Tino Traina, “Stazione di campagna” (Spazio Cultura ed.) – di Guglielmo Peralta

“Fu a quell’età … venne la poesia

a cercarmi”

(Pablo Neruda - La poesia)

      

 

Anche Tino Traina, come Neruda, è visitato dalla Poesia in tenera età, non dichiarata dal grande poeta cileno; precisata e ben definita, invece, dal Nostro: “Già da bambino e fino all’età di 12-13 anni”. Il grande richiamo della Poesia è, per lui, la Natura con i suoi “luoghi magici (…) di un silenzio ovattato, di solitaria bellezza”, con “il cielo stellato di quelle notti” che oggi, come allora, gli dà ”la misura dell’immensità dell’universo, (…) il senso dell’eternità”. Ciò riportiamo dalla Nota dell’Autore, in apertura della silloge, con la quale egli fa subito partecipe il lettore della sua ‘vocazione’, che è risposta alla ‘chiamata’ e intuizione di un evento miracoloso prossimo a manifestarsi, a concretizzarsi, a farsi fondamento dell’esistenza consegnata anima e corpo alla contemplazione del tempio ‘sacro’ della Natura. - “Intuivo  che si stava costruendo la mia memoria, la mia storia, che la mia anima cominciava a nutrirsi di un’indole contemplativa”. È all’età di otto anni, in terza elementare, che Traina scopre, grazie alle letture appassionate del maestro Giuseppe Lombardo, “l’interesse per la lettura e soprattutto per la poesia”. È allora che egli avverte «l’urto del prodigioso» (così Heidegger in L’origine dell’opera d’arte) e la Natura, prodiga di bellezza e di meraviglia, riceve l’elogio e il fascino della parola sacra, della “sua forza nominativa”. E con la parola, così destinata e innamorata, nasce e cresce il nostro poeta, con tutti i sentimenti e i sensi incantati, ‘versati’, dedicati all’amore finalmente palese, al volto segreto, inguardabile e, tuttavia, scoperto della Poesia. Sui banchi di scuola, nell’età della metacognizione e dello sviluppo delle emozioni e degli interessi, accade l’iniziazione alla conoscenza del «prodigioso». Sono Saba e Carducci, sono soprattutto alcuni loro versi ad attrarlo, a suscitare l’improvvisa passione, poi coltivata e cresciuta negli anni del liceo e praticata ed espressa tramite la scrittura. E sono dei versi scelti di poeti amati - nell’ordine: Montale, Gatto, Quasimodo, Sereni, dei quali troviamo echi in questa raccolta -  a introdurre le quattro sezioni che la compongono. A significare che non c’è stata soluzione di continuità tra il poeta in erba, al primo innamoramento, e l’attuale amante che ha maturato nel tempo una grande esperienza creativa, sì che la poesia è divenuta, per il Nostro, un continuum vitale, un’esperienza formativa, personale, uno snodo esistenziale di grande valore per una weltanschauung fondata sulla ricerca del bello, del giusto, del vero, sui valori tradizionali e sociali che solo possono migliorare l’uomo nella sua dimensione e integrità di corpo, di cuore e d’intelletto. S’indovina, dentro la fine tessitura del dettato poetico, la consapevolezza che il potere creativo investe tutto l’essere e può trasformare un’esistenza in una meravigliosa esperienza estetica. Perché con la poesia si rinnova lo stupore davanti alle bellezze del creato, si è meno tristi ma anche più amareggiati e più critici e propositivi davanti al progressivo degrado morale, ambientale, sociale, che rende questo nostro tempo sempre più povero e privato della certezza del futuro. Pesante è al nostro poeta il passo quando “una vuota vertigine” lo volge indietro, “al desolato / giro consunto delle cose intorno” (Un passo indietro). E allora gli è lieve il tempo dell’infanzia e della fanciullezza, il ricordo delle estati trascorse con la famiglia nei luoghi di campagna presso le stazioni ferroviarie, dove il padre svolgeva il servizio di capostazione. Allora, l’età spensierata, il silenzio degli spazi sconfinati, la lentezza degli accadimenti, la ciclicità del giorno e della notte: “allegoria del nascere, vivere e morire” e, dunque, il sentimento, rivissuto attraverso il ricordo, di un tempo in cui nulla può accadere perché tutto si ripete, tutto ritorna uguale, fanno da contraltare al tumulto, al caos, al precipitare rapido e vorticoso degli eventi negativi, che caratterizzano questo nostro mondo al tramonto, in cui assistiamo, impotenti, al declino delle certezze, alla disfatta dell’uomo razionale, che ha dissipato i valori tradizionali, prosciugato “la sorgente dei sogni” ed è sempre più isolato dal prossimo e incapace di comunicare, di ascoltare “l’altro uomo”, nonché figlio disamorato e ingrato verso la Natura, la “Madre feconda” (Lettera). La memoria insieme con  la creatività, l’introspezione e la passione per la poesia sono la risposta e la resistenza di Tino Traina a tanto marasma. Egli confida nella sacralità della parola, che sola può avvicinare a Dio; egli sa che il prodigioso ‘accade’ nel segreto del testo, di un verso, perché gli si rese ‘manifesto’ a quell’età, quando ne avvertì l’urto nei versi di Saba e di Carducci. Come allora, egli vive in un tempo sospeso quando s’annuncia il miracolo della creazione e tutto si veste di memoria. Il tempo è ancora l’innocente ripetizione delle ore, la loro ‘sostenibile’ leggerezza, appresa nei volti familiari, l’hic et nunc, in cui tutto e nulla può accadere, l’attesa di un quid indecifrabile … Fuori dall’‘estasi’, il tempo è fugace, è la vita con i suoi affanni, consegnata, per grazia e per virtù poetica, al mistero dell’origine; ed è la morte: “un lungo viaggio di ritorno”. È, questa, una consapevolezza acquisita dalla natura, dai “rami del nocciòlo”, spogli e in fiduciosa attesa del rigoglio “a fronte del paesaggio / tanto fiorito, tanto verdeggiante” (Risurrezione).

