I Fioretti di Vincenzo De Simone, fiore siciliano della bella ghirlanda francescana

di Maria Nivea Zagarella
 
Da metà aprile 2016 le spoglie mortali di Vincenzo De Simone (1879/1942) riposano, traslate da Catania, nel cimitero della natia Villarosa (EN), essendovi così tornato il poeta a un secolo di distanza dal suo inurbamento a Milano all’inizio del ‘900. Rimasto orfano a 10 anni con 7 fratellini e laureatosi in medicina all’Università di Catania, De Simone esercitò la professione nel capoluogo lombardo, dove fece della sua casa, negli anni Venti e Trenta, un luogo di incontro e di raccordo tra la diaspora siciliana nel milanese e i poeti dialettali rimasti a poetare nell’isola. Indugiare nell’era di internet, facebook, twitter fra i 140 sonetti dei suoi Fioretti di S. Francesco “cantati in siciliano” (1927) può apparire una operazione peregrina e fuori stagione. E invece è una questione di radicamento: linguistico, culturale, ideale. Radicamento fortemente cercato in quegli anni lontani pure dall’autore che nel dialetto (la matri lingua di lu me paisi) sentiva ancora fluire l’antica, generosa, e duplice “polla” del mondo greco, attraverso i miti/leggende del pastore-poeta Dafni e della dea Cerere (la Dia di lu furmentu), e della grande stagione letteraria della Corte sveva, grazie a Jacopo Notaro che a quella Arte ancora surda e puviredda forgiò l’arcu d’amuri del sonetto, tempiu riccu di tesori di stile. La Poesia, la Sicilia, il dialetto, la tradizione colta e soprattutto quella popolare erano la passione intellettuale di De Simone, come fra l’altro si rileva da due sonetti autobiografici (ad autri pompi, ad autri miliuna/ a mia la vampa di li me faiddi…e lu pueta mi lu tegnu ‘mmrazza), dalla simpatia ammirativo-elogiativa con cui nel 1929 si trovò a definire una sfida poetica fra cantori della piana di Catania un “magnifico spettacolo di lietezza e di spiritualità”, dalla scelta infine di fondare a Milano a metà degli anni Venti le Edizioni latine e le Edizioni del Siculorum Gymnasium interessate a pubblicare soprattutto opere in siciliano. Proprio la sua raccolta poetica Bellarrosa terra amurusa (1929), con l’epigrafe in latino di aura virgiliana (Decora sicania modulari necesse) e le diverse sezioni, in cui canti originali del poeta si alternano a vere e proprie schegge di folclore locale e alla rivisitazione di due leggende devote (La cicala di San Franciscu e Lu miraculu di San Luca Casali), pur essendo di due anni posteriore alla versione dei Fioretti, illumina retrospettivamente il sostrato psicologico e le sollecitazioni culturali da cui nascono a gloria del Santo e per il 7° centenario della sua morte, i sonetti francescani definiti dall’autore un “modesto e preciso atto di devozione, di offerta, di amorosa fatica”. Fatica linguistico-stilistica giudicata positivamente nei suoi esiti già nel luglio 1927 da Pio Rajna, anche per le qualità intrinseche del siciliano solo -scriveva- fra tutti i dialetti italiani atto a tale metamorfosi incomparabile per effetto di una tradizione secolare viva tuttora. Il lirismo a sfondo naturalistico e paesano di Bellarrosa costituisce anche il “timbro” spontaneo di base dei Fioretti desimoniani, che si integrano però di stupore e fervore cristiani, e di realismo popolaresco, per l’efficace vivacità di molte sequenze dialogate e per taluni vividi dettagli di vita quotidiana. La quartina che introduce l’affabulazione colloquiale dei 140 sonetti e i versi che li chiudono (adattamento dialettale della parte finale del Cantico delle creature) fanno riferimento, la prima, al viaggio della vita che può trarre ristoro/appagamento alla sua sete/turmentu nel “fonte” della semplicità e della autenticità spirituale francescane, gli altri, alla sorella morte corporale che chiude il ciclo dell’esistere o nella perdita (guai a cu’ mori ‘n piccatu murtali) o nella beatitudine (E biatu sia cui si po’ truvari ‘ntra li to’ santi