IL DIVINO-UMANO NELLA POESIA DI GIOVANNI TERESI – RECENSIONE DEL PROF. ANTONINO TOBIA DIRIGENTE SCOLASTICO

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Le Muse Euterpe e Urania – particolare dell’opera di Pompeo Batoni

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Ogni qual volta mi occupo di poesia, mi viene spontaneo chiedermi quale sia il rapporto tra il divino e l’umano, tra il Creatore e la sua creatura ” E se questo rapporto l’uomo di fede ammette che ci sia, attraverso quale medium esso è praticabile” Certamente attraverso la parola. Se Dio, infatti, ha creato per mezzo della parola e si è umanizzato attraverso la parola, è altrettanto vero che l’uomo esprime attraverso la parola la sua partecipazione al divino e, come nel Verbo incarnato l’Ente si è trasformato in esistente, così l’uomo ritrova nella parola lo strumento per esistere e socializzare con i suoi simili, ma anche, se cristiano, il modo per capire il percorso tracciato dal Figlio con la Rivelazione: in principio erat verbum et verbum caro factum est et habitavit in nobis.

In questo senso, la parola in genere e la parola poetica in particolare diventa l’ultima actualitas dell’essentia, secondo il pensiero scolastico, ovverosia la parola dei poeti è la sola che riesce a tradurre l’essentia, o natura concettuale della cosa, in existentia, cioè in atto. L’atto è il mondo della realtà, l’atto è l’uomo stesso che, nel momento in cui esiste, esce fuori da sé e registra i suoni, i colori, il microcosmo e il macrocosmo, s’interroga, piange, gioisce. E’ questo un aspetto dell’esistenzialismo riscontrabile nella poesia di Teresi, che assume l’esistenza umana come oggetto principale di analisi. Sicché la poesia del Nostro si presenta al lettore come riflessione sulla natura del tempo, sulla storia e sulla storicità dell’uomo, sulla libertà e l’impegno, sulla finitudine e la morte, sull’angoscia e in generale sugli stati emotivi, intesi come forme di comprensione pre-filosofica del “real”, che è poi la definizione che Emilio Morselli dà dell’esistenzialismo. La poesia di Teresi diventa rivelazione, intesa come atto del disvelare il mondo fenomenico colto nella purezza dell’alba del Creato, e quindi scevro d’ogni appesantimento concettualistico, inserito nella luce della sua essenzialità, che non si nasconde dietro il velo di Maia, o dietro al simbolismo caro alla poesia decadente. Platone, nell’Ione, scriveva:  “Dicono che da fonti di miele, scorrenti da certi giardini, dalle valli selvose delle muse, i poeti portano a noi come api i loro canti, a volo .”

Questa sensazione di armoniosa dolcezza si percepisce immediatamente leggendo la poesia del Nostro. La dolcezza dei versi è il frutto di un’accurata scelta linguistica, che, tradotta in armonia, fa dimenticare al lettore il percorso di ricerca e di studio che impegna ogni poeta, un percorso tanto più arduo quanto più breve è il frammento lirico, tanto più insidioso quanto maggiore è l’attenzione che deve riporre nel volare fior da fiore, da lessema a lessema, da fonema a fonema, a recuperare il suo prezioso nettare.

Ti specchi al caldo vento/ nelle trasparenti acque/ della laguna,bella e sola/ai mutevoli accesi tramonti,/sogni serena il tuo passato./Mothia!coronata d’abeti,/porgi le aculee agavi,/i salubri odori,/ i saporiti frutti,/i cocci del passato/d’ammaliante ninfa (Serena).

Si tratta di un tipico esempio dell’astoricità ricercata da Teresi in poesia, il tentativo riuscito di collocare l’evento in una dimensione che vada oltre lo spazio e il tempo, una ricerca di bellezza assoluta non scalfita dallo scorrere delle ore e dei secoli.. Il tempo è come se avesse registrato per sempre la bellezza prodotta dall’uomo e se ne fa custode e sacerdote.

Infatti, Le statue guardano immote,/dai templi corrosi dal tempo,/le grigie ceneri che/si dipartono al vento,/le marmoree scritte/negli intervalli del passato/, un passato che è vita e che il poeta recupera attraverso l’uso di correlativi oggettivi: l’antica fontana,/imperterrita,/ripropone il lento,/monotono gorgoglio della vita/catturata nell’edera avvinta/alle scolpite pietre, i contorti rami, vestiti di muschio, fermi lì da secoli, non vinti, non bruciati, a guardare lo stesso cielo. (Desolazione)

Altre volte la poesia diventa invocazione di dolore e di speranza , tanto più efficace quanto più è assente ogni indugio in stasi descrittive, in ricercate cadenze prestabilite. La perfezione formale non si sovrappone mai al bisogno di comunicare, ma si fonde con esso, senza alcuna distonia, perché è il nucleo tematico a suggerire le cadenze ritmiche, le pause, il linguaggio. Così nella lirica intitolata alla pace, il poeta denuncia l’odio, il sopruso, il fuoco delle armi che come tristi note irrompono e finiscono nella nebbia delle menti e al contempo lancia un appello ai popoli di buona volontà, un appello all’amore, alla fratellanza, all’amicizia: Popoli! Gridate la pace,/unitevi nella speranza/ di un abbraccio fraterno! Se pure il dolore, che nasce dalla constatazione della forsennata violenza umana, si risolve nella speranza tutta leopardiana di una ipotetica social catena che lasci trionfare la tolleranza, l’amicizia e la pace, tuttavia nel momento dell’introspezione, della confessione agostiniana, l’uomo si chiede:

