Giovanni Teresi recensisce "Solfeggi d'oblio" di Tommaso Romano

Lo spunto da cui partono i versi della raccolta è vario; ci sono espliciti riferimenti alle stelle, alla luna, ai paesaggi del mondo: tutti elementi che non comunicano con una voce ma con la sola presenza collocandosi, così, in un livello prelinguistico.

Consumiamo in noi,/presto,/l’incanto folgorato/quel che resta, allora/ in non beata solitudo/ non chiedendo perché/ e neppure un come/…/conservando/l’impronta di mani incrociate/che si sciolsero,/incredule/alla luna indifferente.”

“Attraversamenti dalla riva/adagiata/al cuore della terra/per giungere a lambire l’acqua/ dei Ciclopi.”

“Se ci fosse almeno un giorno/per non andare a cercarvi/fra visioni cui diamo nome di sogni/…/fra le cime, la terra e il mare …/

La voce umana è assoggettata alla finitezza di un corpo che cerca di resistere all’ineluttabilità del tempo; da questo presupposto parte la riflessione del poeta Tommaso Romano, che rivolge il suo sguardo alla realtà che lo circonda per abbandonarsi all'ispirazione, lasciandosi cogliere e trasportare da essa.

“ … né sogno né ebbrezza,/sovviene qualche ricordo/pochi volti e voci e labili accenni/che si diluiscono stanchi/senza menzogneri restauri/di vivezza presunta./

Il poeta diventa così unico possibile cantore della realtà, che nella sua complessità non può essere descritta dalla voce dell'uomo comune, ma solo da quella, ispirata ed elevata dalle contingenze, del poeta. Una silloge poetica che nasce da una forte esigenza: quella di mettere a nudo ciò che l'esistenza offre in ogni suo frangente, partendo dal reale per indagare il rapporto tra l'uomo e il mondo che lo circonda.

Noi  che vivemmo di radici/ e le sentimmo gemere/fra indifferenza e fuoco impuro/…/a noi che chiamammo verde il verde/…/non restano neppure/gli anfratti dei solchi/sradicati/ e vaghiamo con fievole speranza/alla ricerca risanante/di sementi al vento.”

L’oblio è parte della nostra natura e ha effetti decisivi sulla natura della realtà. Un evento non può essere preservato senza uno sforzo di mantenimento, così il nostro passato è fatto di ciò che è stato preservato, la nostra storia e ogni sua parte è tutto ciò che si è potuto salvare da un naufragio.

Il cumulo di fatti, eventi e canali attraverso i quali circola l’informazione e anche i documenti – è condannato, attraverso l’oblio, a non essere. Invece, nell’oltre l’oblio della voce si pone l’accento sul pensiero che i versi dei poeti esulano dal vero e proprio flatus vocis dell’uomo, poiché sono immortali.

Il principio di sicurezza esige un orientamento nel tempo, un’organizzazione delle sue latitudini, una disciplina dell’immaginario, una classificazione dei frammenti del passato, sotto forma di ricordi, tracce, rilievi, per disegnare mappe e topiche in cui si eserciti il nostro potere di saltare nel passato, installarsi nei suoi livelli, catturarlo, e ricondurne alla coscienza immagini e segni.

È lo esprime bene il nostro nei suoi versi:

Quella notte/d’un secolo fa/o d’un attimo infinito/torna impetuosa/e lieve/raggelando tepori non effimeri/segni sfiorati appena/…/Ma certezza è rammemorare/ciò che pure resta/oltre, ben oltre …”

Sembra che il pensiero occidentale, da Platone in poi, non sappia muoversi al di fuori dell’anamnesi e che il desiderio di ricordare risponda ad un’esigenza profonda di sicurezza.

Guardando gli orologi/dismessi volutamente/e non ricaricabili,/comprendiamo l’attesa/senza altro più che un barlume,/impercettibile/…/Non muterà il corso delle ore/ma potrà mostrarsi/ l’Immagine, almeno,/di ciò che agognammo.”

Ammoniva già Eraclito, non si debbono mai ascoltare le parole dette, ma la Parola che in esse si ri-vela, come ciò che viene dalla luce amando nascondersi. C’è chi ha chiamato Inconscio questa Parola che risuona nel buio del non-detto; certo è che la sua situazione di pienezza e di fecondità nella non-dicibilità, trova esplicita rispondenza nella terrifica alterità un tempo riconosciuta al Sacro, luogo impraticabile perché le tremende forze della vita avrebbero trascinato l’imprudente oltre le rassicuranti parentesi dell’esistenza umana.

E non consola la polvere/né l’umido calore/né il gelo/e neppure il tepore rapido, dura./Flebili o rocciose scorze,/consegnate al Mistero,/passano.”

Incisi, sentenze,/brevi frasi/condensati di sapienza/e di insipienza./Metafore per non dire/immagini per non velare/…/a nascondere/ il tempo che si consuma/fra consuetudini … /che neppure pagine annullano./Il silenzio di una notte/annuncia già/lo stridore/dell’assenza.”

Memoria che conferisce profondità interiore all’ “evento” collocandolo in un momento qualsiasi delle storia del soggetto o dell’oggetto poetico: e qui è tutta la libertà del poeta T. Romano che, passando (o volando) da un tempo all’altro, crea un tessuto quasi tridimensionale e, in tal modo, dilata anche lo “spazio interno” in cui si pone la ricerca poetica.

L’uomo moderno dovrà fare i conti con se stesso, abituarsi all’idea di non poter più abitare alcuna distanza, il mondo è diventato troppo vasto e incomprensibile e inabitabile e la memoria, quel fragile vascello con i suoi marinai sperduti nel gurgite vasto, si è inabissata nel fondo del mare.

Ora che ogni sensazione/frase gettata fra le altre/fiore che già appassisce/sembra farsi unica/consolatoria/occasione occupante/possibile,/non resta/che il turno dell’attesa/all’improvvisa chiamata/da un lontano/megafono invisibile,…/

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