vuluntà, Signuri). Entro questi poli per così dire necessitati sul piano esistenziale universale l’autore offre al Santo, con il suo personale “fiore” di fideistica devozione, anche il fiore devozionale del “suo” paese, ricollocando la Sicilia alle origini, agli “albori” della nazione italiana, e per la ricchezza duttile della sua lingua, e per i nobili prodromi culturali già citati, e per la salda continuità dei valori cristiani. Dunque, non folclorica periferia la Sicilia ma, per De Simone, tassello pulsante di storia, di vita, di identità culturale e religiosa! E i Fioretti si imbevono di anima siciliana e villarosiana, trapiantando il loro sacro candore in un terreno localisticamente connotato, ricco dei “suoi” propri umori. Il testo originale trecentesco è fedelmente seguito da De Simone nella successione lineare dei singoli episodi e sequenze narrative, che ridotti alla misura breve del sonetto acquistano sveltezza e tono di novellette orali, efficacemente supportate da un lessico e da una espressività ora più coloriti e pittoreschi, desunti dal “parlato”, ora più leggeri e musicalmente orchestrati. Innumerevoli gli esempi che si possono addurre nell’uno e nell’altro senso. Quanto al primo versante: Cumanna, ’ccillenza!... Oh lu babbu ca si’!... Chi su’ sti tirrimoti?… mentri lu Santu si fa un pinnicuni… st’amicu è veru marridduni (simulatore)…. Ampamparisi (per finzione) accuminzò a runfari… E chiddu si gratta la tigna/ e ‘n cirimonii voli fari l’omu… ma unu d’iddi cu li cirivedda caudi… Chi mi dati li nùmmara o a ’nzirtarivi ‘nnuminu?... .cci addubbau li panzi… a picca a picca cci scuprìu li carti… a conza di pitittuPatri, c’è un mischinu ca fa lu gnognu…  Sull’atro versante invece: lu vitti scazu, nnamuratu e spusu/ pi terra e mari a li cuntrarii venti… amari a Diu e in Diu tutti li genti…; mentri la lampa ‘ntra la notti ardìa… ; E pi terri e castelli caminannu/ spiegava a tutti li cosi di Diu…; Stiddi e stidduzzi a spicchialìu di mari:./ sedi la notti e sona matutinu/ Lu frati è stancu…e dormi a sonnu ‘nchinu. Il discorso devoto accompagna il catalogo esemplare dei valori della povertà, umiltà, carità, obbedienza, preghiera, penitenza, le lodi della provvidenza e della misericordia di Dio, l’assalto delle tentazioni, il manifestarsi didattico o beatifico delle visioni, e consolida l’icona gloriosa del Santo quale maestru dal cuore che arde comu lu suli a lu primu matinu. La mano del poeta tradisce però nel corso della narrazione momenti più partecipati di intimo coinvolgimento e/o di icasticità rappresentativa, soprattutto se sono di scena conversioni e il confronto dei contrari, precise reazioni delle folle, la descrizione/contemplazione della cristallina spiritualità francescana o della Natura rivelazione di Dio. E ancora quando il corposo immaginare e “dire” siciliano e popolare, attraverso il ricorso a particolari aggiuntivi o similitudini assenti nel testo volgare, creano raccordi con l’esperienza contadina isolana, strutturando sfondi credibili di quotidianità, che è poi l’in-put che circolarmente alimenta l’ispirazione stessa. Si veda la conversione di Silvestro (episodio costruito con buon intarsio di allitterazioni, parallelismi, iterazioni, anafore) che, capitanu di l’avari, pretende da Francesco i danari datigli a cridenza e avidamente avutili ‘ntra li pugna, non trova pace comu cu’ ha’ la rugna, finché la visione vegliata per tre notti in solitudine, sutta li stiddi e sutta lu risinu, della croce splendente che esce dalla bocca del Santo e abbraccia in Dio tutti li genti, non gli fa battere il petto e gridare:<< Pietà, pietà… o miu Signuri>> col cuore finalmente chinu d’alligrizza liberatoria. Il sonetto della conversione del lebbroso invece è tutto giocato sul dialogo a contrasto fra il Poverello e il lebbroso: benevole, premurose, rassicuranti le parole di Francesco (Figliu, t’abbadu iu), astiose, aggressive, blasfeme, disperate quelle del peccatore (Chi paci