IV Capitolo - "La mia vita" di Antonio Saccà

Antonio Saccà con la madre

Mia madre era appassionatissima, il suo spirito esigeva una dedizione illimitata, ai figli, al coniuge,  un ideale, nelle passioni  vi era Gualtieri Sicaminò, piccolo , un paesino che lei amava, ricordava, rimpiangeva, rammentava come una felicità perduta da  prendere nuovamente ed ancora, comunque lontana . Gualtieri Sicaminò non era corporalmente distante da Messina anche se a quei tempi le distanze si rendevano consistenti .In fondo a montagnole e collinette, montagnole e collinette  proprietà in gran numero del padre di mia madre, Benincasa, Liparano, Fuotto, Giardinetto, ne ricordo alcune, e forse danneggio i nomi, territori anche molto estesi,  la  coltivazione  non saprei dirla, ricordo Giardinetto, accanto ad  un fiumiciattolo, un torrentuccio essiccato, scaglioso di pietre, pozzette d'acqua, qualche rana, qualche rospo di gola gonfia, vigile,  mio fratello e  ragazzetti del luogo o i cugini li  uccidevano, li “scafazzavano” poltigliosamente, o li traforavano di cannucce come a imbalsamarli, a farne pelli. Oltre al rapporto con le piante vi era il rapporto con gli animali. Nella piazza abitata dalla mia famiglia , prossimo, uno scannatoio di maiali, udivo lo strazio , sembravano bambini seviziati, proprio il dolore  non solo della morte ma della morte crudele, e questo tutti i giorni. Io iniziai una passione smodata per gli uccelli , già da Messina,  tenni gabbie con venti uccelletti o  maggiormente,   uccelletti verdi e giallini, vivacissimi, sguardo curioso e interpretativo, faccino a scatti, le alucce aperte di  giallo intarsiato di verde o verde intarsiato di giallo, poi uccelli con del rosso e giallo, meno animati, qualche passerotto grigio, serio, fermo,  uno, cuccioletto implume si fece male e gridava ,  credendo che avesse fame gli davo bollicine arrotondate di mollica, apriva la bocca, ed io  a gonfiarlo, soffocandolo, gli abbiamo decretato il funerale,  accadeva a Messina. Questo uccellino,  mi era affezionatissimo, mi seguiva, e  mi diede a capire che presso che non esiste alcunchè privato di sentire. Ma da parte mia  vi fu anche una morbosa voglia di far soffrire dei viventi, ne dirò.  A Gualtieri , nel palazzetto di famiglia, un uccello consistente, verdino, con becco puntuto, occhio aggressivo  non so perchè stava nella mano del padre di mia madre  che forse lo voleva ridare al volo , l'uccello si dibatteva furente considerandosi preso e beccava a sangue,  ne vdevo le gocce, ed il volto del mio avo torcersi dal dolore e  dal non riuscere a metterlo fuori anzi essere considerato nemico. Non è facile capire e farsi capire, né tra gli esseri umani, né tra esseri umani ed animali, ed uno sguardo, un gesto possono drammatizzare o placare la situazione.

A Gualtiri non esisteva vita sociale piuttosto familiare, vi erano tuttavia personaggi noti,  presi in giro, rappresentativi, ai limiti della demenza, la gente  ne rideva con crudeltà benevole,  uno di costoro soprannominato, il soprannome è  un tratto dei piccoli centri, delle borgate, Testa d'Ariggu(testa di grillo), una testa ridotta,  e un'intelligenza adeguata al cervello,' preso in giro rideva a sua volta,  tutt'altro un personaggio soprannominato Tron Tron u briacu, a quanto pare beveva oltremodo, e camminava a sghimbescio, dondolante , non so, forse era lui che  si guardava allo specchio e si dichiarava: Sono  o non sono Mussolini? Dicevo, esistenza semplice, ridotta,  l'odore della legna bruciata , l'odore del pane, le gambe striate di rosso per la vicinanza ai bracieri. Una volta presero un ladro, lo maltrattavano, io gridavo perchè lo sciogliessero.

Un pomeriggio, nel palazzetto dei miei antenati, al primo piano, ascolto un suono delle campane, don don don, din ,din, din , dan, dan, dan, den, den, den , ripetuto, mai ascoltato, sposto le tendine, gente, gruppetti,  carro , bara, cavalli bardati di nero perfino sulle facce, il foro per gli occhi, io molto piccolo, eppure  quei colori neri, quella gente  furtiva, silenziosa, mi fecero percepire senza capire :qualcosa di  triste, il suono delle campane ,tutt'altro che festoso ,  la seconda volta che accostavo   situazioni di pena,  era accaduto con un terremoto, in quel palazzetto, una parte del soffitto cadde sulla domestica insanguinandola, e conobbi il sangue, il corpo ferito, la vita affliggersi, poi, certo, il grido dei maiali scannati, il ladro percosso, vinto. Scoprivo il dolore.

