La “voce” delle scrittrici nella storia della emancipazione femminile - di Maria Nivea Zagarella

In relazione alla giornata dell’8 marzo e agli interrogativi che pongono i ricorrenti femminicidi, quanto mai opportuno si rivela il libro, relativamente recente (luglio 2020), della giornalista e storica delle donne Valeria Palumbo, Non per me sola -Storia delle italiane attraverso i romanzi, che vuole essere un invito a “ricordare” la voce e il ruolo delle scrittrici che hanno segnato il lungo cammino dell’emancipazione femminile in Italia dall’800 a oggi. L’autrice riserva dello spazio, sebbene ristretto, anche alla scrittrice palermitana Maria Messina (1887/1944), vissuta alcuni anni a Mistretta (ME) e poi ad Ascoli Piceno,Trani, Napoli, Firenze, Pistoia, della quale cita alcune novelle (Compagne di scuola, Il pozzo e il professore, Il ricordo, Rose rosse, L’ora che passa) e il romanzo “L’amore negato” (1928), importanti per noi in rapporto ai problemi della istruzione, violenza sessuale, sottomissione/dipendenza della donna, possibilità e finalità del lavoro femminile. La ricostruzione che la Palumbo attua dell’”universo donne” italiane nei due secoli si avvale di nutriti dati statistici sulla condizione delle operaie (adulte e minorenni), sulla curva di malattie e analfabetismo, sull’incremento progressivo di studentesse, laureate, del “viaggiar sole” e dell’accesso agli sport, sulle vicende degli istituti religiosi femminili, sul sogno della “casa di proprietà” secondo l’adagio “mogliettina carina-casa carina”, fino a una indagine Istat 2018, da cui è emersa la convinzione che la violenza maschile sia tuttora legata alla pretesa (sic!) degli uomini di considerare le donne loro proprietà, come avveniva in passato a causa della patria potestà e potestà maritale, e quale era ancora presente e operante in una inchiesta condotta al Sud da Gabriella Parca nel 1961 per “L’Europeo”. La sorella è una cosa che ci appartiene -diceva alla giornalista un ragazzo calabrese circa l’accettata e condivisa necessità di scacciare di casa una sorella che avesse ceduto al fidanzato… e la Parca concludeva annotando che La gelosia nasce da un malinteso senso di possesso, perché l’uomo considera la donna una “cosa” che gli appartiene; ma nasce anche dalla cattiva coscienza che l’uomo ha di sé… sapendosi pronto a dare la caccia (come tutti gli altri) a ogni donna fuori del suo recinto familiare… Nessun cambiamento di mentalità dunque di generazione in generazione?