mi po’ dari lu to’ Diu [che]…puzzulenti e fracitu mi teni?), il cui pianto finale di gratitudine e abbandono nel divino scoppia (e chiddu a chiantu accuminzò a sbuttari) sapientemente preparato dal respiro lento e avvolgente dei versi precedenti (Lu Santu lu tuccava, lu lavava/ e d’anima e di corpu lu sanava) e dall’impatto amorevolmente provocatorio della domanda di Francesco: E comu ora mi paghi? Altrove, secondo l’immaginario popolano, un povero malato, tutto di chiaghi e crusti marchiatu, accudito da frate Bernardo riacquisterà l’aspetto di un picciottu cu rosi ‘ncarnati/ beddu ‘n putiri, mafiusu e tunnu. Analogamente l’Angelo che bussa al convento, respinto da frate Elia, è un giuvini che agisce cu modi attriviti [arditi]; Francesco piccolino e magro che mendica il pane con frate Masseo pare alla gente uno spitu (schidione), mentre un giuvinazzu…veru beddu è giudicato Masseo; a Siena i due gruppi rivali sono, visivamente e crudamente, du’ partiti lordi di sangu, ‘mmenzu a tanti morti, che commàttinu ad arma/ di punta e tagliu e chiddu attizza luci/ ca vo’ la vència (vendetta) e l’autru vo’ la parma (della vittoria); il fuoco spirituale che avvolge S. Maria degli Angeli e Chiara e Francesco in mistica preghiera, scambiato per incendio materiale, determina, fra un chiamare di battagli di campane, tutto un frenetico gridare (Ardi la cresia! Ardi la sirva! Aiutu!) e accorrere di villani che, cu ‘nzira e cu lanceddi, jianu cugliennu acqua a li funtani/ senza corda, né sicchiu e senza ‘mmutu (imbuto). E ancora, il letto di fuoco dove Francesco invita a giacere la mala femmina saracena, che lo tenta, è paragonato a un jettu di lava e la femmina cuntrita si ”strazzerà” poi (con tocco sensuale realistico e popolaresco) li carni bianchi e beddi; e lava sembrano pure [li] sintenzi e mutti d’oru che escono dalla bocca di Sant’Antonio che predica nel Concistoro, e che infondono ai prelati presenti ristoro comu a lu funti cu’ s’abbudda (si immerge) e lava, scena rurale allora assai consueta. Inoltre lu lavuri (cioè le messi) è in modo diretto o indiretto una costante dell’inventare poetico dell’ennese De Simone, come negli episodi di frate Simone che scaccia li curvacchiazzi (lassati ‘n paci omini e lavuri,/ prestu, fora di ccà…), di Chiara che benedice il pane (Chistu è lu fruttu ca Nostru Signuri/ duna pi premiu a li fatighi umani), di Francesco, che predica agli uccelli sulu suliddu ‘mmenzu a lu zappatu (sic!), e che ai frati riuniti per il Capitolo del 1221 ricorda che lu solu (il suolo) è fecunnu/ quannu ca lu travagliu lu cuverna, di frate Giovanni della Verna, che si para per la messa mentre cu raji paliti (pallidi) e chiari/ lu suli ‘ncontra (viene illuminando) voschira e lavuri…, financo nella similitudine della restuccia che brucia, evocata per dire le farati (fiamme) d’amore mistico del Poverello. Anche le tradizioni paesane della vendemmia, della Domenica delle Palme e delle feste dei Santi suggeriscono taluni particolari più rustici e concreti rispetto al nitore descrittivo, riflessivo e argomentativo del testo trecentesco. Nel fioretto del prete di Rieti i reatini si affollano molto rumorosamente incontro al Santo, satannu vadduna e maisi, portando rami di parma e d’auliva e facendo festa (con una punta di ironia) prima all’uva della vigna e successivamente a Francesco, e i quattro rappazzi (grappoli) tinti e scinti (guastati) della vigna del prete al momento della vendemmia addirittura “allagano” visivamente lu parmentu che si ’nvirmiglia/ di mustu a la scumazza assai pirfettu. Nel fioretto del Capitolo delle stuoie gli abitanti dei dintorni della piana di Assisi arrivano ccu gran fracassi, auti vuci e squigli, e con carrittati di pani e di buttiglidi ‘nzira (vasi di terra), di quartari (brocche) e ‘nsalateri per sfamare i 5000 frati riuniti nella piana. Uno spaccato di vita domestica e familiare, pur nella riverenza spirituale e reciproco legame mistico, sembra, per la trepidazione materno-sororale della Santa, il dialogo di Chiara con Francesco semicieco e malato (e po’, santu cristianu,/ comu cu st’occhi, ca nun cci viditi,/ v’arrisicati a nesciri a lu chianu?....Ah, unni jiti iennu?... Sulu?) e come un chiacchierio tra donne del vicinato suona il coro delle consorelle di Chiara, immobilizzata a letto, quando tornano dalla funzione natalizia: Matri quant’era beddu lu bamminu!./ E vui nun ci putistivu viniri!