“Il Mimo” - Decimo Laberio e Publilio Siro – Ricerca storica di Giovanni Teresi

Publilio Siro
Come della togata, anche dell’atellana l’età della maggior fioritura per il favore del pubblico non fu lunga; le situazioni presto lise e stanche di queste farse osche ingenerarono la sazietà negli spettatori: e sul teatro non tardò a trionfare un altro genere comico, il mimo, destinato esso pure a vivere breve la sua vita più fiorente, che durò non molto più della carriera teatrale di due nuovi poeti: Decimo Laberio e Publilio Siro.
Mimo è parola greca, che vuol dire “imitazione”, come già osserva Diomède; e designava sia l’attore di mimi che il mimo stesso. Imitazione della vita: con i gesti, con la parola, con i canti, con la danza.
Minuscolo scorcio di vita che non si inserisce in un’azione complessa, come la commedia, ma si compiace di casi e scene sveltite in bozzetti, per tutti i gradi dell’appassionato o del sentimentale, ma soprattutto del sorridente e del comico, senza insistere mai lungamente sopra nessuna di queste intonazioni, con un realismo sano e leggero che rinnova il gusto delle cose modeste e consuete.
Così almeno sentirono e amarono il mimo letterario gli scrittori greci:
Sòfrone e SenarcoEronda e Tèocrito, nell’età in cui più fiorì, l’età di Irone I in Sicilia, e l’età alessandrina.
Quanta fortuna avesse questo genere come spettacolo scenico in Grecia e in Roma, ci dicono le iscrizioni funebri, che ricordano mimi famosi, come quella in greco per la mima Bassille:
 
 Lei che da popoli molti, da molte città, fragorosa / Gloria d’applausi ricolse, per tutto il teatro scroscianti; / Lei, squisitissima mima, che danze intrecciava leggiadre, / Che sulle scene più volte morì … ma non come adesso! / Il giocondissimo attore, l’arguto mimo Eraclide, / Di questo cippo onorò lei decima Musa, Bassille! / Pari, qui morta, la gloria che in vita godeva la cinse, / Poi che in luogo riposa a le Muse sacro ed all’arte! / I tuoi compagni di scena ti dicon: Coraggio, Bassille! / Non è immortale niuno!
 
I mimi in Roma vennero originariamente rappresentati nelle feste Floralia descritteci da Ovidio:
 
Rose intessute in corone ricingono a tutti le tempia, / E le splendide mense coprono rose in mazzi. / Ebbri, dopo il banchetto, di fiori il capo ricinti, / Danzano, ed alle danze legge dà solo il vino. / Ebbro canta l’amante, pregando si schiude la porta / Della sua amata; e il capo cinge di fior soavi … / Piace alla festa una scena di comiche grazie leggere; / Amica non è Flora di coturnate Muse. / E ci ammonisce a godere i vividi fior della vita, / La rosa ricogliendo, senza curar la spina.
 Il più famoso dei mimografi in Roma, e quello che diede per primo ai mimi una vera forma artistica, è stato Decimo Laberio, cavaliere romano, che deve essere nato circa il 106 a.C.
Era giunto alla vecchiaia, famoso per i suoi mimi e applauditissimo sulle scene di Roma, quando sorse un pericoloso rivale della sua arte e della sua gloria, Publilio Siro, nato probabilmente in Antiochia, non si sa bene quando. Schiavo di origine, fu affrancato e fatto istruire dal suo padrone che ne ammirava l’ingegno e l’arte mimica.
Quando Cesare fece celebrare giochi solenni, probabilmente nel 46, secondo altri nel 45, Publilio Siro, venuto a Roma, sfidò tutti gli autori di mimi ad una gara in cui ciascuno avrebbe ricevuto un tema da svolgere in un mimo; e dopo breve preparazione lo avrebbe rappresentato sulla scena.
Per Laberio il cimento era più grave che per gli altri; perché se rifiutava, sembrava temere di essere vinto, se accettava, essendo egli cavaliere romano, con il salire sulla scena quale mimo, avrebbe perduto quella dignità e i diritti civili che gli spettavano. Cesare, promettendogli la somma di cinquecentomila sesterzi, lo invitò ad accettare; secondo Macrobio, perché offeso dai pungenti scherzi di Laberio. Un invito di Cesare, il dominatore di Roma, equivaleva ad un ordine; e Laberio trangugiò amaro, ma accettò. Accettò, e salì sulla scena; ma in un prologo di mesta dignità e di commossa grazia artistica, parlando al pubblico, sfogò la melanconia del suo animo nel dovere a spese del suo onore difendere la sua arte. Il prologo, ci è per fortuna, serbato:
 