Puntuali sono nel libro della Palumbo, oltre gli adeguati agganci a certe canzoni popolarmente in voga in passato nel nostro Paese (Mille lire al mese, C’è un casetta piccina, Mamma,Tutte le mamme…), i riferimenti alla situazione legislativa nelle diverse fasi storiche esaminate, e alle varie, e in successione, conquiste legali e civili realizzate: equiparazione nel 1885 dello stipendio, prima di molto inferiore, delle maestre a quello dei maestri; fine nel 1919 della tutela maritale; abolizione nel 1956 dello jus corrigendi (che giustificava la violenza paterna su moglie e figli) e nel 1981 del delitto d’onore; introduzione del divorzio (1970); riforma del diritto di famiglia (1975) con il riconoscimento della parità dei coniugi; aborto legalizzato (1978); legge del 1996 che fa della violenza sessuale non più un reato contro la morale, ma contro la persona, per cui -scrive la Palumbo- anche padri fratelli zii tutori non hanno più licenza di violentare, anche se lo fannoin privato”, come aveva già documentato nel 1936 il tragico romanzo “Maria Zef” di Paola Bianchetti Drigo centrato sull’incesto dello zio tutore (e ubriacone). Conquiste graduali grazie alle quali -dice l’autrice- oggi le donne si muovono liberamente, si autoaffermano nel lavoro, cambiano partner senza farne un dramma e soprattutto attorno alla maternità o alla sua mancanza non ruota la loro vita. E vanno aggiunti, quanto al cambiamento del costume, pure il sorpasso dei matrimoni civili su quelli religiosi, il rispetto delle libere convivenze, il riconoscimento dei diritti delle coppie omosessuali (legge Cirinnà 2016), problematica quest’ultima affacciatasi come esperienza dell’amore lesbico in talune scrittrici trasgressive novecentesche, quali Mura (Maria Assunta Giulia Volpi Nannipieri) nel romanzo “Perfidie” (1919), Milena Milani in “La ragazza di nome Giulio” (1964), Goliarda Sapienza in “L’arte della gioia” (1976), Melania Mazzucco in “Il bacio della Medusa”(1996), che narra una storia d’amore di inizio ‘900 fra Norma e Medusa, con la finale chiusura, per lo scandalo sociale e morale, di Norma in manicomio. Ma l’oggi “liberato”, di cui sopra si diceva, trova il suo antefatto in tutte quelle donne che con le loro scelte di vita, a volte più avanzate delle loro idee (vedi le contraddizioni di scrittrici emancipate e mogli separate come Matilde Serao e Ada Negri), e con i loro scritti (Natalia Ginzburg, Anna Maria Ortese, Alba De Cespedes, Dacia Maraini…) hanno preparato e supportato l’attuale autonomia e emancipazione, anche economica, femminili. La Palumbo ricorda le grandi intellettuali indipendenti e consapevoli di sé come Cristina Trivulzio di Belgiojoso, madre rimossa del nostro Risorgimento, le scienziate Maria Montessori e Rita Levi Montalcini, e la più modesta Giuseppina Croci, figlia di un fabbricante di spazzole, che scriveva male ma ha lasciato l’interessante e ben documentato diario di viaggio “Da Milano a Shanghai” (1890), dove andò a sovrintendere a una filanda di seta diretta dall’italiano Daniele Beretta. E accanto a loro le creatrici di moda, da Elsa Schiaparelli (1890/1973) a Rosa Genoni (1867/1954) alle sorelle Fontana (Zoe, Micol, Giovanna), importanti per il made in Italy; le donne affermatesi nella saggistica (ritenuto feudo maschile): letteraria musicale cinematografica; le musiciste professioniste con cattedre ai Conservatori già da fine ‘800. E soprattutto le innumerevoli scrittrici di romanzi e racconti (impossibile qui ricordare tutte quelle chiamate in causa dall’autrice), che osservando, raccontando, documentando, hanno rappresentato ripetendoli, o ribaltato denunciandoli, fra testi per giovinette o signorine, costruiti sulla triade verginità-amore-matrimonio e testi più impegnati o di rottura, tutti gli “stereotipi” maschilisti e patriarcali, trasmettendoci un variegato, partecipato, affresco storico.

