L’appello di Togliatti ai “fratelli in camicia nera” – di Ferdinando Bergamaschi

Nell’agosto del 1936 Palmiro Togliatti, che da qualche anno guidava il Partito Comunista d’Italia, lanciò su Lo Stato Operaio (rivista di punta del partito diretta dallo stesso Togliatti) il manifesto-appello agli italiani “Appello ai fratelli in camicia nera. Per la salvezza dell’Italia riconciliazione del popolo italiano!”, con la firma di tutti i più importanti dirigenti comunisti, prima fra tutti proprio quella di Togliatti stesso.
Nel suo pregevole lavoro Fratelli in camicia nera. Comunisti e fascisti dal corporativismo alla CGIL (Il Mulino, Bologna, 1996) il professor Pietro Neglie, approfondisce la tematica di quale fu il terreno in cui incubò questa iniziativa di Togliatti. Egli ci dice fra l’altro che il “sindacato fascista […] fu il perno della riflessione di Togliatti sul fascismo. Come organizzazione di massa, in quanto erede del sindacalismo rivoluzionario, il sindacato fascista aveva un potenziale rivoluzionario che secondo il P.C.I. poteva rappresentare il terreno su cui incontrarsi”. In effetti già nel 1934 Togliatti, a Mosca, su 11 lezioni che tiene ai comunisti 9 le dedica al fascismo, perché era la cosa più interessante da studiare e di queste 9 ne dedica 6 all’esperienza del sindacato fascista. Togliatti aveva capito che il fascismo era diventato veramente inclusivo e totalitario, totalitario nel senso che Togliatti conosceva benissimo. La destra togliattiana che guidava il partito (e non solo il centro gramsciano e la sinistra bordighista) aveva capito che il fascismo rappresentava un’avanguardia per quel che riguardava il rapporto degli uomini con il lavoro e la conseguente politica sociale e di partecipazione inclusiva delle masse alla vita politica; per questo Togliatti si muove per cercare un accordo con i fascisti, specie con il fascismo di sinistra. Togliatti, nel 1934, afferma nelle sue Lezioni sul fascismo che “i sindacati sono la principale organizzazione di massa del fascismo. Il fascismo ha sempre avuto la tendenza a creare delle organizzazioni sindacali [...]. Esso si è posto il problema di riuscire a influenzare in modo diretto e legare a sé in modo organizzato degli strati di lavoratori: operai, braccianti ecc.”. E come ricorda il professor Neglie: “Il regime fascista mise le confederazioni [sindacali] nelle condizioni di migliorare la retribuzione e introdurre delle novità in campo normativo che ancora oggi sono beneficiate dai lavoratori. […] Sul terreno dell’assistenza e della previdenza i lavoratori si videro riconosciute molte delle vecchie aspirazioni, per quanto riguarda gli operai c’è anche un avvio verso la perequazione con gli impiegati. E’ l’avvio di una politica sociale che non ha precedenti: si tratta dell’estensione della indennità di licenziamento, delle ferie pagate, del periodo di prova, della conservazione del posto in caso di malattia, dell’istituzione della gratifica natalizia (una settimana per gli operai, un mese per gli impiegati), dell’introduzione degli assegni familiari nell’industria, della creazione delle casse mutue.”  E se dunque il quadro è quello delle masse che si sentono sempre più legate al fascismo di Mussolini, è proprio in questo quadro che Togliatti, come si diceva, nell’agosto del 1936, prende l’iniziativa e affida a Mario Montagnana, dirigente di punta del P.C.I., l’ “appello ai fratelli in camicia nera”. Questo appello si spinge addirittura ad affermare che i comunisti devono adottare il programma fascista del 1919: “Noi comunisti facciamo nostro il programma fascista del 1919, che è un programma di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori, e vi diciamo: lottiamo uniti per la realizzazione di questo programma”. Come osserverà anche lo storico comunista Paolo Spriano il documento “non contempla né contiene il minimo attacco a Mussolini” e ciò indubbiamente perché i comunisti sapevano bene che un fascista di sinistra può anche mostrare apertura, eventualmente, alle loro tesi ma non accetterà mai che venga attaccato Mussolini. E sempre nello stesso documento si dice: “Fascisti della vecchia guardia! Giovani fascisti! Noi proclamiamo che siamo disposti a combattere assieme a voi ed a tutto il popolo italiano per la realizzazione del programma fascista del 1919, e per ogni rivendicazione che esprima un interesse immediato, particolare o generale, dei lavoratori e del popolo italiano.