“L’attenzione del moderno nella tradizione antropologica di Lucien Lévy-Bruhl” di Pierfranco Bruni

Antropologia e filosofia al centro di un viaggio tra identità, civiltà e pensiero. Il modello antropologico espresso da Lucien Lévy-Bruhl (nato a Parigi il 10 aprile del 1857, morto a Parigi il 13 marzo del 1939) ha ragione di esistere anche in relazione agli studi contemporanei. Un modello che pone all’attenzione due aspetti che continuano a rimanere fondamentali: il senso della derivazione delle culture primitive con una geografia di miti e di simboli. Un modello in cui la modernità prende il sopravvento.
Per Lévy-Bruhl (in una dimensione sociologica o socio – filosofica di E. Durkheim)  la vera essenza della cultura primitiva è quella in cui il senso delle origini, delle civiltà, degli archivi mentali costituisce il presupposto di un archetipo in cui, escludendo la ragione, sussistono solo emozioni, sensazioni, percezioni. I popoli primitivi ignoravano l’Occidente, del quale non potevano possedere neppure una conoscenza sul piano di un immaginario visuale. Con il prevalere, in seguito, della cultura occidentale sono venuti meno quegli elementi che hanno fatto del senso del primitivo l’archetipo assoluto. Questo costituisce il punto nevralgico di un’antropologia che non può essere confusa con altre forme come l’etnologia, l’etnografia o le tradizioni popolari.
In Lévy-Bruhl  diventa fondamentale il concetto di antropologia concepito come antropos, ossia l’uomo nella sua più omogenea impalcatura, mentale, fisica e logica. Un viaggio in una nuova antropologia del “prelogismo”. A tal proposito, tra le sue opere che hanno tracciato un percorso fondamentale non posso che citare: “Le funzioni mentali delle società inferiori” (1910), “La mentalità primitiva” (1922), “Il soprannaturale e la natura nella mentalità primitiva”  (1931), “L'esperienza mistica ed i simboli presso i primitivi” (1938).
L’antropos rappresenta un punto di riferimento nella introspezione del primitivismo che si esprime solo per mezzo di simboli, attraverso quella che in seguito verrà definitiva “metafora dei simboli”. Sono proprio i simboli ad incidere, a comunicare, a “osare” un linguaggio vero e proprio. Osare un linguaggio significa parlare avvalendosi di strumenti, di alcuni codici  che sono oggettuali.
Nell’altra componente dell’antropos, ossia quella relativa alla” logica”, si entra nella ragione, nella consapevolezza dell’uomo, delle civiltà e dei popoli che hanno superato il concetto principale, ovvero l’incipit di questa sistematica visione che è l’antropos. L’antropologia è una cultura dell’umanesimo divenuta poi scienza unendosi al concetto di “logia”.
Bisogna stare molto attenti a non fare confusione tra i modelli di antropologia e di tradizione popolare. La storia delle tradizioni popolari è una disciplina molto diversa dall’antropologia. Sussistono condizioni diversificate e diversificanti tra questi due modelli.
All’inizio, ovvero in incipit, l’antropos si manifestava per mezzo di una religiosità dei fatti. Un gesto, un simbolo, perpetrato nel tempo, veniva a costituirsi come modello religioso, ovvero come “tradizione”, tramando e rimando. La religiosità è anche trasmettere una comunicazione mediante i simboli. Soprattutto in quei contesti precristiani, i modelli venivano a costituirsi tra i riti e la liturgia dei riti. I popoli primitivi avevano come modello empatico proprio questa forma di comunicazione di riti divenuti liturgia attraverso una griglia simbolica. Un aspetto di grande interesse.
Dirà Lévy-Bruhl:  
“In presenza di qualcosa che l’interessa, che l’inquieta o che la spaventa, la mente del primitivo non segue la stessa via della nostra. Imbocca subito una strada diversa.
Noi abbiamo un senso continuo di sicurezza intellettuale così saldo che non vediamo come potrebbe essere scosso; poiché, anche supponendo un’apparizione improvvisa di un fenomeno del tutto misterioso e le cui cause ci sfuggissero interamente agli inizi, non saremmo per questo meno persuasi che la nostra ignoranza è soltanto provvisoria, che queste cause esistono e che presto o tardi potranno essere determinate. Così, la natura in seno alla quale viviamo è, per così dire, intellettualizzata in anticipo. Essa è ordine e ragione, come la mente che la pensa e che vi si muove. La nostra attività quotidiana, fin nei suoi più umili particolari, implica una tranquilla e perfetta fiducia nell’invariabilità delle leggi naturali.