Gli stereotipi ad esempio della moglie devota e sottomessa e della madre che “tutto deve e nulla chiede”, ai quali si ribellò Sibilla Aleramo (1906) in “Una donna”: Amare e sacrificarsi e soccombere! Questo il destino suo (cioè la madre disamata e impazzita per i tradimenti del marito) e forse di tutte le donne?… -scriveva Sibilla- e si chiedeva inquieta: Perché nella maternità adoriamo il sacrificio?... e altrove annotava con mano ferma: I figli devono esserci grati per quello che siamo, per la volontà di tramandare più nobile e bella in essi la vita, e non perché dopo averli ciecamente suscitati dal nulla, rinunciamo ad essere noi stessi. Altro stereotipo era quello della lettura e della scrittura “corruttrici” delle donne, poiché -secondo una opinione diffusa- “distraevano“ le madri dai loro doveri e “spingevano” le mogli all’adulterio. Lo denunciò l’infelicissima poetessa siciliana, nata e morta a Noto (SR), Mariannina Coffa (1841/1878), costretta a scrivere di nascosto perché non si dicesse che non era donna di casa, e che si sentiva fulminare dagli occhi severi e maligni del suocero, il quale -diceva Mariannina- non fece apprendere alle sue figlie il leggere e lo scrivere appunto perché non fossero disoneste o cattive donne di casa. Condizionamento denunciato anche da Jolanda (Maria Majocchi Plattis) che rivendicava (“Dal mio verziere”,1896) il diritto alla cultura e al mestiere di scrittrice, da Rosalia Piatti che in un racconto (1876) segnalava come handicap per una ragazza da marito proprio la sua istruzione, e più recentemente da Marina Jarre che nel romanzo “Negli occhi di una ragazza” del 1971, anni della contestazione giovanile (sic!), parla di una tredicenne che vuole tornare a scuola e non fare da serva al padre e al fratello “rivoluzionario” solo per sé e per i maschi! Lo stereotipo ancora, della massaia/angelo del focolare, rovesciato dal romanzo “Nascita e morte della massaia” (1941/42) di Paola Masino, giudicato disfattista e cinico dal regime fascista; e quello della “Signora” che non aveva bisogno, dato lo status sociale, di uscire di casa per andare a lavorare, mentre per le scrittrici Maria Savi Lopez (1846/1940), Luisa Emanuel Saredo (1830/1896) e per Marchesa Colombi (Maria Antonietta Torriani,1846/1920) il “lavoro” al contrario contribuiva a dare “decoro” alla donna, oltre che “orgoglio”, come sarà pure per la Mirella di “Quaderno proibito” (1952, di Alba De Cespedes), e emancipante, necessaria (sic!), libertà economica. E alla pari del “lavoro”, lo “studio”, strumento utile per mantenersi e sopravvivere, come emerge da varie pagine di Maria Messina (fra cui anche i romanzi “Primavera senza sole” e “Il fiore che non fiorì”) e dalle motivazioni della studentessa universitaria Silvia (perché, per sopravvivere, non le resta[va] che l’intelligenza…) di “Nessuno torna indietro”, altra opera di Alba De Cespedes (1938). E non poteva mancare nell’elenco lo stereotipo infamante dello stupro (o gravidanza extramatrimoniale) che se in “Cenere“ (1904) di Grazia Deledda domina come macchia incancellabile e “feroce“, appare invece superato e trasceso nella umanissima eroica vicenda della maestra Ida di Elsa Morante ne “La Storia” (1974), una madre Ida visceralmente legata al suo bambino Useppe, intensamente amato anche dal fratellastro Nino. Altro abbinamento frustrante e condizionante (e tuttora resistente entro i confini di un certo esasperato, attuale, consumismo!) quello tra “donna e casa matrimoniale”, “donna e arredamento”, infranto dal nomadismo spirituale e fisico di Sibilla Aleramo (Maria Felicina Faccio), Contessa Lara (Evelina Cattermole), Anna Maria Ortese, che in “Poveri e semplici” (1967) fa vivere insieme quale anomala “famiglia” in un appartamento milanese una piccola comunità di intellettuali squattrinati, e da Gina Lagorio che in “Spiaggia del lupo” (1977) fa rifiutare da Angela, messa incinta, sia l’appartamentino approntatole dal compagno sposato ad un’altra, sia il compagno stesso possessivo e prepotente, scegliendo la libertà per sé e per suo figlio (Milano era una città ferita, ma viva. Anche lei lo era). Per non parlare delle cosiddette “religiose” e del regime di clausura controriformistico e monacazioni forzate duramente sofferti da innumerevoli donne (vedi la testimonianza dell’indomita ribelle ex religiosa, giornalista e politica, Enrichetta Caracciolo, autrice de “I misteri del chiostro napoletano”,1864, o “Storia di una capinera” di G. Verga,1871) prima dell’introduzione dei “voti temporanei” da parte di talune congregazioni femminili e del loro impegno programmaticamente “aperto” al sociale e ”nel” sociale, soprattutto dopo l’Unità d’Italia (asili, orfanatrofi, educandati, convitti, scuole, ospizi per anziani, ospedali, carceri…). E che dire del manicomio, dove finivano le donne che si ribellavano o soffrivano psicologicamente il “disagio” del ruolo (subordinato, emarginato, coartante) loro imposto dal volere della famiglia, dalla società, dalla sorte, quali le note vicende della poetessa Alda Merini, internata dal 1965 al 1978. La Merini attuerà nei suoi versi una singolare equiparazione fra il “manicomio” e la Terra Santa, perché in Palestina Cristo visse la sua morte e resurrezione, come la poetessa infine risorta, e perché i pazzi, quasi ebrei e branco di asceti, vi pativano la segregazione di sbarre e cancelli, la violenza degli elettrochoc, dei sedativi eccessivi, delle fascette di contenzione, dei lavaggi con i disinfettanti in una umiliante nudità collettiva, oltre che la colpevolizzazione di desideri e istinti, e la spoliazione di ogni dignità. E lascerà la Merini in “L’altra verità - Diario di una diversa” (1986) anche testimonianza dell’esperienza terribile di Adalgisa Conti, chiusa in manicomio solo perché il marito voleva liberarsene e autrice di una autobiografia soltanto di recente scoperta da un ricercatore del Cnr. E per finire, vanno ricordati gli usuali, imposti, “matrimoni di convenienza” criticati come una “vergogna” pure dall’antifemminista Neera (Anna Zuccari Radius) nel romanzo “Teresa” (1886); o da Carola Prosperi ne “La nemica dei sogni” (1914), dove fra l’altro si legge (e oggi con più amaro raccapriccio pensando a situazioni simili ancora presenti in molti paesi del mondo), quanto alla presentazione/offerta di una futura sposa, la frase:<<Ecco la ragazza -[detto] con lo stesso tono di un mediatore qualunque che il giorno di mercato dice: Ecco la giovenca>>; o da Elda Gianelli, che faceva affermare dal protagonista del racconto Incontro nell’omonima sua raccolta (1892), nell’atto di rifiutare un matrimonio di interesse: <<Io non mi ammoglierò maiPerché non vorrei essere il carceriere di nessuno>>.

