“Per la poesia, quale futuro?” di Giuseppe Modica

Per introdurre un discorso sulla poesia, per sé ingrato in quanto si tratta di un genere letterario che mai è apparso così inadeguato e fuori luogo come nel tempo tutto prosastico che viviamo, non v’è forse modo migliore che farlo provocatoriamente, ricorrendo all'analisi di un verso caustico ed emblematico nella sua enunciazione: "poeticamente abita l'uomo". L’espressione appartiene a una lirica composta sul finire del 1700 dal poeta tedesco Hölderlin - cui Heidegger ha consacrato un’attenzione tutta speciale - ma, come tutti i classici che si rispettino, ha un impatto sorprendente, quasi devastante, sull'attualità. Basti considerare il fatto che qui non viene detto che sia il poeta ad abitare in modo poetico, ciò che, per quanto tautologico, potrebbe pure suonare comprensibile. Qui si dice che ad abitare poeticamente è l'uomo stesso. Che senso può avere un'espressione come questa, oggi, in un tempo che, con crescente intensità, appare immerso nel fondo più oscuro di ciò che Nietzsche sul finire del XIX secolo connotava col termine “nichilismo”? E – si badi – egli intendeva riferirsi alla crisi di tutti i valori non nel senso della sostituzione dei vecchi valori con dei nuovi, bensì come l'annullamento dei vecchi valori senza che a essi ne siano subentrati di nuovi. E allora non si dovrebbe piuttosto dire: nichilisticamente abita l'uomo? Tanto più che la poesia oggi viene negata - per usare un'espressione heideggheriana - come un inutile sentimentalismo e come un perdersi nell'irreale. E del resto non è forse vero che i poeti sono dei semplici creatori di immagini, dei fingitori e, in ultima analisi, dei sognatori?
Ora, a ben riflettere, abitare e poetare sarebbero incompatibili se l'abitare significasse 'possedere un'abitazione', “avere un alloggio”, cioè se si inscrivesse sul piano dell'avere. Ma qui, al contrario, l'abitare si inscrive sul piano dell'essere poiché si riferisce allo statuto ontologico dell'uomo e, insieme, all'”essenza” dell'abitare. E quindi il poetare non è un “ornamento” dell'abitare, ma, tutt'al contrario, ciò che conferisce all'abitare il significato essenziale.
Tuttavia, il ricondurre l'abitare al piano dell'essere e rinvenire la sua essenza nel poetare non rischia di reintrodurre quell’astrattezza della fantasia rimproverata alla poesia e che la collocherebbe oltre il reale? Lo sarebbe se Hölderlin non specificasse – come fa - che l'uomo abita poeticamente, ma “su questa terra” (auf dieser Erde). E vi abita all'interno d'una vita che egli definisce “penosa”. Piuttosto, proprio questa “pena” (Mühe) procura all’uomo il “merito” (Verdenst) di “guardare il cielo”. E perciò l'uomo si trova a essere “il frammezzo” (das Zwischen) fra cielo e terra.
E però il frammezzo non è una dimensione spaziale: sarebbe in tal caso un luogo chiuso. E invece è aperto sopra e sotto, verso l'alto e verso il basso. In tal senso il frammezzo è la “misura” (Maass) dell'uomo, ciò attraverso cui l'uomo viene misurato nell'atto stesso in cui, a sua volta, misura la distanza e la connessione tra cielo e terra. Perciò il misurare è “la poeticità dell'abitare” e, per converso, poetare è “un modo eminente del misurare”. Non si tratta infatti d'un prendere le misure fisiche o spaziali della distanza fra cielo e terra, bensì della qualificazione dell'essenza dell'uomo come frammezzo in cui egli abita poeticamente.
Da questo punto di vista Heidegger può in proposito affermare che “il poeta fa poesia solo quando [...] dice gli aspetti del cielo” dalla prospettiva “penosa” della terra. Ecco perché “le immagini poetiche sono delle immaginazioni” proprio “in senso eminente: non pure e semplici fantasie e illusioni, ma incorporazioni visibili dell'estraneo”, ovvero rappresentano il modo in cui il poeta dà corpo all'incorporeo, tangenza all'intangibile, contesto all'incontestualizzabile, misura all'incommensurabile, cioè quando dà vita all'”impossibile credibile”, come avrebbe detto Vico citando Aristotele.
Ora, se il poeta può misurare la distanza tra cielo e terra proprio in quanto il suo abitare non è un “luogo”, egli è senza luogo, dislocato, “atopico”. Ma, in quanto il modo del suo abitare non segue le regole razionali del principio di non contraddizione – per cui ogni cosa è se stessa e non altro – anzi le nega nella misura in cui “metaforizza”, cioè rende la cosa altra da sé facendola volare oltre (metà) se stessa, egli è, insieme, “alogico”, senza ragione.
In epoca nichilistica, rispetto a un futuro che ci appare sempre più una minaccia e sempre meno una promessa e, quindi, che non è più tale in quanto priva il presente di ogni aspettativa, condizionandone insieme la capacità di rammemorazione che, sola, può restituire al passato il suo inesauribile patrimonio, il tempo, spalmato e appiattito in un eterno presente, diventa contraffatto e si inautenticizza poiché viene disappropriato dello spessore insieme infra e sovra-temporale che ne costituisce l'essenza. E poiché si tratta non del tempo matematico o esterno, ma del tempo interno, della durata, è l'anima che piange e soffre questo tempo mortificato. Perciò la poesia può rivestire un ruolo sorprendente e fondamentale proprio nell'atopicità e nell'alogicità del creatore d'immagini. Nella misura in cui mette le ali, la poesia è – come ha ben evidenziato Heidegger – l'espressione più alta della creatività umana, cui bisogna guardare affinché questa scommessa del tempo, sul tempo, non resti una pura utopia.
 
RIFERIMENTI
 
M. HEIDEGGER, “… Poeticamente abita l’uomo…”, in M. Heidegger, Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Milano, Mursia, 1980
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