"Giuseppe Bonaviri e le ragioni del “dire celeste”" di Maria Nivea Zagarella

Nell’opera poetica di Giuseppe Bonaviri, che va dal 1943 al 2008, il frequente ricorrere dei temi del Tempo, della Morte, del Cosmo configura una immobile e cruda visione dell’esistenza con picchi di regressione psicologica e angoscia depressiva più evidenti nelle raccolte O corpo sospiroso (1980) e L’incominciamento (1983). Rispetto ad essi i molti frammenti di eden infantile e familiare de L’asprura (1964) e de Il dire celeste (1979) e il mito della poesia-talismano, con il sempre più sofisticato mixage negli anni di elementi linguistici, culturali, immaginativi eterogenei, additano sponde più serene e pause di idealità. Con una nota accentuata, nelle ultime sillogi, I cavalli lunari (2004) e L’arcobaleno lunare (2009), di tenerezza affettiva e innamoramento per la vita, pur nel dramma cosmico di una Materia continuamente metamorfica e nel persistere del dolore esistenziale.       

L’onnipresente angoscia di morte di Bonaviri fa le prime prove nei versi giovanili di Di fumo cilestrino (1981) e Quark (1982), composti negli anni 1943/1955. I testi, in un linguaggio ricercato ma acerbo e con forzature adolescenziali di suoni e effetti, si muovono fra suggestioni letterarie e atteggiate malinconie. L’autore evolve dalla elaborazione di immagini e stilemi colti nei poeti letti, Leopardi soprattutto, ma anche Pascoli o Carducci, come traspare dalle ampie prospettive cosmiche, dai paesaggi lunari e da alcuni bozzetti campestri e paesani, fino alla enucleazione di un immaginario autonomo, in cui il paese natale Mineo e l’autobiografismo vengono acquistando peso esclusivo. Peso si intende psicologico e intellettuale come radicamento ancestrale della “pena di vivere” (Dai secoli trapassati i morti mi parlano nell’essere…mi parlano della malinconia dei loro ossi…) che si farà, dopo tristi eventi personali, ancora più radicale e irreversibile. I prodromi del “dire celeste” (cosmico-materialistico) del Bonaviri adulto e maturo sono da individuare già nella protesta impietosa e ironica di Sera di luna con quella luna borghese e la sua gente solita, piccina piccina e dal viso comune; nella ossessione funebre che delinea come un continuum cimiteriale Mineo, il pianeta Terra, l’universo; nella rassegna, anagraficamente nominativa e non, di morti mineoli; nella immobilità socio-culturale del paese, realistico contesto di miseria, malattie (malaria, tisi) e vite inespresse. Sopra quelle case basse e gobbe di calcina e di canne, alle cui porte risuona l’urto uguale del vento che sale dalle valli, non si alza alcuna cupola di luce. Qualche oscillazione di umore e divagazione fantastica o idillico-amorosa increspano e movimentano ma non alterano la sostanza di una riflessione solitaria, che sin da questi anni respinge ogni illusione e impegno sociali (operai dalla fronte gialla stendono sui muri striscioni di carta inutile), distanziandosi il poeta esordiente dal contemporaneo movimento del neorealismo, ma anche da ogni aleatoria elucubrazione cristiano-religiosa. Nella grande chiesa (Mineo), dove si aggira un vecchio prete, nella luce di mille candele accese tremano solo ombre di strani idoli, e in un ordine troppo perfetto, per non essere intrinsecamente falso e artificiale, sfila per le vie cittadine (Catania) un corteo funebre con il suo corredo di preti lucidi e corone di rose finte. Noia, nausea, malinconia e i fremiti di ribellione e insoddisfazione del giovane studente prima, del giovane medico poi, tingono di funereo il succedersi dei giorni e delle stagioni  improntando i versi degli anni ’40 e ’50 di pose intellettualistiche e straniate (Una donna vomita…e la sua lingua si ingrandisce al vento della corsa del treno) miste a un germinale tragico sentimento del vivere (la vita mi consuma col suo fluire come l’osso di un cane morto), che tinge di “grigio” anche la campagna di Frosinone e il sogno stesso dell’amore accanto alla fidanzata, poi moglie, Lina (il cupo triste canto degli uccelli della sera).