Necessità, al cui obligo assalto / Voller molti sfuggir, pochi riuscirono, / Della mia vita sull’estremo termine, / A cosa m’hai ridotto! Io cui timore, / Avidità, né largizione alcuna, / Autorità, vilenza, non poterono/ Fletter giammai nella mia vita giovane, / Ecco, in vecchiezza, a cosa son piegato / Da parole cortesi ed accostevoli / Di questo grande, che dal suo alto genio / A pregarmi si volse dolcemente. / A lui tutto concesso hanno gli dei; / E, misero mortale, io rifiutarmi / Avrei potuto a lui?  E cor io, che vissi / Senza macchia nessuna sessant’anni, / Cavaliere romano esco di casa / Per ritornarvi mimo! Ahin è: davvero, / Ben troppo più ch’io non dovevo vivere / Per questo amaro giorno avrò vissuto! / E tu, senza misura mai, Fortuna, / Nel dare i beni tuoi e i mali agli uomini, / Se t’era caro, per il tuo capriccio, / Della mia poesia stroncar la gloria, / Perché nel tempo della vita florida, / Non mi piegasti, allora ch’io del popolo / Potevo soddisfare al desiderio / E a questo grande? Or tu, con vituperio, / Vecchio m’abbatti? A che tu mi riduci? / Sulla scena che porto? D i persona / Grazia o decoro? Luce del mio genio? / Di voce amor possa soavità? / Come insidiosa serpeggiando l’edera, / Dell’albero la verde vita soffoca, / Degli anni nella stretta la mia vita / La vecchiezza distrugge; ed or soltanto / Serbo di me, quale la tomba, il nome!
 
E non soffocando il suo antico ardimento, approfittò della libertà scenica per lanciare i suoi strali anche questa volta a Cesare. Infatti , nella parte di uno schiavo Siro che si ribellava alle frustate, esclamò: “ La libertà, Romani, ormai perdemmo”.
A quelle parole tutti gli occhi degli spettatori si volsero verso Cesare. E poco dopo ancora Laberio
Agiungeva: “ Tema da molti chi atterisce molti”.
Finita la gara, Cesare accolse Laberio con un bel sorriso; e aggiunse egli pure in un verso improvvisato: “ Malgrado il favor mio, Siro ti ha vinto”. E gli mise in dito l’anello d’oro che lo riponeva nell’ordine dei cavalieri, e il dono di mezzo milione di sesterzi.
Ma quando Laberio volle sedersi tra gli spettatori, nessuno più gli faceva posto. Egli però non  perdette la sua presenza di spirito; e, passando vicino a Cicerone, e avendogli questi detto, alludendo anche alla facilità con cui Cesare aveva fatto entrare in senato nuovi senatori:
Ti farei posto, se non fossimo già così pigiati”; rispose arditamente, alludendo alla versatilità politica di Cicerone: “ Mi meraviglio, visto che tu sei solito a tenere il sedere su due scanni”.
I titoli dei mimi di Laberio  ( di cui sono rimasti frammenti di circa centoventicinque versi) non sono gran che diversi da quelli dell’atellana e delle togate; talora anzi gli stessi; come Compitalia (La festa dei trivii), Aquae caldae, che riprende il titolo di un’atellana di Atta; e Aulularia, titolo di una commedia di Plauto. Ricorrono pure gli argomenti tratti dall’umile vita dei mestieri:
Il pescatore, il  venditore di sale (Salinator), la venditrice di aghi (Belonistria)  ecc. interni familiari:  I gemelli, le nozze, L’efebo, Le sorelle. Caratteri morali: L’audulatore  (Colax), Lo smemorato (Cacomnemon), La povertà.
 
I mimografi greci si dicevano ethòlogi. 

 
Non ci si deve perciò stupire che dai mimi di Publilio Siro fosse ricavata un’antologia di massime, che divenne famosa, e che subì poi aggiunte e decurtazioni. Essa venne probabilmente anche usata per la scuola, facendosi imparare quelle massime a memoria. Grani di saggezza quotidiana, espressa in versi memoriali, come:
 
Quel che altrui fai, devi tu stesso attenderti. / Un garbato diniego è quasi un dono. /  Ha ciò che vuole chi vuol quanto può. / Pianto d’erede è mascherato riso. / Perdi la verità se troppo disputi. /  Buona fama è un secondo patrimonio. / Due volte dà chi presto dà a chi è povero. / Donna ama od odia; via non sa di mezzo. / Aborrono l’ingiusto anche gli ingiusti. /  A cuor turbato non conviene credere. / Alle ingiurie rimedio è solo oblio.
 
Nell’età imperiale il mimo si riduce massimamente al pantomimo. Così anche il mimo finì la sua vita ingloriosamente; e di parlato divenne sempre più danzato, cantato.
 
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