Ben diverso è l’atteggiamento mentale del primitivo. La natura in seno alla quale egli vive gli si presenta in tutt’altro aspetto. Tutti gli oggetti e tutti gli esseri sono implicati in una rete di partecipazioni e di esclusioni mistiche: esse anzi ne costituiscono il contesto e l’ordine. Son dunque esse che si imporranno prima di tutto alla sua attenzione, e esse sole la tratterranno. Se è interessato da un fenomeno, se non si limita a percepirlo, per così dire passivamente e senza reagire, egli penserà subito, come per una specie di riflesso mentale, a una potenza occulta e invisibile di cui questo fenomeno è la manifestazione”.
 
Con la cultura occidentale si entra nelle tradizioni popolari, nella storia delle tradizioni popolari, che significa “identificazione”, identità della memoria dei popoli. I popoli primitivi vivevano il tempo, ma erano distanti dal concetto di memoria. Vivevano il tempo in maniera inconsapevole. Nell’Occidente si entra nel concetto di memoria. La tradizione popolare acquisisce il significato di recupero di tutto ciò che è stato. Questo è il motivo per cui si considerano “tradizione” i riti popolari che vanno a formare la storia delle tradizioni popolari alla quale subentra il concetto di “folclore,” inteso come recupero di tutto ciò che è stato l’antropos, ossia di tutto ciò che è stato quel tempo nel quale la memoria non era conosciuta.
Vi è una differenza di fondo a caratterizzare le  due discipline. L’antropos è un modello sciamanico, alchemico nel quale predomina la magia nel momento in cui subentra la ritualità dei temi, dei problemi. Il trasmettere le usanze è il trasmettere i costumi, gli usi, le tradizioni che non sono più “rimandi prioritari”, bensì acquisizioni. Si acquisisce un rito già vissuto, consumato e lo si inserisce in quella dimensione che è quella della memoria, dando una rinnovata identità a quei popoli, a quelle civiltà. La riscoperta del valore di primitivismo è anche una lettura del concetto di selvaggio che esisteva e insisteva nelle comunità primordiali.
Lévy-Bruhl  si  è soffermato su questi elementi. Credo che bisognerebbe solcare il passaggio e definire, partendo dal concetto di antropologia, alcuni aspetti quali l’entnografia (il concetto di etnia in una geografia del territorio che è fatta anche di lingua, di modelli contaminanti e di contaminazioni in un vissuto che è un vissuto, in alcune realtà geografiche, di meticciato) e l’etnolinguistica, la lingua delle etnie o le etnie che si esprimono attraverso le lingue dei territori.
Il modello demo-etonoantropologico pone insieme la varietà di questi contesti. Tuttavia, senza la visione emblematica del modello etnocentrico nell’antropologia è difficile poter modulare questi processi culturali. Etnocentrico in quanto nella visione primitivistica del primitivo, l’etnia o l’appartenenza diventa centrale, appunto, “etnocentrica”. La cultura primitiva è etnocentrica pur attraverso una varietà di esperienze che i popoli primitivi hanno vissuto e hanno espresso all’interno dei territori. Ciò che li univa non era il modello linguistico in sé, bensì il modello simbolico.
Nella simbologia si vivono le dimensioni spirituali. È nella visione spirituale che si rinviene il valore di comunicazione interiore.
Quanto senso aveva lo sguardo, la comunicazione degli occhi nella cultura primitiva!
L’antropologia è una comunicazione oggettuale che diventa immateriale nel momento in cui i popoli comunicano anche attraverso lo sguardo, oltre che con la parola e gli oggetti.
Ritengo che si possa giocare una partita importante sul piano di una antropologia comparata che non smette di confrontarsi con la realtà, con il presente pur restando all’interno di una dimensione spirituale. Dimensione spirituale che per i popoli primitivi resta il vivere in un tempo in cui non si pongono questioni di memoria, di ricordo, di ricordanze, di rimembranze.
Il tempo ha una sua fragilità e si fraziona. L’Occidente, scoprendo il tempo, scopre il concetto di eredità. Ecco uno dei punti cardinali tra la cultura degli archetipi e la cultura dei miti. I popoli primitivi vivevano in una dimensione di archetipi. L’Occidente, invece, vive all’interno di quella articolazione in cui a parlare sono i miti, ovvero  il mito. Il mito che scava in una “partecipazione mistica” il cui senso resta la centralità della consapevolezza delle identità.
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