[…] Solo la unione fraterna del popolo italiano, raggiunta attraverso la riconciliazione tra fascisti e non fascisti, potrà abbattere la potenza dei pescicani nel nostro paese e potrà strappare le promesse che per molti anni sono state fatte alle masse popolari e che non sono state mantenute. [...] Sono questi grandi magnati del capitale che impediscono l’unione del nostro popolo, mettendo fascisti e antifascisti gli uni contro gli altri, per sfruttarci tutti con maggiore libertà”. In questo quadro Ruggero Grieco, dirigente di primo livello del P.C.I. (di cui ne sarà anche segretario nazionale), scrive su Lo Stato Operaio nel novembre dello stesso anno: “Se esaminiamo chi sono le decine di migliaia di operai e lavoratori fascisti constatiamo che essi sono, nella grandissima maggioranza, degli operai onesti, i quali credo- no che il fascismo la farà finita un giorno coi capitalisti, difendono gli interessi propri e dei compagni di lavoro, e sono spesso alla testa delle lotte operaie. Ma anche se saliamo un poco nella gerarchia dei quadri fascisti ci accorgiamo che una parte importante di questi dirigenti crede al proprio compito di difendere gli interessi dei lavoratori, e non vuole essere uno strumento nelle mani dei capitalisti. Potremmo portare degli esempi a iosa per confermare quanto diciamo”.  
Se il terreno per questa fratellanza è da riscontrarsi nella ricerca della giustizia sociale che era comune a fascisti e comunisti è però necessario dire che a quell’epoca i metodi per raggiungere questa giustizia sociale erano molto diversi: il fascismo lavorava ad una terza via in campo economico, mentre il comunismo non concepiva nessuna terza via anzi rappresentava una delle due vecchie vie (infatti per i comunisti, a quell’epoca, perseguire una politica socialdemocratica e “terzista” – come fece il fascismo - equivaleva a essere servi del capitalismo). Mussolini, fin da subito, prese la strada di ciò che potremmo chiamare una “socialdemocrazia autoritaria” o anche un “keynesismo antelitteram” (purtroppo anch’esso autoritario) tanto che lo stesso duce confiderà a De Begnac negli anni Trenta: “Il grande capitalismo non tollera riduzione dei propri poteri. Ha implorato il salvataggio. Lo ha ottenuto. Ma non intende restituire in fiducia quel che i contribuenti italiani gli hanno concesso con immensa generosità. Prima ancora che la cultura economica di Keynes indicasse nell’ingresso dello stato entro il devastato campo dell’imprenditoria privata la via d’uscita alla crisi del 1929, abbiamo fatto quel che egli poi, consigliò agli inglesi, agli americani”. Ed è da questo punto di vista “socialdemocratico autoritario” o “keynesiano autoritario” che va letta l’affermazione che, sempre a De Begnac, fa lo stesso Mussolini: “Quel poco di rivoluzionario che il socialismo ha conservato, quel molto di innovatore che il comunismo italiano ha spinto alle estreme soglie della socialità recano ancora un nome: il mio”.
Comunque l’appello di Togliatti e dei comunisti ufficiali ai “fratelli in camicia nera” dovrà poco dopo sbattere contro la guerra di Spagna che vide da un lato schierarsi i nazionalismi, pur diversi tra loro (lo spagnolo, l’italiano e il tedesco) e dall’altro lato tutti gli altri (liberaldemocrazie occidentali e Unione Sovietica).
Di questo appello di Togliatti rimane però almeno il seme per una riconciliazione della coscienza nazionale? Vi è da sperarlo.
 
 
 
 
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