“L’uso dell’imperfezione e il ruolo dell’occasione nel far poesia” di Giuseppe Modica

Nel complesso rapporto che, a proposito della composizione poetica, lega l’ispirazione all’operosità, due fattori occupano un posto significativo: l’uso dell’imperfezione e il ruolo dell’occasione.
A proposito del primo punto, per una elaborazione attenta e scrupolosa del testo, occorre individuare quelle imperfezioni presenti in ogni composizione non come scorie di cui disfarsi, ma come segni di un travaglio sempre vivo, vere e proprie saldature che collegano le parti tra loro sino a rendersi indispensabili. Sono quelle “zeppe” - come le chiama Pareyson - che “per la loro stessa dimessa negligenza” generano “quelle pause e quelle soste da cui, per abile gioco di chiaroscuri, prendono risalto i momenti di più intensa e concentrata poesia“. E da questo punto di vista - osserva in proposito Eco - la zeppa può anche essere “un avvio banale”, ma “utile per ottenere un finale sublime“. Come dice il poeta, “sempre caro mi fu quest’ermo colle”. E “che deve essere un colle, in linguaggio poetico, se non ‘ermo’? Eppure senza quell’inizio banale la poesia non prenderebbe avvio, e forse occorreva che banale fosse perché potesse essere avvertito infine il sentimento panico di quel naufragio, poeticamente memorabile”.
A proposito del secondo punto, valgano le acute osservazioni di Kierkegaard sul ruolo dell’“occasione” nel far poesia. Com’egli afferma nel saggio sul Primo amore di Scribe, i due poli di ogni autentica creazione sono l’invocazione della musa e l’occasione. Ma parlare di invocazione della musa suona ambiguo poiché può voler dire sia chiamare la musa, sia venir chiamati da essa. Perciò gli scrittori possono essere divisi in due grandi categorie: i falsi scrittori, cioè coloro che chiamano la musa, e i veri scrittori, cioè coloro che sono chiamati dalla musa. I primi si mettono in viaggio senza attendere che la musa abbia risposto, e perciò non hanno alcuna strada dinanzi che possa servir loro da orientamento e che possa condurli a destinazione. I secondi si mettono in viaggio solo quando sono chiamati dalla musa, ma, così facendo, essi vengono attratti “fuori del mondo” poiché finiscono per ascoltare soltanto la voce di lei. Ora, affinché possano rientrare nel mondo dal quale sono usciti per seguire l'appello della musa, essi hanno bisogno d'una circostanza, ciò che Kierkegaard chiama propriamente “occasione”.
L’occasione è dunque indispensabile “perché ciò che è diventato una determinazione interiore possa diventare anche una determinazione esteriore”. In tal senso l'occasione è qualcosa di paradossale e di scandaloso: da un lato essa è del tutto fortuita, anzi è “sempre l’accidentale”, ma dall’altro è un accidentale “assolutamente necessario”.    Perciò occorre precisare che, per un verso, l'occasione non va appiattita nella consuetudine di chi vede “un’occasione in tutto”: in tal caso smetterebbe d'essere un vero inciampo. E, per un altro verso, l’occasione è condizione indispensabile  ma non sufficiente, come di chi vede “tutto nell’occasione”, finendo per fare solo discorsi di circostanza, fossero pure di grande levatura. Va detto che l'occasione non aggiunge nulla di nuovo alla creazione, e perciò non va confusa con la “causa” di essa, ma è grazie all’occasione che la creazione prende vita. È questo il senso per cui essa non è “fondamento” ma condizione necessaria d’ogni creazione artistica.     
Insomma, l’occasione è ciò che - senza compromettere l’ispirazione, e anzi fornendole spunto - riconduce l'appello della musa alla dimensione terrena alla quale il poeta inevitabilmente appartiene, o, come dice Kierkegaard, è “la categoria di passaggio dalla sfera dell’idea alla realtà”.                                                                
Certo, l’occasione da cui il poeta trae spunto può essere sia una committenza sia un’esperienza intimamente vissuta, sia l’espletamento di un incarico esterno sia l’impatto interiore con una circostanza naturale. In entrambi i casi si tratta di un inciampo che crea sporgenze, e perciò “problemi” (pròblema [pro + ballein] è appunto ciò che viene “gettato avanti” e, quindi, ciò che “sporge”) nella levigatura piatta dell’ordinarietà. Ma mentre nel primo caso l’inciampo è piuttosto passivamente subito, nel secondo caso può essere cercato di proposito, ed è soltanto allora che il transito dalla sfera dell’idea alla realtà diventa un circolo virtuoso, poiché rivisita la realtà in un atto sorprendente di trasfigurazione all’idea.
 
 
            RIFERIMENTI
S. Kierkegaard, Enten – Eller, II, a cura di A. Cortese, Milano, Adelphi, 1990
L. Pareyson, Estetica. Teoria della formatività, Firenze, Sansoni, 1974 (III ed.)
U. Eco, Le sporcizie della forma, in “Rivista di estetica”, 40-41, XXXII                 
 
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