       Un’aura di nostalgia incorona questi versi, questa raccolta, in cui forte è l’amore e il rimpianto per la Natura: madre dolcissima, tradita, abbandonata, vilipesa dai suoi ”figli degeneri”. Essa è presente e viva, soprattutto nel ricordo, ed è celebrata dalla parola innamorata e fiorita dal suo grembo. Perché la Natura è il tempio sacro dove dimora Poesia. La quale è il manifestarsi di una lontananza, per quanto vicina possa sembrare. Essa è nel linguaggio, ed è il volto verso il quale si volge lo sguardo del poeta nell’atto della creazione, in cui si fa prossima, essa stessa linguaggio, parola, a fronte della verità che resta celata, lontana. Scrive Kraus:  «Anche le parole hanno la loro aura. Quanto più da vicino si guarda una parola, tanto più lontano essa guarda a sua volta». L’ineffabile non si lascia agguantare anche quando “parte (…) dal cuore (…) e risale e conquista / i piani superiori”, quando si concede alla parola, che ne testimonia la fuga nell’oltre irraggiungibile. “La verità ha camere con vista / se vuoi guardare”. Per chi «sa» guardare. (La verità). La Natura, che nella nota introduttiva ha l’iniziale maiuscola che ne indica e ne anticipa le personificazioni, è presente nell’anima e negli occhi del poeta quando torna con la memoria a visitare i luoghi dell’infanzia. Ed è un’epifania che ‘rinnova’ i suoni, i colori, i sapori, le voci e i volti delle persone care; è il richiamo irresistibile delle radici, un campionario di scenari, d’immagini, scolpiti nel cuore e che si riverberano nel racconto del ‘sogno’ poetico, il quale, inondando di luce nuova il tempo perduto e ritrovato con l’armonia e la grazia del linguaggio, conferisce levità alla nostalgia, che col suo colore dominante ne ‘campisce’ l’ordito e la trama. Il blu si addice a questa silloge, perché blu è la notte che custodisce i ricordi e irradia del suo colore la nostalgia, pregna di vita, nella quale il Nostro si riconosce e che rende sostenibile il pensiero della morte. Nel giorno della loro commemorazione, i defunti ‘annunciano’ la loro presenza quotidiana. Essi vedono; la vita “si raggomitola” nelle loro mani; “non sanno / del silenzio”; preferiscono “l’ascolto” alla parola;  “sorridono (…) Non temono il dolore” e “qualunque giorno” è buono “per rifarli di un vivo che sorprende” (2 Novembre). Dunque essi vivono. La morte riserva delle sorprese. Come la vita, del resto, che può avere anch’essa una lapide a indicare l’altro lato della morte (Il giorno dei Morti).

