“Dal tuo al mio” di Giovanni Verga - lettura ed analisi di Giovanni Teresi

In casa Navarra era festa, quella sera. Il povero barone don Raimondo, che arrabattavasi da anni ed anni in mezzo ai debiti e agli altri guai, colla croce di due figlie da marito per giunta, ne dava una, delle figliuole, al figlio unico di don Nunzio Rametta, ch’era entrato nella zolfara dei Navarra senza scarpe ai piedi e col piccone in mano, ed ora aveva denari a palate e si chiamava col don. La ragazza, è vero, s’era fatta tirare pei capelli a dir di sì, non per l’umiliazione di dover scendere sino al figliuolo di un zolfataro e diventare signora Rametta senz’altro, — ahimè, i guai della casa baronale li conosceva anche lei, e il viso rosso se l’era dovuto fare altre volte, quando i creditori venivano a chiedere il fatto loro, gridando e strepitando, e lei doveva dire che il babbo non era in casa — ma pure, alla sua età, ci aveva in capo il suo romanzetto anch’essa, e ne aveva fatto del piangere per strapparsi dal cuore Lucio Santoro, suo cugino, prima di chinare il capo al matrimonio col figlio di Rametta! Basta, parenti amici il cugino don Rocco sopratutto, gliene avevano dette tante: — Ma che siete pazza? Rifiutare un terno al lotto! Quell’altro che non possiede nulla! Ma guarda il povero papà tuo! — E ora suo padre, in maniche di camicia e cravatta bianca, arrampicato su di una vecchia seggiola di cucina, stava accendendo la lumiera di Venezia in sala, per la cerimonia del contratto nuziale, raso di fresco, e sfavillante di contentezza, pover’uomo. Isidoro, in gala anche lui, colla livrea antica sui calzoni di colore, era tutto intento a dargli una mano, se mai, col viso in aria.

 

La storia narrata in “Dal tuo al mio” racconta il dramma negativo della famiglia Navarra e della loro zolfatara. Il nucleo famigliare è costituito dal Barone, vedovo, e dalle due figlie: Lisa e Nina.

Il racconto si apre nel giorno del matrimonio, poi mancato, di Nina con il figlio di don Nunzio Rametto, lavoratore arricchito della miniera di Navarra.

La storia prosegue, battuta dopo battuta, a suon di conflitti sociali e di famiglia.

Lisa, infatti, si innamora di un operaio, Luciano, al servizio di don Nunzio Rametto, assoldato per controllare il lavoro della zolfatara, in cui ha investito.

La ragazza viene cacciata di casa e se ne perdono le tracce fino all’epilogo.

Trascorso tragicamente un nuovo episodio in cui le parti – il Barone e Rametto – vogliono accordarsi rispetto al possesso della zolfatara, in un misto di debiti e accordi di dubbia giustezza, si alza il vento della rivolta. 

I lavoratori, stanchi dei soprusi e soprattutto della paga indecorosa, infatti, entrano in sciopero.

Quando giungono alla porta del Barone, in casa c’è anche Lisa, accorsa ad avvertire il padre e la sorella dell’avvento dei riottosi. Solo sul finale, il Barone sembra arrendersi alla perdita della sua amata miniera e all’accordo con Rametto. Intanto è giunto in casa anche Luciano, ambasciatore degli minatori in rivolta, nonché genero rinnegato del padrone. Mentre i minatori avanzano, il bene economico viene messo almeno alla pari del futuro dei famigliari.(1)

 

La pace venne poi naturalmente come il pericolo incalzava lì fuori, e li buttava fra le braccia l’uno dell’altro, stringendoli a difendere roba e vita. Luciano, primo allo sbaraglio sulla porta, disse risolutamente, mentre si udiva crescere e avvicinarsi il rumore della folla minacciosa:
– Via! Via di qua, vossignoria.
– Tu piuttosto! Pensa a tua moglie! Mettiti almeno al riparo, qui dietro al pilastro.-
In quella vera stretta d’ansia e di confusione, quando Sidoro, come un angelo dal cielo annunziò di lassù: “La forza! Ecco i soldati!”, padre e figli si strinsero nelle braccia gli uni degli altri, don Mondo, tornando da morte a vita, balbettando:
– Figli! Figli miei!

 

Rametta era un lavoratore, aveva il piccone in mano, spaccava le pietre della solfara. Giorno dopo giorno, anno dopo anno. Era in trincea nella sua guerra alla sopravvivenza. Guadagnava poco, e quel poco non lo spendeva nelle osterie, non beveva vino, non cercava di dimenticare il peso della sua vita tra le braccia di una puttana.  Rametta lavorava duro e risparmiava ogni soldo per riscattare la sua condizione di servitù. Era un lavoratore, poi a poco a poco, sacrificando ogni piacere, ha iniziato ad accumulare sempre più danaro, ha iniziato a scalare la vetta, è diventato capocantiere mentre i soldi si ammucchiavano sempre di più fino a diventare usuraio, fino a prendere per il collo il suo padrone, il Barone proprietario della solfara in cui ha lavorato per anni.

Il barone non ha saputo gestire la sua impresa e adesso il suo lavoratore se la prende. Il barone non può più pagare i debiti contratti con Rametta e alla fine è costretto a cedergli la solfara.

Il piccone è diventato cappello.

Cosa accade quando un lavoratore conquista la poltrona?
Verga pone questa domanda ad inizio secolo. Questa domanda che ancora ci appartiene e che ci riguarderà ancora per anni. Rametta si trasforma nel peggior padrone: non vuole aumentare il salario dei lavoratori ridotti alla fame, non vuole perdere nulla di ciò che ha accumulato. È il suo momento di afferrare tutto ciò per cui ha patito per anni il peso della rinuncia. “Che vadano tutti al diavolo, che si scannino tra loro!”

La verità atroce che ci consegna Verga in questa opera, una verità amara, è che i capipopolo incitano alla rivolta solo per un guadagno personale.

 

(1)La figura di Luciano, al cui amore cede la figlia del padrone, Lisa, è ascrivibile al movimento dei Fasci siciliani.
Il movimento nacque il 1° maggio del 1891, a Catania, per volere di Giuseppe De Felice Giuffrida. Libertari, democratici e socialisti di ispirazione aderirono ai fasci, alla fine dell’Ottocento, sia il proletariato urbano che, poi, gli operai agricoli e i minatori (compresi gli zolfatari).

I Fasci siciliani dei lavoratori, delusi dall’innovazione che avrebbe dovuto far seguito all’Unità di Italia, lottarono per richiedere maggiore equità e finalmente il superamento del sistema di stampo feudale ancora vivo in Sicilia. In particolare, nelle richieste del movimento c’erano la riforma fiscale, la revisione dei patti agrari, per l’abolizione delle gabelle (imposte indirette su merci e scambi) e, infine, la redistribuzione delle terre.

Il movimento fu contrastato militarmente, con decine di morti, dalcgoverno Giolitti  e poi da quello di Francesco Crispi, sotto l’egida di  Re Umberto. La vicenda si concluse nel 1894 con lo scioglimento del movimento e l’arresto (più avanti mutato in amnistia) dei capi e dei responsabili del movimento.

 

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