Gino Pantaleone, "canti a Prometeo" (Ed. All'Insegna dell'Ippogrifo)

di Francesco Scrima
 
Sulle vette della fredda Scizia c’è un uomo in catene, legato alla roccia. Un’aquila, “ampia d’ali”, si ciba del suo fegato, che poi di notte ricrescerà immortale.
Quell’uomo è Prometeo, figlio del titano Giapeto e dell’oceanina Climene.
La sua colpa è quella di aver rubato una scintilla del fuoco divino e di averla donata agli uomini.
Prometeo è l’eroe della disobbedienza. Colui che lotta contro le ingiustizie, l’arroganza del Potere, l’ineluttabilità di un destino che vuole gli uomini sempre sottomessi agli dei.
Gli dei sono invidiosi. La ϕτόνος τόν θεϖν è l’unica causa del male degli uomini. Ma anche il tempo è invidioso – invida aetas, lo chiama Orazio – e fugge dai mortali, ai quali non restano che dolore e fatica.
Gli dei e il tempo hanno condannato gli uomini – e Prometeo – all’immutabilità, alla staticità, alla Menzogna. Perché solo chi è in movimento può cercare – e trovare, forse – la Verità.
I poeti sono sempre in movimento perché rifuggono dalla menzogna – essi, che osaron pensare prima del cielo, sono sempre alla ricerca di qualcosa: una scintilla di luce, la conoscenza, un varco nella fitta rete che ci stringe, un sorriso che ci riscaldi nell’ “inverno del nostro scontento”.
Guai a fermarsi! Il sole si oscurerebbe, le tenebre inghiottirebbero il mondo, le acque si prosciugherebbero e noi miseri mortali rimarremmo per sempre legati alla “roccia”. Il poeta, invece, come l’albatro di Baudelaire, vola in alto ed è il più libero degli uomini.
Nei “Canti a Prometeo” (All’insegna dell’Ippogrifo) Gino Pantaleone evoca l’eroe, il suo gesto, l’idea stessa della ribellione:
 
Posso darti degli invasati versi
donarti segreti liberatori
ci hanno annientato tutto anche gli odori
codesti Dei dai verdetti diversi.
 
Lo fa scegliendo la struttura chiusa del sonetto, che pare abbia risuonato la prima volta nella corte federiciana, a Palermo, quando la città era tutta uno scintillio di spade e di poesia. Lo fa per dirci che forse c’è un Prometeo in ogni uomo che non si arrende al Male. Che c’è sicuramente nel Poeta, il quale spesso è solo nel suo tempo e che grida nei deserti del mondo. E lo fa scegliendo un eroe del mito, perché il mito – quello greco, per antonomasia – è anche storia, e non solo la Storia con la S maiuscola, ma anche quella con la s minuscola, che è la storia di tutti noi.
Pantaleone, insomma, sceglie dei versi antichi per coniare dei pensieri moderni, pensieri d’amore e d’ira, di rabbia e di passione:
Il sogno mostrava la vita e il seme
non c’è paesaggio chiaro a cui guardare
dal duro cuore la coscienza preme
 
…e la sua diventa così poesia civile e lirica insieme, la sua voce suona simile a quella di un bardo gaelico, nel quale convivano amore e morte, perché l’una non può fare a meno dell’altro, e viceversa. La passione e l’ideologia possono infatti toccarsi, dalla lirica più pura può nascere una poesia civica, e questo, nella poesia di Gino, è davvero un binomio inscindibile.
Ci immergiamo tremanti nell’eco chiara di queste parole, come in un nuovo medioevo, trascinati dall’urto possente o dalla carezzevole onda, e sentiamo che il Poeta, novello Prometeo, ci sta donando qualcosa di misterioso – la Bellezza – che ha strappato all’invidia di tutti i falsi dei che ci sovrastano.
 
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