Per non dimenticare il papà di Don Camillo e Peppone

di Alberto Maira

 

 

Nella sua prefazione alle prime edizioni italiane di “Rivoluzione e Contro-Rivoluzione” del professor Plinio Correa de Oliveira, il fondatore di Alleanza Cattolica, Giovanni Cantoni, parlando delle ricorrenze e date emblematiche, ci ha insegnato che per chi sappia capirle, esse si ripropongono non solo come  memorie ma anche come virtualità storiche, si “offrono cioè  di nuovo come esempi e come possibilità”.

Mi è subito tornato alla mente questo insegnamento nel pensare che tra tante ricorrenze il 2018 segna il cinquantesimo anniversario della morte di Giovannino Oliviero Giuseppe Guareschi cosi come anche il mezzo secolo di quel “sessantotto”  che lo stesso si è voluto risparmiare - almeno nelle sue tragiche conseguenze - “approfittando” quasi di un infarto fatale  che il 22 luglio dello stesso anno lo condurrà a sessant’anni al cospetto di quel Signore  Gesù col quale era confidenzialmente abituato a parlare attraverso don Camillo a Brescello – paese nel quale furono girati i film ispirati ai suoi romanzi principali - tramite il crocifisso della chiesa parrocchiale di Santa Maria Nascente. Andò via quasi a sottolineare che quel “Mondo piccolo” che aveva descritto nelle sue opere stava tramontando e si affacciava un nuovo orizzonte, tratteggiato in un suo testo, uscito postumo, Don Camillo e i giovani d’oggi, il mondo di quel consumismo, di quel relativismo morale e di quel nichilismo che non avrebbe proprio sopportato. E se ne andò in punta di piedi, lui così esuberante e così coraggioso, così impassibile davanti alle persecuzioni e alle incomprensioni. Se ne andò senza onori, senza politici e senza necrologi altisonanti, lo scrittore, il giornalista, il caricaturista e l’umorista italiano i cui libri sono stati tra i più venduti al mondo: oltre 20 milioni di copie e tra i più tradotti in assoluto ! Così quella Patria, che amò moltissimo, fu per nulla riconoscente – come spesso avviene - con quel “maestro elementare di vita italiana” per dirla con le parole di Marcello Veneziani, quell’omone tutto d’un pezzo nato proprio il 1° maggio – ma guarda tu ! - del 1908 a Fontanelle di Roccabianca in quel “rosso” territorio della provincia di Parma.

 Da scrittore veramente libero oltre a fare satira, Guareschi denuncerà gli omicidi politici compiuti dai partigiani comunisti nel cosiddettotriangolo della morte”, anche a guerra finita e dove furono uccisi oltre cento sacerdoti.  Quello straordinario amante dell’Italia – che da molti superficiali fu definito “fascista”  fu arrestato per oltraggio al Duce  durante la guerra perché, sotto l’effetto di una sbornia, procuratasi per la disperazione per essere stato raggiunto da una notizia, poi rivelatasi falsa,  della morte del fratello sul fronte russo.  In seguito  con  le attenuanti, nel 1943 venne condannato al richiamo nell’esercito e si congedò a fine guerra come ufficiale d’artiglieria. Ma val la pena ricordare che quando l’Italia firmò l’armistizio con gli Alleati egli rifiutò  di collaborare con i nazisti: fu arrestato e imprigionato. Venne quindi inviato nei campi di prigionia tedeschi in Polonia e  in Germania , dove rimase due anni e dove compose La Favola di Natale, racconto di un sogno di libertà del suo Natale. Successivamente descrisse il periodo di prigionia nel Diario clandestino.

Grande fu il suo contributo per il trionfo della libertà alle elezioni del 18 aprile 1948 contro il “fronte popolare”. Il primo romanzo su don Camillo e Peppone è proprio del 1948, saga ventennale di 346 puntate e cinque film, che hanno fatto il giro del mondo.  Dei film per la verità Guareschi contestò sempre la piena fedeltà ai suoi scritti.

Successivamente per vignette e scritti apparsi sulla rivista dell’editore Rizzoli “Candido” fu processato e condannato per vilipendio prima di Einaudi e poi di De Gasperi.

Prese la via del carcere, così come, lui stesso disse e scrisse, aveva preso quella del lager per non avere voluto collaborare con il fascismo e il nazionalsocialismo.  Commentando la condanna, il padre di don Camillo e Peppone si affidò ad una citazione di dantesca memoria, “E il modo ancor mi offende”.

In realtà  fu estremamente problematico il suo rapporto con il potere in genere, mentre grande fu il senso della libertà che caratterizzò la sua vita e le sue opere. Ma al tempo stesso ha sempre avuto uno straordinario senso della gerarchia e dell’autorità anche se può essere apparso talvolta irriverente. Di carattere sanguigno, fu espressione di un’Italia che dopo tanto dolore generato dalle vicende belliche  desiderava la pace e una vita serena.

Fu profondamente cattolico ma  la sua umiltà e senso del limite lo condussero a declinare con garbo e cortesia una richiesta di Papa Giovanni XXIII a collaborare alla stesura di un Catechismo della Chiesa Cattolica.

Fu amico e talvolta collaboratore di grandi penne della cultura italiana, del giornalismo e dell’editoria tra i quali Cesare Zavattini, Giovanni Mosca,  Mario Tedeschi, Gianna Preda,  Pier Paolo Pasolini e Enzo Biagi.  

Questo anniversario dalla sua dipartita può essere  occasione propizia per riproporne le opere a quelle giovani generazioni che non hanno neanche l’idea di quel piccolo mondo che fu l’Italia del secondo dopoguerra,  delle sue tensioni ideologiche e dei suoi grandi valori, delle sue semplicità appaganti, delle sue povertà materiali e grandi ricchezze umane e spirituali. Un’Italia cancellata dal sessantotto e dalle sue conseguenze, che al grido di “né Dio, né padri, né padroni” ha eliminato gli amori più grandi e più belli, le verità più profonde, il senso più autentico delle nostre esistenze, regalandoci precipizi esistenziali, vuoti interiori, disperazioni drogate e drogastiche.

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