolvere il loro compito grazie all'educazione, domineranno sulla facoltà concupiscibile, che in ogni uomo occupa la parte maggiore dell'anima ed è per sua natura insaziabile di ricchezze; e la sorveglieranno per evitare che aumenti di dimensioni e di forza […] tentando di asservire al suo dominio ciò che per nascita non le spetta e sconvolga tutta quanta la vita della comunità. […] E queste due facoltà non forniranno forse a tutta quanta l'anima e al corpo la migliore difesa anche dai nemici esterni, l'una deliberando, l'altra combattendo, obbedendo quest’ultima [l’anima combattente] a chi la governa [all’anima sapienziale] ed eseguendo con il suo coraggio le deliberazioni di quella?” (cfr Platone, La Repubblica, IV, 445 e- 459 b). Così, dunque, per riassumere, si tripartisce l’anima in Platone: in anima sapienziale, in anima impetuosa o combattente e infine in anima concupiscibile.
In corrispondenza di questa tripartizione dell’anima Platone considera tre virtù fondamentali, che sono: al primo posto la sapienza (che naturalmente in Platone significa conoscenza del mondo divino-spirituale) che corrisponde all’anima sapienziale; al secondo il coraggio che corrisponde all’anima impetuosa o combattente; al terzo la temperanza (il saper stare al proprio posto) che corrisponde all’anima concupiscibile.
Abbiamo parlato di classe e dobbiamo specificarne il motivo. Come dicevamo all’inizio bisogna infatti rilevare un’ulteriore corrispondenza, dopo quella che dalla tripartizione dell’anima ci ha portato alle tre virtù fondamentali. La corrispondenza che dalla tripartizione dell’anima e dalle tre virtù fondamentali ci conduce alla tripartizione dell’ordine sociale e politico. A coloro che davvero “conoscono” e partecipano della sapienza divina perché in loro è attiva l’anima sapienziale va associata la prima classe dei cittadini, e cioè coloro che dovranno governare la città, ossia i filosofi-re (che non possono che essere in numero assai esiguo). Poi, al secondo posto, i guardiani e i guerrieri cioè coloro che, pur non partecipando della sapienza pura, hanno però un alto grado di coraggio e con la possenza della loro anima combattente vogliono essere i più leali e stretti alleati dei sapienti. Infine, senza nessuna carica governativa, a differenza degli altri due, ma con il compito di procacciare e di produrre secondo le loro capacità i beni per la comunità e per se stessi, vi sono gli artigiani di tutti i tipi (che rappresentano la maggioranza), i quali sono governati dagli istinti più elementari (dall’anima concupiscibile) ma che, grazie alla temperanza, riconoscono l’autorità degli altri due e se ne subordinano organicamente rendendo alla città il loro servigio ognuno secondo le proprie capacità legate alle arti e ai mestieri. E come si diceva è proprio il riconoscere e l’aderire a questo ordine da parte di tutti e di tutte le classi – questo cuique suum - che rappresenta la virtù della virtù, la giustizia, da intendersi come un tutt’uno tra giustizia trascendente e giustizia immanente. Così in Platone.
In Aristotele il quadro non è troppo diverso. Lo Stagirita, che pure era un rigoroso metafisico, aveva un approccio più immanente nel suo impianto teoretico nel confronto con Platone. In Aristotele si presentano, rispetto a Platone, solo differenze secondarie dovute per lo più all’approccio alla conoscenza che in Platone ha un carattere più universale-contemplativo, mentre in Aristotele vi è un più profondo sforzo a rendere immanente e, per così dire, “attuare” la trascendenza. Ciò ha l’effetto di quello che si potrebbe definire un più marcato “realismo” nel pensiero di Aristotele rispetto al suo maestro, più che altro per quel che riguarda la dottrina politica, dato che invece in campo metafisico-gnoseologico vi sono differenze più che altro “tecniche”, se ci si passa il termine, e a maggior ragione ancor più secondarie.
Così per il filosofo di Stagira vi è una sostanziale corrispondenza di vedute con quelle di Platone. Curioso è però notare che quanto più in Aristotele si tende ad esprimere un più netto immanentismo e a trovare una sintesi tra “forma”(spirito puro, atto, eidos) e “materia” (potenza, ule) – laddove in Platone vi era invece una più netta frattura – tanto più si hanno anche radicalizzazioni nei giudizi. Così, ad esempio, se Aristotele si sofferma con più attenzione e per più tempo, rispetto a Platone, su aspetti che riguardano la strutturazione e lo svilupparsi dell’economia e dell’amministrazione dei beni (si pensi alla “crematistica”), egli ci dice anche senza mezzi termini che chi, per natura, si occupa solo di economia e di procacciarsi i beni materiali è destinato a una esistenza non libera, un’esistenza da “schiavi”, a prescindere dal grado delle sue ricchezze e per questo è tagliato fuori dal governo della città il quale spetta soltanto ai sapienti e ai guerrieri (esattamente come in Platone).
Ciò non cambia il quadro generale. Anche in Aristotele vi è una tripartizione dell’anima in “anima sapienziale” o “intelletto puro” (nous); “anima protesa” (traduciamo con “protesa”, ma potrebbe reggere anche “eretta” o “retta”, il difficile orexis, derivato da orego, a un dipresso “reggersi”, “erigersi” ma anche “protendersi” e “aspirare”, tradotto solitamente con il pessimo “appetitiva”) che corrisponde all’anima impetuosa di Platone; e infine “anima sensitiva” che corrisponde all’anima concupiscibile di Platone.
In una sua importante opera, l’Etica Nicomachea, il maestro di Alessandro ci offre poi il quadro delle virtù, le prime tre delle quali corrispondono alle tre virtù di Platone: vi è all’apice la virtù metafisica (o dianoetica) e cioè la sapienza e al secondo posto vi sono le virtù etiche. Queste sono le tre principali virtù etiche nell’ordine gerarchico in cui ce le presenta Aristotele: anzitutto il coraggio, poi la temperanza (sofrosùne), quindi la liberalità o generosità (eleutheriòtes). A queste tre principali virtù etiche si aggiungono altre virtù: la magnanimità, l’ambizione nella giusta misura, la mitezza, l’amabilità, la semplicità e l’esser persone di spirito (o forse dovremmo dire il sense of humor).
La virtù dianoetica è ad esclusivo appannaggio dei sapienti che sono anche gli addetti al culto, dato che attraverso la conoscenza del mondo trascendente e metafisico partecipano attivamente alle cose divine, mentre alle virtù etiche aderisce in generale l’uomo nobile, e di conseguenza il guerriero. Tutti gli altri – la maggioranza - si devono adeguare a questa gerarchia, e sarà proprio questo “saper stare al proprio posto” la loro virtù. Come in Platone anche in Aristotele l’adeguarsi ognuno al suo ruolo, secondo il principio gerarchico e organico del cuique suum, riconoscendolo e adempiendovi rappresenta la virtù delle virtù: la giustizia, che anche nel caso di Aristotele è intesa come un tutt’uno tra giustizia trascendente e giustizia immanente.
Questo ci porta ad un’ultima considerazione. Il mondo classico, con Platone e Aristotele, raggiunse vette spirituali elevatissime e pose la giustizia – trascendente e immanente – come meta da raggiungere per l’umanità. Ma sarà, qualche secolo più tardi, l’impulso del Cristo che indicherà all’uomo e all’umanità una meta ancora più elevata della stessa giustizia: la meta del vero amore e della vera libertà.