/ Giustu malata!/…Chi dispiaciri!/ Propia a Natali stu malu distinu! Anche molte similitudini attingono a scene del paesaggio e dell’ambiente siciliano, dato che la focalizzazione di De Simone sul piano dei contenuti punta più alla resa iconografica e ai risvolti devozionali della leggenda sacra francescana, che all’approfondimento teologico-dottrinale o polemico-sociale della figura del Poverello e della Regola in relazione alla travagliata storia dell’Ordine e ai rapporti fra la Chiesa/Istituzione e gli Spirituali dissidenti, aspetti questi che emergono invece bene dagli Actus e dai Fioretti medievali, ma a rilevare i quali certo non aiutava il contesto storico novecentesco in cui operava l’autore ennese. Fra le similitudini da prendere in considerazione per il loro alone lirico-emotivo e siciliano si vedano quelle di Francesco che chiancìa currennu a l’aiutu di Diu/ cumu la lapa curri a lu so vriscu; di Padre Pacifico che piange sulle ossa di frate Umile sembrando lu sarmentu di la viti/ quannu è lu tempu di li furficiati (potatura); dei gruppi di frati in assorta preghiera nel raduno del 1221 simili ad oceddi quannu su’ a l’abbentu/ ’ntra timpi e rocchi misi a ringhinera/ ca pi abbulari aspettanu lu ventu; della voce divina che si zittisce comu la lapa ‘ntra lu cupigliuni (il favo). E ancora, la catasta dei cilici di cui si liberano i frati per volere di S. Francesco che paiono serpi ‘mmirriati (serpi attorcigliate); l’indemoniata liberata da frate Corrado, la quale con il suo senziu allianatu porta cu stizzi e stridi lu malupatiri ‘n casa e ‘n tuttu l’abbitatu (alias il quartiere, il vicinato), e sbommica insulti e bestemmie e va di ccà e di ddà comu ‘n animmulu (arcolaio); l’anima del frate morto che dice di avere tardato ad apparire al suo confratello perché, con tipica gestualità e usanza campagnole, è stato arramazzatu (dimenato) ‘ntra lu crivu (cribro)/ di cu’ cerni lu fruttu e po’ lu sparti/ a secunnu a cu’ va lu megliu civu (seme). Ma De Simone che traduce in siciliano è anche un letterato, che sa letterariamente riecheggiare i motivi della tradizione alta, sia nel parlare figurato (ca si l’oceddi ‘ncappanu a lu viscu/ l’omini a lu piccatu tristu e riu… comu la vila ca vunchia a lu ventu… comu a la voria l’unni di lu mari…), sia nell’uso del repertorio favolistico classico, come nell’episodio del frate liberato dal demonio che, sconfitto, reagisce quale la volpe esopica che disprezza l’uva: lu dimoniu scappannu comu ‘urpi... dici <<Stu frati nun era abbuccatu (dolce)>>. Altrove il poeta rivitalizza le stesse fonti classiche e medievali (Cicerone, Valerio Massimo, il Novellino, I Fioretti), come nell’aneddoto di frate Simone e del brigante condannato all’accecamento, dove il perdono dei giudici dettato non tanto dalla carità quanto da una scelta di utilitarismo pratico è reso con forte espressività figurativa popolaresca e di parole e di atteggiamento: <<…scippannucci l’occhi a li latri,/ nni li jittamu -dicono i giudici- supra lu jippuni (cioè li manteniamo a nostre spese) >> Pertanto: s’arrunchiaru li spaddi e pirdunaru. Analogo sguardo al reale corrente e quotidiano troviamo nell’aneddoto del lupo di Gubbio, quando l’autore descrive il lupo, accolto e sfamato dagli eugubini, come non molestato dai cani, ricorrendo a un’immagine che descrive con vivezza visiva l’atteggiamento opposto minacciosamente antagonistico (cu li cani ‘un si ciaranu li nasi) o quando segue l’animale, con un sorriso di compiacimento, mentre