Voci che raccontano “un’altra” storia delle donne, passata e purtroppo contemporanea, se torniamo ai femminicidi delle cronache quotidiane, alle intimidazioni e sequestri terroristici, e alle disparità uomo/donna ancora esistenti a livello planetario. Raccontano le scrittrici dei secoli che ci hanno preceduti le molte, troppe, discriminazioni subite dalle donne (punito dalla legge solo l’adulterio femminile, assoluta libertà/irresponsabilità invece dei maschi nel seminare ovunque “bastardi”, divieto alle donne di studiare o di esercitare professioni e mestieri, vistose diseguaglianze nell’eredità…); le costrizioni introiettate fino alla passività/rassegnazione fatalistica; o al contrario, la coraggiosa ricerca e lotta per riprendersi in qualche modo la vita (la Denza di “Un matrimonio in provincia”,1885, di Marchesa Colombi), la propria intelligenza (“La marchesa Alviti”,1888, di Matilde Gioli), il proprio corpo e affettività (la bulimia sentimentale e sessuale di Sibilla Aleramo e Contessa Lara, uccisa dall’amante nel 1897), insomma la propria originale “identità”. Voci di un “riscatto” tentato, fallito, riuscito, che vanno -scrive giustamente e con la sua caratteristica, combattiva, determinazione la Palumbo- recuperate e inserite, accanto alle penne più note e geniali di Goethe, Tolstoj, Flaubert, fra le fonti autorevoli del nostro presente. Per corrodere -puntualizza l’autrice- i vecchi schemi mentali circa una certa presunta “femminilità” e una altrettanto presunta “virilità”, e per ridurre nei maschi il loro terrore delle donne forti e i loro pregiudizi nei confronti di quelle devianti (alias “ribelli”). La Storia infatti da “fare insieme”, a livello paritario, donne e uomini, senza reciproche pretestuose sopraffazioni è, e deve essere, “storia plurima”, non solo come focalizzazione narrativa e recupero di modelli al femminile (l’excursus della Palumbo), ma come lungimirante, intelligente (sic!) “poiein” collettivo per il bene dell’umanità intera!                   

 

 

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