ove conduce la vita,/il pensiero, la mente/oltre il presente’ Allora l’unica certezza è data dall’affermazione del proprio esserci: Io sono e non so/alcuna risposta al dubbio/del perché. Tuttavia il dubbio fa parte della fede, perché questa trae forza dall’autoanalisi, dall’atto altamente drammatico dell’interrogarsi quando è sincera e profonda, altrimenti svanisce se le sue radici sono deboli e il terreno accidentato. La fede resta comunque un dono, ma è anche la ricompensa di una ricerca interiore, ed è anche il punto di arrivo di chi con spirito francescano ama confondersi con la natura, che considera epifania dell’Essere. Dio è nella mente di chi ama e crea./Dio è luce di vita gioiosa./Dio è in un semplice fiore e/nel delicato odore del pane./ e ancora, chiudendo con l’anafora iniziale, il poeta conclude: Dio è tutto ciò ch’è vicino e lontano./Dio è tutto tranne che nulla./Dio è tutto nel sapore del latte e del miele. (Dio è)

Sono versi che si presentano come un canto di ringraziamento al Signore da parte di un poeta che vuole essere Pittor dell’animo, dei sentimenti./Viaggiator nei sogni, nella fantasia./Interprete della natura intera e delle genti./Produttor di parole, d’amor in poesia./Artista non di ritratto,ma di vita./Statua non di marmo,ma di creta./Giocolier della mente e della vita./Immortale nell’opera ch’è la meta. (Poesia)

La luce, i profumi, i colori, sono le mille note che il linguaggio poetico di Teresi affida ai sensi, perché siano essi i primi a godere dei doni del Creatore, allorché la poesia si fa idillio e si arricchisce di movenze nuove che scandiscono la bellezza del creato e si trasformano in sinfonia. La natura è sempre quella siciliana che porta in sé la gioia dei paesaggi teocritei, vivificata dalla consapevolezza della sua origine divina, laddove il divino si colora talvolta delle movenze fascinose dell’archetipo della bellezza pagana: “Afrodite”:

Era un’alba radiosa di primavera, la terra sorrideva e tra le fronde lo zèfiro spirava leggero a sera. Il mare con lento moto delle onde carezzava le coste di Citera. Si cullava in una conchiglia baciata dal sole, in cocchio regale, una dea di Zeus figlia. Afrodite! Sull’azzurro mare sale con i tritoni e i delfini! disse Zeus accostandosi a riva. Così Afrodite, con moto del capo vezzoso, scrollò l’acqua dai capelli, balzò come diva. Al suo passo si placò il mare focoso. Erbe e rose spuntaron al suo passo graziato. Felice fece tutto l’Olimpo in quel dì radioso, germogliaron le zolle al suo delicato fiato.

L’immagine della Venere anadiomène, di tradizione esiodea, è riproposta con i colori del pennello botticelliano e con la grazia dei versi del Chiabrera: nel sen dell’acqua in un momento nacque la bella di Ciprigna. La donzelletta, uscita dalle spume marine, tergeva il biondo crine con le candite dita: e subito salita in su conca leggera, immantinente corse dall’onde, ond’ella sorse ai lidi di Citera. Nell’Ione ancora leggiamo : “Il poeta è un essere leggero, alato, sacro, che non sa poetare se prima non sia stato ispirato dal dio”. Così da Omero in poi divenne un topos letterario l’invocazione alle Muse, fino al poeta della Gerusalemme liberata, che alla Musa pagana conferì la spiritualità cristiana. I poeti sono, quindi, profeti di verità, se si pensa che Virgilio Marone nel medioevo cristiano era ricordato come mago e la sua Eneide consultata come un testo sacro da cui ricevere risposte ai dubbi dell’esistenza. Il poeta è vate quando canta la natura, quando si fa interprete dei sentimenti di tutti, quando rivela a noi stessi quello che da soli non riusciremmo a dire, quando gioisce dinanzi alle meraviglie del creato, e quando soffre per la cattiveria o le disgrazie disseminate sulla terra. Egli è sempre con noi, rappresenta la parte più viva di noi, se sappiamo ascoltarne la voce E questa potrebbe essere la risposta a chi si ostina a considerare morta la poesia nell’era della tecnologia più sofisticata, dalla quale l’individuo rischia di uscirne spersonalizzato. E’ questa la risposta a quanti considerano mero ozio letterario lo scriver versi. Ci si dimentica spesso che l’uomo ha bisogno, come suggerisce il Manzoni di “sentire e meditare, e che la ragione senza sentimento o si raffredda o si addormenta, generando i mostri di una scienza senza anima, di una ricerca della verità senza fede, di ideologie senza l’uomo, di una civiltà senza umanesimo. E nel deserto della vita, quando ogni certezza si disgrega e crolla la volontà di lottare, perché tutte le forze si sono indebolite e ogni resistenza ha ceduto, allora l’anima si leva/ al tappeto ricamato/ cercando nelle luci/ del deserto la verità/ e la via,ovvero la propria verità e la propria via.

 

Dirigente Scolastico Prof. Antonino Tobia

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