       C’è dolore e c’è pace in questa raccolta, c’è sconforto e meraviglia, passione e pietà, illusione e disincanto. Accanto a questi opposti sentimenti convivono, in stretto legame, il paesaggio della natura e il paesaggio dell’anima, la favola bella del tempo passato e la cruda realtà del presente:  “S’è chiuso dentro un cuore che germoglia / tutto quel grande verde di una volta” (Favola). La memoria, dunque, è anche del cuore, ed è salvifica, risana dalla tristezza della separazione. Insieme con questa memoria, che “cuce”, mette insieme più vite, “son gli istanti d’intesa”, di condivisione del dolore e della gioia, è l’approssimarsi della morte, avvertita nei giorni che si vivono “come fossero gli ultimi”, “a tramutare il tempo in esistenza”, il tempo che intreccia vita e morte, “che ci unisce e ci separa” (A una finestra). La memoria è non essere soli, è sapere che non tutto è definitivamente perduto, separato, perché in ogni perdita c’è una parte di noi e in noi vive l’altra parte con cui ci si ritrova: sia, essa, le persone care, sia i luoghi e le cose che abbiamo amato da bambini. Restiamo ancorati “alle favole e ai sogni. (…) Fra quelle nebbie òndula l’eterno / ogni memoria immàrmora / il tempo consumato” (Universo). Viviamo di questa ferma, solida ‘conservazione’. Ritrovarsi nelle persone e nelle cose amate, rivedersi nei luoghi che lo videro fanciullo, nella “Stazione di campagna” (titolo, questo, della raccolta e della terza sezione), dove, incuriosito, stava a guardare il padre “col berretto rosso” che dava “il via ad un treno”, è per il nostro poeta, aprirsi ancora di più all’amore: quello per la moglie, il figlio, il nipotino, qui celebrati con versi delicatissimi; quello che investe l’essere universale, “quell’amore non ancora asperso / in quel nome di Dio”, che solo può salvare, rendere lievi al mondo le sue “croci”, lenire il dolore, promettere un giorno nuovo. “Un giorno ecco che dice, /  come un compagno buono, / come se desse un dono, / sono così sereno, sono così felice!”. 

      C’è tanta biografia in questi versi, c’è tanta vita r-accolta e narrata con ricchezza, eleganza e originalità lessicale, sulla cui conclusione Tino Traina s’interroga chiedendosi se “s’aprirà” un “luminoso varco / in mezzo ai cieli (…) oppure un salto, / un solo salto ci sarà tremendo / nel più profondo buio e buonanotte” (L’Isola, IX). A questo pensiero abissale, consegnato al nulla eterno, fa da contraltare la luminosa bellezza del linguaggio poetico profusa in tutta la silloge, in cui “l’Io non detto, non consumato”, nel quale il poeta crede, parla a lui in segreto svelandosi nell’“armonia” della natura. Allora egli sente di  potere conquistare nuovi spazi e nuovo cielo e “levare un argine nel tempo / delle paure” e spiccare il volo “dentro il giusto vento” (Lettera).  È una poesia, questa di Tino Traina, che segna il cammino verso la Bellezza: il suo “Natale”, “chiuso in un recinto di Parole (…): Pace, Presepe, Povertà, Perdono (…) Prossimo”. Quest’ultima, “un po’ più grande”, che comprende tutti. Egli ci fa dono di una parola nuova, epifanica, innamorata. Ad essa possiamo, vogliamo, dobbiamo accostarci per essere, per ritrovarci, per rinascere, qui, in Poesia, col Poeta, a vita nuova.

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