Prima di andare a Gualtieri ,a Messina, inizi della guerra, mia madre era diventata non solo maestra anche addetta a portare  scolaresche nelle campagne ,istituzione del Regime ,le colonie elioterapiche, credo, io vi fui con mia madre, anche senza mia madre , ora non ricordo se queste ultime avvennero dopo la guerra, forse. La natura, l'odore di resina. le vigne grondanti  uva, le grandi palme spinose  con i fichi d'India aggrappati, i tozzi e storti uliveti e soprattutto i limoni giallissimi tra le foglie verdi scure e gli splendenti aranceti rossi tra le foglie levigate che li carezzavano ai tocchi del vento. Le farfalle battevano le ali poi le stringevano riposandosi sulle margherite.La natura penetrava negli occhi, nel naso e la assaporavo nelle labbra ai soffi del vento. Vasti  terreni con  i pini, e le pigne cadute. A Gualtieri, nelle colonie.

Mia madre presente perché  presente, mio padre  presente perchè assente , mia madre me ne diceva, giorno su giorno,amantissimo dei figli, laboriosissimo e narrava di se stessa innamorata, invaghita, lei fanciulla, collegiale, lo vide in campagna a misurare, alto, ben messo,non aveva vent'anni mia madre, “da quando i miei occhi ti videro la prima promessa decisero”, una canzone di quegli anni che tenni da sempre e stava tra I dischi di famiglia. Mio padre aveva sette anni avanzanti su mia madre, nacque nel 1900. Narrandolo mia madre mi  suscitò un altro mondo dove mio padre esisteva,un mondo sopra il reale più reale in quanto vi era mio padre, era mio padre che trasformava la immaginazione in esistenza trasvalutando il mondo esistente. Mi suscitavo la percezione religiosa della realtà.Bambino ero impettito robustello piccolo , all'inizio dell'autunno, dell'inverno mi ammalavo, febbre, tosse,  magrissimo, stecchino, urinavo a letto, quando il medico poggiò l'arecchio caldo affettuoso sul mio petto mi abbandonai alla felicità, un padre, quello era un padre possibie, quello mi avrebbe dato a sentire mio padre! Nel tempo il bisogno di padre che non tradiva il mio padre ombra divenne amore per delle  personalità , un padre ideale, un padre  da ammirare, un ideale dell'io,da raggiungere, avessi mantenuto un padre effettivo non  mi sarei animato alla insoddisfazione attiva, chi sa. Pure le società bisognano di un ideale da raggiungere altrimenti è un branco di individui spersi ,restare individui ma oltrepassarsi quale meta diffusa.

In queste vicende tra Messina e Gualtieri vi era esistente ma come inesistente mia sorella Ermanna. Mia sorella Ermanna è stata un'ombra dai passi minimi e leggeri ,vanisce, non ricordo la sua voce, non ricordo che parlasse, rimaneva silenziosa ,non esclusa, non  contro di noi, ma in se stesse, come tenesse un segreto che le apparteneva  e lei soltanto conosceva e vedeva, occhi larghi, marroni , densi, sospesi in un sogno o una visione,mesti,  nessun gesto energico,e nessun canto ,di lei rimane qualche immagine ,una con la sorella maggiore, Caterina, più alta, più scura, più netta. Tutte e due con un cerchio. L'altra immagine la ferma nell'eternità. Un minimo segno nelle labbra di sofferto sorriso, un tentativo di sorriso che si torce nel dolore, gli occhi sempre quegli occhi, gli occhi che vedono  quel che noi non vedevamo, orrenda immagine  che lei non ha forza di respingere, vincere, e lo sguardo si rassegna,ormai al di là della vita. Ora quella immagine  la precisa sul muto muro  del cimitero di Messina.

Un pomeriggio cadde una piantina, in bagno, il vaso a pezzi, sentii che in quel momento accadeva qualcosa di orribile, e fu così, in quel momento mia sorella Ermanna cessava di vivere una vita non vissuta. Stava a Palermo, noi a Messina, troppo lontani, e lei come abbandonata, senza la madre,sanatorio, tisi  circondata chissà da quale indifferenza, tempi maledetti, non bastava la morte, anche le condizioni del morire, una bambina, quale colpa commessa da pagarla con  la vita? Mia madre divenne una statua di ferro, non essere stata accanto alla figlia  la trapassava quanto la morte della figlia, eppure ormai forgiata a combattere la caduta del cielo, se la vita era quella l'avrebbe vissuta come meritava in nome dei figli e nella memoria di chi non esiteva ma continuava ad esistere. A Messina,i conoscenti venivano a consolarla, mia madre non parlava, non piangeva, bianca, il volto fissato , gli occhi decisi, avevano messo un fiocco nero alla porta, io lo toglievo, lo rimettevano, lo toglievo. La sorte ci aveva  preso nei tremendi marchingegni dei suoi esperimenti mortiferi,mia madre non diede lamento , raccolse  i tre figli esistenti e incise a fuoco la morte di quell'ombra pulita, innocente di mia sorella, e l'ombra di mio padre, non vi era conforto né in cielo né in terra ma la volontà di vivere per amore dei figli. Riportò  mia sorella a Messina, nel cimitero, e le pose una lucetta perpetua. Di mio padre non conosco la tomba. La cerco e la cercherò.  Ma il cimitero è dentro di noi, finchè noi viviamo. Eravamo tornati a Messina, la guerra per noi chiusa. Iniziava, al di fuori delle vicissitudini familiari, la risorgenza sociale.

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