Nelle poesie de L’asprura (1964), nate dalla improvvisa traumatica morte del padre a 62 anni per emorragia cerebrale, il “lutto”, fino ad allora solo teoricamente e “scolasticamente” esperito, si soggettivizza drammaticamente e si radicalizza nella psiche depressa del “figlio”. Mineo e la Sicilia si istituiscono da questa data come orizzonte unico della memoria autobiografica di Bonaviri e come ragione fondante del “fare poetico”, ossessivo talismano nel tentativo di oltrepassare l’infinita perdizione dell’arsa materia che è corrente nera di acque che stagnano…immutabile invalicabile buio. Perciò l’ansia della insanabile mente riguadagna l’infanzia, reimmettendo il poeta, per magia linguistico-immaginativa, in una Natura quasi primigenia e in una innocente, aurorale, arcaicità del sentire. Pur nello “strazio” del ricordo di ciò che fu, esplode incontenibile la luce-armonia dell’età impareggiabile vissuta con i fratelli e i compagni di gioco (come poi né I cavalli lunari) fra il paese e l’altopiano di Camùti dal nenioso nome (Tutto ci apparteneva. Vasto era il mondo sotto di noi…La Terra si espandeva in gaiezza…e niente era dissono al nostro infuriare di dolci vibrazioni…). E riemergono le esperienze di allora: le scorribande fra campi e dirupi, i fuochi notturni dell’Ascensione accesi da massaro Angelo, la festa di S. Agrippina cui li invogliava il padre (Noi sei eravamo vite pampinosa, umorosa, radicata nelle zolle) tra torronai, banda e mortaretti, il sonno dei cinque fratelli conciliato dalle nenie dei grilli, e i loro risvegli leggeri nell’irraggiamento solare fra il belare delle capre, che andavano al pascolo, e il cigolìo dei carretti che scantonavano dai vicoli nella stradalunga in intermittenze sonore con i primi passeri. La compatta unità del nucleo familiare (figlipadremadre) che si ritrovava attorno al tavolo, nel cono del lume pianolampante e dalla luce buonaodorante, per consumare in circolo pane, cacio, ulive incaminate e uova alla coque, era il perno -confessa Bonaviri- di quella antica voglia di vivere e serenità, che investono ora retrospettivamente pure il paese natale, che subisce una singolare metamorfosi. Mineo riappare in un balenare di luci, e ogni cosa da scontata, stupida, estranea quale era negli anni della giovinezza dubbiosa e contestatrice, diventa, nell’alone emotivo dell’infanzia ritrovata, desiderabile (Che più bello di allora?) e mitica e intima: il fumo che esce dai comignoli di gesso, il raglio degli asini,  le case verdeggianti di basilico, il cirmunìo della gente in festa, i galletti ruzzanti sulla china delle Mura, il coccodiare delle galline, i tersissimi pomeriggi di marzo, l’Etna innevato e la pioggia sui tetti inverditi di paretaria, il sole dilagante in perenne ozio meridiano, i colombi in fuga dai torrioni delle chiese per gli spari dei mortaretti. Anche il paesaggio riaccende i suoi colori (le vampe del tramonto, il giallo del croco, i papaveri, i fiori di melograno e gli elicrisi, i fiordimiele dei tumidi fichidindia, il grano gonfio tra i fiordalisi, i carrubi che si arrossano…) e la Natura risplende dei suoi ritmi e delle sue creature, che non sono solo piante e animali (lucertole, allodole, merli, calandre, farfalle bianche, passeri, sparvieri…) ma anche gli uomini in simbiotica unità col mondo naturale: dai bimbi scorazzanti fra rocce e zolle (noi tre ormai luminescenti vibrazioni d’acque e foglie e sole…) ai contadini che sparsi sui colli e a fondovalle intonano neniose canzoni arabe o dormono fusi con gli ulivi, agli stessi genitori di Bonaviri, solari protagonisti/emblema di questi testi con le loro semplici virtù. L’arsura insaziata del figlio indugia sull’immagine del padre ancora vivo, dalla voce tenera come spiga, che si attardava, essendo sarto, a cucire nella bottega nel chiarore roseo del tramonto, e talora fino a tarda notte nella dolciura d’acqua della luna, oppure correva in gioco con i figli masnada felice nel piano frumentoso e tra le pietraie di Camùti, o li svegliava nelle mattine di maggio con l’augurale esclamazione che giorno di paradiso, che festa e riso!, esibendo la ricotta col siero dei cretosi svalanghi delle Mandrie. Altrove è di scena la madre, falena in festa intorno al lume prima della morte del marito, che nelle sere di maggio metteva a dormire