Giuseppe Pappalardo, "I versi e le parole" (Ed. Thule) - di Guglielmo Peralta

C’è una ragione nella scelta del titolo di questa silloge, laddove i “versi” precedono le “parole”: il settenario “I versi e le parole” è più musicale del senario “Le parole e i versi” che avrebbe potuto figurare come titolo alternativo a quello che il Poeta ha deciso di dare alla raccolta. La scelta, a mio avviso, è soprattutto semantica, dettata, forse inconsapevolmente, dalla “cesura” inevitabile che c’è tra i versi e le parole che li compongono. Tale cesura indica e sottolinea lo spazio, la ‘distanza’ incolmabile che intercorre tra gli uni e le altre; e questa distanza è la Poesia in quanto mancanza, assenza. Come dire: questi sono i versi, ma le parole avrebbero potuto essere altre, più aderenti al pensiero, al contenuto, al significato; parole scelte che, però, non esprimono la poesia nella sua essenza, che le si avvicinano senza toccarla, senza sfiorarla, mantenendo una distanza che resta infinita e che forse altre parole avrebbero potuto ridurre anche di qualche millimetro. Infatti, “i versi e le parole / sono i frammenti di un cielo stellato” che entra in essi a sprazzi e per difetto. I versi, in sostanza, hanno in corpo le parole che danno loro forma e contenuto, tradendo l’anima stessa del Poeta; il quale non riesce a tradurre nella sua pienezza la voce della Poesia accostandosi ad essa col sentimento che le parole sono in grado di esprimere. Questa mancanza di corrispondenza sembra venir meno se si antepongono le parole ai versi. Tra le une e gli altri il legame è più diretto perché dalle parole scaturiscono i versi. E le parole sono esattamente quelle che li compongono. Tuttavia, identico è il ‘destino’ di ogni poeta e della Poesia, la quale resta comunque inaccessibile, ineffabile. La densità semantica che è possibile cogliere nel titolo è data da questa presenza/assenza della Poesia; la quale, come l’essere, si mostra celandosi nel grembo della parola e si riverbera nel titolo in cui la sua natura ontologica resta circoscritta. Altri sono i temi che caratterizzano la raccolta della quale, tuttavia, la Poesia è l’inter-essenza che segretamente vi circola, pur mantenendosi distante in quel rapporto fra “i versi e le parole” che sono i punti ‘estremi’ di un’impossibile equazione.

      La poesia “La rosa” è il corollario che enuncia il ‘teorema’ della vita, dalla quale deduce le verità palesi, riconducibili alla comune esperienza e conoscenza. E la regina dei fiori è il tòpos che qui lega insieme i temi, i motivi peculiari della bellezza, del dolore, della fine delle illusioni, della memoria, della nostalgia, della caducità e fugacità dell’esistenza, della morte e della rinascita, che sono, tutti, aspetti della vita e il grande campo semantico che dà la sua messe di significati alla ‘raccolta’.  Dominante è il pensiero della morte, o meglio, della vita che declina, si intristisce, si eclissa, si fa “intollerabile tormento”, “nuda solitudine”, “si abbruna”; che si fa tempo che trascorre inesorabile, che dissoda e “copre di neve il prato” dei giorni spensierati e felici, nell’attesa vana del “canto del mattino”. Solo resta, al nostro poeta, quella gioia di cui sono custodi il cielo e le stelle e che, quando egli si abbandona alla contemplazione, si rivela come un dolce ricordo: “un soave canto / come latte materno / che del soffrire (…) serena il pianto”. Al sentimento del tempo percepito, soprattutto, come vanità e fuga, come “l’inclemente legge primordiale” che non risparmia dalla consunzione e dalla morte ogni essere vivente, Giuseppe Pappalardo associa il sentimento dell’amore per la vita e il grande rammarico per la mancanza e la perdita dei valori; una perdita che determina il distacco, l’impoverimento, l’indifferenza da parte di una umanità che non ama il suo prossimo e che, perciò, resta “sotterranea”, nel sottosuolo di un’esistenza inautentica, anaffettiva, condannata al “male di vivere angoscioso” e, perciò, in attesa di un’improbabile, di un’impossibile resurrezione. Solo nella fede è la salvezza, la possibilità della rinascita, di una vita rinnovata nella certezza di un Dio non ascoso. E il Poeta leva alta la sua “Preghiera” alla Madonna affinché fiorisca “dell’amore il seme” ed egli “non cada nell’orrendo vuoto / del silenzio di Dio”. Ed è, questa, un’invocazione per l’umanità intera. Altra ‘fede’ è quella che il Nostro ha sempre riposto nella Poesia, la quale, “nell’angusta prigione della vita”, non ha fatto mancare la sua voce “all’anima che si era ammutolita”. Alla Poesia dal volto sorridente - di cui avverte, dunque, la presenza - Giuseppe Pappalardo rivolge il suo ringraziamento per la serenità e il conforto che ne riceve nel prendere “commiato / da ciò che è stato e ciò che non è stato”. E anche “i versi e le parole” sono l’espressione di questo commiato: da ciò che, finora, gli uni hanno rappresentato, significato, e dal «non detto», ovvero, da ciò che le altre sono riuscite ad esprimere sulle orme impercorribili dell’«indicibile», del «dire» sempre mancato.

      La silloge si chiude con la sezione “Versi brevi”, che tanto somigliano a degli aforismi. Accanto ai temi già trattati, questa sezione ne accoglie altri, anch’essi presenti e rintracciabili nelle poesie precedenti, in quanto sono eco dell’unica voce della vita ‘cantata’ con i suoi “effetti collaterali”, la quale lega insieme i vari testi facendo di essi un tutto organico e coerente. Pappalardo conclude dunque il suo poetico “bugiardino” con pillole di saggezza dove solo la verità, con le sue molteplici facce, trova posto e composizione costituendone altresì il principio attivo.

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