gioca con i bambini fingendo di morderli (cu li carusi joca ampamparisi). E di quotidianità contadina è pure il gesto del cacciatore che piglia le tortorelle e cci li proji pi l’aluzzi a Francesco. E che dire di certe serie verbali e aggettivali asindetiche tutte rapidità di movimenti (apposti, pidinii, surprenni, azzanni- dice l’autore del lupo; …scinni, curri, a li pedi si cci jetta-  a proposito invece del gentiluomo che corre a farsi frate minore) o pregnanza di frenesia spirituale (‘nciammatu di disiu, arsu d’amuri,/ l’occhi a lu celu, lu fervidu frati…) o peso di avvilimento fisico (stanchi, affamati, debbuli, ’nfangati), e di talune sonorità onomatopeiche (ziulìu delle rondini, squacquaramenti dei corvi, ciuciulìu dei confratelli di frate Egidio), o della variata scala timbrica di termini quali: sbracari, sgrafunchiari (rubare), sfirrari, tramazza (schianta), manìu (traffico), vramannu, ‘ncatinazzatu, s’ammaligna, agliòmmara (si raccoglie), spicchialìu (a specchio di…), annarba (viene l’alba), rimiggiu, luciusa, cudìanu…? E infine i vari peggiorativi o diminutivi, alcuni stereotipi, altri assai ben funzionali, come lu munacheddu gluriusu detto di San Francesco, o Chiara che duci duci comu na lapuzza appronta il letto a Francesco malato, oppure la gente di Gubbio che se ne sta “ncatinazzata” dentro casa perché ha paura di dd’armalazzu che è il lupo, o ancora la famazza (la brutta fame) ca spruna a li piccati.  Ma non è solo la ricchezza della lingua siciliana a supportare gli effetti variati del “canto” di questi sonetti (che hanno qua e là tuttavia anche le loro scialbe prosaicità o convenzionalità di linguaggio). Elemento importante è pure l’amore per la bellezza della Natura, che accomuna S. Francesco e De Simone capaci di rappresentarsela nella luce della Fede, sebbene il poeta ennese resti lontano dal misticismo naturalistico di Alessio di Giovanni. Suggestivi alcuni notturni. Quello del viaggio che porta Francesco nell’isola Maggiore del lago Trasimeno per passarvi la Quaresima (Lucivanu li stiddi ad una ad una/ e li specchi di l’acqua a lu trimari./ Nun si sintiva ciatu di pirsuna/ e mancu di jacobu [assiuolo] lu friscari) caratterizzato da un silenzio che fa avvertire, per contrasto, l’urto della barca all’arrivo: quannu la varca si teni e ‘ntuttuna/ lu marinaru dici: <<Hamu a sbarcari!>>. Oppure quello che precede la visione del brigante convertito, già citato all’inizio, o l’altro che vede il Santo andare cu duci pedati nella selva a pregare (Viglianu ’n celu li stiddi amurusi/ prufunnamenti dormunu li frati), selva dove il novizio munacheddu curioso che lo segue, sente, avvicinandosi, lu vuciliziu ca fannu l’oceddi (rivelatisi poi, anziché uccelli notturni, quale un colloquio, in visione, del Poverello con i Santi e con gli Angeli). Altrove la visibile terrestrità della natura e della sue creature è liricamente relazionata con la spiritualità francescana. L’isolamento contemplativo quaresimale di Francesco avviene mentre a parti d’ortu e di jardini/ ogni arvuliddu cunchìa la so spica (fioriva); nell’episodio della Provvidenza che fornisce a frate Masseo e al Santo per tavola, dove consumare il pane mendicato, una pietra larga e per soddisfare la sete una fonte, la lode di Francesco pare faccia sgorgare ancora più copiosamente l’acqua (e a lato manca/ l’acqua a lu fonti curri comu l’oru); nelle sequenze della predica agli uccelli più naturalisticamente animato è, rispetto alle pagine trecentesche, il loro accorrere accrianzatu e fistanti, di lu Santu a latu, e più candidamente ingenuo e abbandonato, quasi fanciullesco, il perdersi di Francesco nella varietà e innocenza (di ddi prijzzi [godimento] ‘un si sapìa livari) di tutte quelle specie di volatili; nel fioretto delle tortorelle salvate e addomesticate, esse avuta licenza dal Santo di andare via, poiché lu Criaturi fici la terra a vostru gudimentu, si alzano in volo da dentro il convento con uno