i cinque figli nel letto grande, mentre fuori era alta la voce dei cani e i grilli morivano in dolcezza fra le stoppie. Una preistoria -come si vede- di piccoli eventi e di grandi sentimenti fruiti in quell’età aurea in tale armoniosa sensitività con gli elementi naturali da intridere di solidale tenerezza e calda intimità anche la Mineo sconvolta dal vorticoso vento di levante. Il vento -scrive- ci disumanava in elementarità di vibrazioni e ci innaturava in esistenza geologica senza lume di coscienza, vorticoso vento anche noi, poveri esseri naviganti nel buio cosmico, e tuttavia era nella sera/notte un buio “familiarizzato” dal richiamo dei carrettieri di vicolo in vicolo, dalla voce della signa Arpina, dal battere degli zoccoli dei muli nelle stalle, dal canto spaurito dei galli, dallo stormire stordito degli ulivi, e quasi ovattato dalla presenza-vicinanza nel sonno, in stanze contigue, di tutti i membri dell’ancora intatto nucleo familiare, figlipadremadre. Ma la morte ha scisso l’unità sensitivo-affettiva del nido familiare e nel non-senso desolato dell’oggi, la poesia, attonito tirintintare di parole incasellate, registra la nientificata condizione del padre rifluito, morendo, nell’amorfo arso pendolare moto di elettroni e protoni, inferno della materia cosmica, che dall’Asprura si impone con codice lessicale specifico e componenti scientifici circostanziati. Nel suo moto centrifugo mosso solo da sordi impulsi molecolari impenetrabili assurdi maledetti, il padre ormai disumanato e flusso anch’egli di fotoni, sciama in un viaggio senza approdo come inutile polvere stellare senza più miti quali acque, merli, cespugli di Fiumecaldo. Il poemetto si apre e si chiude nel nome della terra di origine, toponimo che sigla nel dipanarsi del fiumememoria e della nostalgia urente dell’io l’alone nuovo, quasi di deità ctonia, del padre, sostanza -dice Bonaviri- della mia sola inverata storia, segnalando l’intenso trauma del “figlio” interratosi a Camùti.

Dall’allegoria del viaggio astrale post mortem senza centro e senza ritorno del padre (e di tutti i morti) prende l’avvio il poemetto, Il dire celeste (1979), viaggio conoscitivo, razionale e fantastico a un tempo, fra teologia negata e cosmogonia materialistica dispiegata. Elementi strutturanti non sono, come ne L’asprura, il ricordo autobiografico e un disteso narrare-dialogare intriso di tenerezza penosa e memoria straziata, ma la fantasia, l’ironia, un estroso eclettismo culturale e un linguaggio ibrido, la cui piacevolezza e espressività derivano da una sapiente alchimia di motivi e termini magico-fiabeschi, scientifico-filosofici, misterico-naturalistici, inframmezzati da notazioni “colte”, che suonano ora apertamente irridenti, ora, con sorniona dissimulazione, vorrebbero apparire puramente discorsivo-esplicative. Nei testi, che tendono a una concentrata brevità, l’ironia  stronca ogni pretesa antropocentrica o equivoco sulla divina categoria degli esseri, escludendo dall’orizzonte vitale e spirituale dell’uomo la fede religiosa o altre fittizie “umane” verità, catalogabili, in chiaro e derisorio repertorio di vacuità, come Quaestiones, Annali, Epigrafi, Atti… dato che lucrezianamente al mite bozzolo dell’anima danno moto soltanto atomi imperturbabili, e in vita e in morte tutto avviene per necessità nell’estensione di corpiccioli atomici che ci vietano ogni possibilità-illusione di essere beati e immortali. La fantasia coopera con l’ironia, trasferendo in una dimensione irreale e favolosa aspetti succinti, e filtrati, dell’ambiente mineolo e della cronaca familiare bonaviriana, innalzandoli leopardianamente, quasi nuove “Operette morali” in versi, a paradigmi della condizione universale, e esorcizzando Mistero cosmico e dolore esistenziale attraverso numerose e “numinose” microstorie dal sapore fascinosamente arcaico e enigmatico. Costanti il travestimento di luoghi, persone, cose sotto nomi fantasiosi o esotici, orientaleggianti o arabeggianti, e l’intercorrere di situazioni bizzarre e provocatorie fra cui affiorano, sebbene radi, anche lividi flash della società anni ‘70 riguardo alla quale Bonaviri ribadisce il suo scettico distacco e il suo rifiuto morale (carnalità della megalopoli di Turpedia, vacui strombettamenti/slogan di scelte politiche e sviluppi finalizzati). L’autore preferisce navigare lontano, tra ragione e fantasia, in un “dove” inappariscente e eterno, oltre il fluire del reale storico, attingendo, per configurare il suo materialistico “verbo” celeste, spunti inventivi all’inesauribile serbatoio mineolo di immagini, emozioni, affetti, esperienze che funzionano a livello conscio e inconscio quale un primordiale sepolcro/utero, contenitore di morte e di vita. Tornano pertanto stilizzati e resi quasi astratti sia dall’habitus misterico-sapienziale assunto dall’autore nel poemetto, sia dal correlativo processo di emblematizzazione e fantasiosa nominazione, luoghi e persone già cantati dalla “inventio” bonaviriana: Mineo, il suo paesaggio, il suo cimitero (Qualàt Minàw, Oribasìa, Zebulonia, Qamùt, Ruccuvé, Alcamuh sotterranea); le figure dei familiari (Shimòn è il nonno paterno, il sarto al-Aggiàg il padre, Alùlia la madre, che cumula in sé i ruoli di matriarca, madre naturale e Venere cosmica lucreziana) e, in nuove incarnazioni di ricordi d’infanzia e di adolescenza, i fratelli, i compagni o figure caratteristiche e inobliabili di paesani. Fra i personaggi lo stesso Bonaviri ((Giuseppe, Bewar, Ozabel, Zephir…), la moglie Lina (Rabò-oh), la figlia Pinuccia (Alqama), il figlio Emanuele (Immanuel paleografo). Moderno aedo modellatosi sugli antichi aedi, che ammaestravano, cantando, le comunità, il poeta, di testo in testo, viene traendo da astruse simbologie (orologi, cannocchiali, clessidre, compassi, figure e segni geometrici, misture magiche, violini e altri strumenti musicali) o dalla stessa inanità delle azioni del decifrare-meditare, calcolare-numerare, incidere-disegnare, circoscrivere-chiudere, e da altrettanto simbolici o strani personaggi (vecchi pallidi, sapienti anonimi, il cosmografo ibn-al-Atir, vecchie fattucchiere, frati centenari, eremiti astronomi, lo stravagante e anticonformista nanetto Lilì, i filosofi antichi Stilpone e Archita) quello che gli sembra il significato ultimo dell’esistere e del vivere. Un esistere e un vivere spogli di senso e di ragioni “altre”, dato il continuo morire e reciproco commutarsi, gli uni negli altri, dentro il cosmo metamorfico, di tutti gli esseri, donde certe ironiche titolazioni (Del Principio e del Nulla, il libro Sull’anima, i mille e tre frammenti detti del corno e dell’enigma), il feroce e divertito sarcasmo sull’homunculus historicus già “fossile”, o il ricorso a una sovrabbondante terminologia tecnico-scientifica che dispoglia e raggela il mondo naturale, riducendolo ai suoi elementi chimici e forze magnetiche. Tessuta di materialismo e razionalismo la visione dell’esistenza procede a ritroso, dalla più avanzata modernità (il concetto di “antimateria”) attraverso il Leopardi del Cantico del gallo silvestre (alluso nel galletto Polieno) fino al De rerum natura di Lucrezio (Per crearti, figlio, convennero…gli atomi curvi…), trovando l’autore tregua interiore all’angoscia e una forma di appagamento intellettuale proprio in questa vertiginosa (e direi anche vendicativa) “avventura” della intelligenza speculativa, atteggiata nel suo dissimulato, filosofico, didascalismo in modo allegorico-fiabesco, e perciò senza ombreggiature di pathos soggettivo in un ludus spericolato di marmorea (o quasi) disperazione. Può così Bonaviri personificare, sorridendone, l’elettrone Slim o raccontare, resosi anch’egli fisicità impersonale e “elemento” fra gli altri “elementi naturali”, le tre rinascite per successive reincarnazioni di Zephir-Bonaviri-vasaio, oppure spingersi ad immaginare, che dal teschio di Zephir ritrovato soffi un vento, che fa fiorire (polemicamente) di sottigliezze floreali la grande città imbruttita (o “abbrutita”?) dal milione di antenne nebbiose, vento che fa nascere nei crepacci, in parallele righe beate, i fiordalisi, assicurando il poeta che ogni dieci anni per suoni e brillanti talismani il piccolo dio creatore Zephir-Bonaviri riappare rompendo l’oscuro omogeneo tempo. Il mito del “piccolo dio creatore” (e quello affine di Bonaviri-vasaio) permette al poeta di evidenziare la contraddizione-uomo, essere senziente e pensante e artefice-plasmatore in un universo squallidamente materico, mentre il ritorno della parola-chiave talismano entro tale contesto scientifico-poetico-sapienziale evidenzia la rivincita personale