scrusciu autu di pinni che equivale a una sorta di laude dinamicamente sonora nella sua sprigionantesi incontenibile vitalità. E di una intimità partecipata, per riflesso della grande anima del Poverello in quella di De Simone, vivono anche altri scorci naturalistici che coinvolgono le figure di frate Bernardo e di fra Giovanni della Verna. Frate Bernardo, tutto suspisu in Diu, se ne sta appartatu ‘ntra ddi virdi frunni della selva o si isola sulle vette dei monti, vicinu a Diu e a li speri cilesti, e si pascìa comu li rinnineddi; frate Giovanni, mistico visionario, si muove in una selva intrisa di manifestazioni di Cristo, selva che ora è tutta luciusa [lucente] anche nel terriccio dei viottoli, e impregnata, alla latina, di profumi cummossi (sic!) a la rinfusa/ ca nun si sapìa …s’era chiù la fragranza o lu sblennuri, ora viene dolcemente e gradualmente illuminandosi della luce chiara dell’alba. Ciò che in San Francesco era, sul piano del vissuto personale e quotidiano, comunione universale e costante con Dio e con tutte le sue creature, proprio nell’umiliazione estrema dell’io soggettivo (eliggennu a mia pizzenti) che, spogliandosi di ogni merito individuale e possesso materiale, tutti accoglieva in sé e tutti valorizzava, restituendo a cose, animali e uomini la loro integrale dignità e divinità, in De Simone si colora di sogno aureo e proiezione fiabesca, quasi un affresco adorante e glorificante di chiesa, come evidenzia rispetto all’originale trecentesco il tema amplificato dallo scrittore ennese della rinascita dell’“albero” dell’Ordine francescano dopo la tempesta che lo ha schiantato. Con avvio quasi oraziano scrive: Tacinu stanchi li cuntrarii venti, sedinu ‘n paci l’omini e li pianti… e dalla radice l’albero rinasce d’oro, carico di diamanti, perle e rubini, con fronde d’amore quale corona per i Santi, e miele e ambrosia come cibo dei credenti; l’arvulu crisci e diventa giganti/ l’arvulu s’aza e arripara li genti…e in alto fra le cime dei rami si avverte un coro di canti angelici e suono di arpe e strumenti musicali. Erano  -come si vede- ancora lontani nel 1927 il Concilio Vaticano II e l’ecologia integrale dell’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco, ma quello che importa qui rimarcare è la vigile presenza, sempre, della più avveduta intellettualità siciliana (dialettale e non) fra le pieghe delle vicende nazionali italiane (allora il centenario della morte del Poverello che mobilitò, per ragioni  personali e estetiche diverse, Di Giovanni nel 1926 e De Simone nel 1927) e entro i venti premonitori o attuali di tante situazioni storiche e culturali. E in questa ottica attiva di documento/testimonianza ci piace leggere le due terzine del sonetto conclusivo dei Fioretti desimoniani, dove, con scarto soggettivo rispetto alle circoscritte notizie biografiche su Giovanni della Verna riportate proprio nelle righe finali dei Fioretti trecenteschi, De Simone si sofferma invece sulle parole dette dal frate                                                                                                                                           a chi gli chiede la causa del suo estatico svenimento al momento della consacrazione/transustanziazione dell’ostia durante la Messa dell’Assunta. Comu la cira mi ‘ntisi squagliari/ comu lu ‘ncensu mi ‘ntisi addumari -risponde Giovanni, e aggiunge che ha perso la voce, perché nell’ostia lu Signuruzzu vitti ’n cruci, sì proprio li carnuzzi glurificati di Cristo cibo universale (hoc est corpus meum), grande (e difficile) mistero di umiltà, carità e unità del genere umano in Dio. Intuizione/rivelazione questa entro cui  S. Francesco, alter Christus, visse tutta la sua vicenda terrena, e della quale De Simone ha colto e reso soprattutto, nei suoi versi amorosamente lavorati, l’aura di visibile miraculum, appunto la meraviglia/ammirazione del francescanesimo..     
 
 
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