dell’“artista” (artifex appunto) sull’inferno della materia bruta grazie alle potenzialità fantastico-affettivo-conoscitive dell’io. Nelle poesie de Il dire celeste infatti le due linee di fuga del canto-vaticinio di Bonaviri, quella materialistico-atomistica, che evoca una dimensione incontrollabile e sfuggente, immersa nel suo mistero, e quella paesano-naturalistica che configura un mondo più affettuoso e aperto al sogno (la cometa Irro ad esempio punteggiata dal padre sarto con ago e refe), pur se malinconicamente aleatorio o perdente rispetto all’enorme tempo cosmico, sono compresenti in uno stesso testo, o tornano a intervalli alterni di “buio” e di “luce”. La loro complementarietà entro il quadro esistenziale consente al pensoso canuto organaro-Bonaviri, emotivamente smarrito e disorientato tra filamenti e vorticosi granuli vibranti (i corpuscoli atomici) ma lucrezianamente insaziato della conoscenza scientifica del cosmo eterogeneo, di orchestrare e equilibrare, razionalisticamente, tempo cosmico e universo umano e etico, mitezza di sentimenti e vaghezza di sogni (e numi tutelari sono ancora una volta il padre, la madre e l’infanzia-adolescenza a Mineo) con il nulla dei mortali passaggi delle nostre ultime ore. Tale è il destino dell’uomo, e il poeta acquieta l’angoscia soggettiva del cuore in questo arioso, universalizzante, “teorizzare” a un tempo materialistico e disinteressatamente morale.                   

L’equilibrio sentimentale, intellettuale, estetico realizzato nel Dire celeste si incrina in O corpo sospiroso e ne L’incominciamento, raccolte in cui prevalgono la sofferenza dei ricordi autobiografici e la dismisura del senso di morte. La prima, della quale sono parole-chiave Nulla e stanco, si apre significativamente con la poesia Principio, dove il modello biblico (In principio era la stradalunga… Era principio e giorno sulle acque…) serve a marcare la serenità svanita del ciclo notte/giorno scandito dalle figure del padre sarto, chino sulla stoffa lucidissima di luna, e della madre, che sfornava il pane all’alba mentre i galli cantavano dai picchi, e si chiude con Commiato, in cui Bonaviri, alla maniera degli autori medievali, invita le sue “canzonette” ad andare, come api in giro, nella città di ulivi, palme e chimere fino alla stradella del sarto, per riportargli dall’abisso del passato le teste dei parenti che camminano con sonagli nella morte. La seconda, dove risultano parole tematiche nero e buio, trova la sua naturale conclusione nella poesia Or dov’è?, nella quale, attraverso tale triplice martellante anafora ad apertura di strofi il poeta indaga la sorte-luogo dei suoi cari morti (zia Agrippina, il padre, il nonno Salvatore fornaio) precisando nei versi finali, con macabro immaginare, che va raccogliendo da grotte i suoi avi coperti di seta, avi con i quali mostra di essersi da tempo consustanziato all’interno del grandissimo Oceano dello spazio-tempo. Mentre nel Dire celeste l’autobiografismo viene costantemente trasceso e sublimato in un mosaico di tessere fantastiche, talora volutamente oscure nella significazione per meglio mediare e “oggettivare” il complesso rapporto tra l’Essere e l’uomo, facendo della condizione umana universale il perno dell’ispirazione poetica, in queste due sillogi degli anni ‘80, il procedimento risulta inverso. Perno dell’ispirazione è il soggetto infelice Bonaviri, perciò il pathos compulsivo che riverbera dai versi. Anche Mineo ritrova lineamenti più realistici evocati all’individuo-Bonaviri dall’amore dei luoghi, che si manifesta però come ossessione psicologica di eventi del passato, sia personali che collettivi, e come filiazione/incubo del trauma “morte” per nulla superato, anzi aggravatosi nell’orizzonte della psiche. Sullo sfondo di un universo ormai scientificamente codificato e minutamente riproposto nella sua illimite espansione di galassie e milioni di anni-luce e antimateria (I tre fanciulli), aggettano infatti e riacquistano tragica e conturbante incidenza l’accadimento Morte (e l’uomo si interra senza verzura… ogni creatura è in trasmutanza di morte) e “i morti”, sia i familiari (il padre, zio Michele, zia Agrippina, la cognata di Bonaviri, il nonno materno) sia i paesani, tutti riantologizzati come per una incoercibile “coazione a ripetere”. Tale prospettiva tutta interiorizzata e regressiva è rivelata dal testo emblematico Effemeride del re malinconico, dove il re/Bonaviri malinconico e vecchio vuole risentire, sotto l’urgere del dindindon del cuore, color porfido il vento/, l’acqua chiara che fluì nella valle,/ la madre ridondante di fogliosi frutti,/ le sorelle, di gesso fresco le mani,/ il fratello, il padre che cuce stoffe rosse, dicendosi tale re consustanziato con la sua vassalla gente contadina. Il radicamento ancestrale e i ricordi soggettivi condizionano la nostalgia memoriale e agiscono, acuendola, sulla crisi depressiva. Troppe nei versi di O corpo sospiroso le controfigure dell’autore per non avvertire il lettore tutta l’irrisolta doglianza dell’io di Bonaviri, e anche Mineo vi perde la luce solare dei giorni chiari d’infanzia de L’asprura e del Dire celeste. E se la vita contadina si arricchisce di qualche altra nota folclorica locale, il paese, dato lo stato psicologico dell’autore, torna ad essere il borgo “buio” con appena 7 lampioni, la gentuccia grama e le donne in scialle nero, e vecchi e vecchie che per età e sventure personali hanno commercio quotidiano con la morte, e ancora, con il vento che tiene ogni cosa in ispavento, e la campana della sera che in trilioni di piccolissime vibrazioni dice che ogni cosa/ in nadir, e nel zenit d’astri,/ muore nell’infinito andare. Autobiografismo doloroso, scientismo e “male di vivere” in questa silloge, che recupera elementi formali e tematici medievaleggianti, fanno segnare il passo alla psiche turbata di Bonaviri, che anche né L’incominciamento torna continuamente su se stesso, sul già detto o già vissuto. Tuttavia il “paralizzante” senso di morte arriva qui a saturazione ed esaurimento, come al compiersi di una lunga, paziente, terapia psicoanalitica giocata sul ruolo catartico delle associazioni memoriali e dello “sfogo” lirico. Nei testi de L’incominciamento convergono e si decantano gli ultimi vaganti frammenti, non ancora bruciati psicologicamente, di antiche angoscianti sensazioni e pervicaci ricordi autobiografici, non importa se orrorosi (cimitero e convento dei cappuccini) o affettuosi (la famiglia), o della solita “rassegna” di morti (anche emigranti). Parimenti, sul piano naturalistico, l’incanto della primavera e il vento Zefiro sono contraddetti dal sentimento della vacuità dei giri planetari, e persino la stella Sirio perde la sua luce: Vano/ è il dì, senza quietazione, stella Sirio/ precipita dal firmamento e si inzolla. Temi non nuovi, anzi monotonamente ripresi e alla fine stucchevoli, se non fossero intervenuti negli anni a variarli e rielaborarli il ricorso a fonti e elementi stilistico-culturali sempre diversi e una originale “officina” linguistica (atomelli, lamentelli, inzolla). Il loro riproporsi però segnala un remoto e prolungato disagio interiore, più angosciosamente catalizzato poi dalla morte del padre, e carica di sensi allusivi il titolo della raccolta nella quale forse sono confluiti pure versi anteriori all’83, pur se editi in tale data. Incominciamento -è lecito chiedersi- come “necessitato” ritorno-scavo dell’autore verso le radici profonde e non interamente evase del proprio essere/malessere spirituale? E la chiave forse si trova nel testo I poeti. La nota che lo commenta informa che fino al 1850 circa da tutta la Sicilia si radunavano a Camùti poeti contadini e artigiani, per poetare attorno alla grande pietra detta appunto “della poesia”: gli aedi popolari e analfabeti, poetanti -annota l’autore- mentre il vapore esalava dalla terra, pensavano all’inarcarsi del tempo che andava per metalli arsi, impietrando nei [suoi] giri planetari…foglie, uomini, fronde, e i fanciulli guardavano sulfurea/ la terra lungo il sole andare. Dunque ai suoi occhi infantili mondo ctonio e mistero cosmico si erano già rivelati e saldati, entro la peculiarità etno-antropologica e fisica del territorio di Mineo, in un oscuro sacrale intreccio di Morte disgregante e di incontenibili energie telluriche, di “principio” e “fine” inestricabilmente congiunti nelle trasmutazioni cosmiche e quotidianamente verificabili nell’ethos contadino, funebre e vitalistico. Polisemico dunque l’incominciamento come discesa di Bonaviri alle radici del suo problematico e inquieto “io”, sia poetico che umano e intellettuale.

Solo vent’anni dopo nel volumetto I cavalli lunari il poeta ormai ottantenne e nonno ritrova sul piano estetico e psicologico l’equilibrio fantastico-concettuale e etico-esistenziale de Il dire celeste e, se guardiamo a L’asprura, la capacità di rinnovarne il mito-favola dell’infanzia fra candore ironico e intenerita malinconia. Anche né I cavalli lunari affiorano i guasti del mondo contemporaneo (attacco dei Kamikaze alle torri gemelle, allusioni ai talebani, timore della guerra batteriologica o nucleare) e regna sovrana l’angoscia di Morte. Ma il negativo storico e metafisico, superata la crisi esistenziale e il pericolo di una patologica regressione nel passato, trova il suo bilanciamento positivo in motivi già noti qui trasfigurati poeticamente in “proposta” esistenziale, anche se minimale. Dà il tono alla raccolta il testo di apertura I cavalli lunari: se i cavalli con ali di ippogrifo cavalcano a mezz’aria/ con silenti zoccoli d’argento, sulla terra l’onda sul bagnasciuga rionda verso l’uomo/ che guarda, a significare che nel ciclico cosmico fiottare di vita-morte, morte-vita, l’infanzia soggettiva è una stagione irripetibile ma il fiabesco un miracolo perenne: O Dio, dona, donaci/ a noi acutissimo sguardo/ per seguir lassù sulla luna/ Varenne,/ le trenta cavalle/ e i restanti cavalli trottanti. La Sicilia e Mineo tornano pertanto a colorarsi di mito e investono creativamente l’oggi, il presente, trasfigurandolo in una rinnovata avventura d’infanzia, il fiabesco insomma come progettualità divergente rispetto all’odierno ammorbante inferno sociale. Perfetta la specularità nonno-nipoti nel contenitore “famiglia” grazie alla poesia (zufolo che ridà sostanza a ciò che fu) e alla fantasia, strumenti atti a “riqualificare” il tempo reinventando possibili significati alla vita. Onnipresenti la morte e la figura del “vecchio” giunto al consuntivo dell’esistenza (Oh la vita volò. Cosa restò?…/ O vecchio/ sei mai vissuto? Mai mai mai), ma ne correggono l’angoscia le linfe ancora vive dell’infanzia contadina e l’eco dell’aedico narrare dei genitori divenuto in Bonaviri abito morale e qui trasfuso nel fitto, formativo, dialogo-gioco con i nipoti senza brusche cesure generazionali. Attorno all’affabulazione poetico-fiabesca tornano così a coagulare valori forti, anche se modulati in sordina. E su uno sfondo di pace domestica e bontà paesana, pur nella faticosa e umile ripetitività degli antichi mestieri (il nonno paterno macellaio, il padre sarto, il fabbro Severino, le lavandaie, il calzolaio zio Tatò, il nonno materno panettiere), sale in primo piano la famiglia, luogo di tenaci e schietti legami affettivi e di proiezioni ideali condivise: a sera don Nané il sarto della/ stradalunga parlava con me di stelle/ o di luna che arrivava per riverberi in brillìi. Segue la solidarietà uomo-natura: piante, animali, astri a ogni morte o nascita di creature umane hanno fremiti di doloroso stupore o di gioiosa partecipazione, secondo un rituale fantastico-naturalistico consono al perenne mutarsi fisico-biologico delle cose le une nelle altre dentro l’enorme Spazio-Tempo. E riaffiora il monito francescano: Ho visto un volo di bambini e uccelli/ lungo siepi di biancospini e ornelli…Così passando su torrenti e boschi lasciaron case e questo mondo losco. Infine, la solidarietà tra uomo e uomo: Il lago scintilla. Il pesco ne brilla, i nipotini vi fanno ondulare l’amo, ma l’armonia naturale si fa davvero tale quando i bimbi savi donano al ragazzino ambulante indiano Jubrì, che ha fame, i due pesci appena pescati: brilla infatti più forte il sole uscendo dal salice. E il girotondo infantile, col suo costante riproporsi nei versi di Cavalli lunari, compendia un sogno di coralità realizzata. Passato e presente, ieri e oggi si saldano dunque nel rapporto circolare nipoti-nonno, il quale, ostinato affabulatore entro l’alveo del lungo epos affettivo e memoriale familiare, consegna ai bimbi la metafora di un Sud e di una Sicilia radicati nel dolore e nella morte (i catoi bassi e neri, le vecchie dal viso cereo, le carnucce dei bambini nella fossa comune), ma pure luogo-tempo privilegiati di inesauribile fecondità sentimentale e valoriale per il soggetto.

     La silloge postuma L’arcobaleno lunare comprende 28 poesie del maggio/ottobre 2008 inviate in dono all’amico poeta palermitano Tommaso Romano. Corse qua e là da bizzarri, talora caustici, giochi lessicali, richiami fonici smagati, autocitazioni e allusioni intertestuali, suonano come il commiato da familiari e amici di un Bonaviri che, sofferente nel corpo e offeso alla vista, sente prossimi a disperdersi in sconfinate altitudini/ fra farfalle e galassie i suoi 84 anni: io mi annichilo -scrive- in protoni ed/ elettroni/ e di me resta/ un nucolo/ magnetico. Se la prospettiva cosmica è angosciante e nullificante per il mareggiare del tempo che inghiotte tutte le cose in un illimite tenebrore e per la vanità del nostro mondo dove tutto/ s’interra senza lasciare ombra/ o penombra della stessa storia umana, anche qui col senso di morte contrastano Mineo, i ricordi d’infanzia (Uccelli zigoli e fiori/ e i bimbi sono/ in gran sussurro…) e il radicamento dell’io nei legami affettivi, parentali e amicali, vissuti come travaso positivo di sensazioni/emozioni e di valori intimi tra gli individui e tra le generazioni. Durante la malattia il poeta sente nell’affettuosa stretta di mano del figlio Emanuele una dolciura di paradiso, festa e riso che lo riporta al vincolo valoriale e d’amore con il padre don Nanè, che formava i 5 figli alla speranza e agli incanti della Natura. I giochi di Bonaviri con la figlia Pina (Io giocavo con te/ e la terra si riempiva/ di miliardi di petali/ dai molteplici colori) sono rinati al crescere dei nipoti rappresentati ciascuno in simbiosi con elementi naturali: fiori, piccoli meteoriti, mare, costellazioni, alberi. Anche il primo incontro con la moglie Lina nell’ardore del luglio siciliano (Ardeva il luglio sugli ulivi/ e sulle guglie dei campanili) ha trasfuso la sua carica vitale nelle coppie Michele/Pina, Cinzia/Emanuele. Nella tensione umanistica di Bonaviri centrata sul soggetto, pure l’amicizia è tramata di circolarità di affetto e slanci condivisi verso l’arte, la musica, la poesia: [ad Arpino] abbiamo creato/ un meraviglioso giardino poetico/ [dove] ognuno può calarsi in se stesso/ e ritrovar idee divine/ e schianti di ricordi. E dallo “schianto” di memorie e umili valori di una stagione perduta, ma felice e perciò sempre ripercorsa, cioè l’infanzia esperita entro la solarità dolente di Mineo e sotto la grande cupola stellata del suo cielo, nasce il complesso simbolo/metafora dell’“arcobaleno lunare”. Ispirato alle notturne contemplazioni infantili del poeta sospeso su valloni bui d’abisso, da cui pareva direttamente sorgere il candore lunare, il simbolo compendia tenerezza e disinganni, nostalgie e paure, insopprimibile afflato religioso e ricerca esistenziale. Quanto più giganteggia, vista dalle galassie, l’infinitesimale nullità della vana genìa umana, tanto più dai sogni/attesa di ogni infanzia e adolescenza sale il monito severo agli adulti di oggi a ri-umanizzare il puro esistere materico: Ora dove tu passi -dice di Pina l’ottuagenario incorreggibile fanciullo Bonaviri- fioriscono ciclamini/ e aranci/ e brillano/ arcobaleni lunari.

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