Giovanni Pascoli: il poeta-bambino in simbiosi con la natura – di Ferdinando Bergamaschi

Se Gabriele D’Annunzio fu il poeta-soldato che portò la creatività del fanciullo verso l’esterno, consacrandone la sua “estroversione”,  esternando le pulsioni più radicali della vita nelle modalità della fantasia e del coraggio italici, Giovanni Pascoli, all’incirca negli stessi anni, è stato colui che meglio di tutti ha cantato l’ “introversione” del poeta. Egli, con la sua poesia, ci ha riconsegnato, dopo averlo vissuto intimamente, il mondo interiore quando esso era in diretto collegamento con la natura, poiché egli, nel mondo poetico e letterario, ha vissuto meglio di tutti nella modernità quell’idillio agreste che ci aveva cantato Virgilio nelle Bucoliche e nelle Georgiche. Ma se Virgilio poteva fare ciò negli anni in cui Augusto vagheggiava una nuova età dell’oro e la sua nostalgia era premonitrice di un ritorno dell’era aurea, Pascoli invece non può contare su questo contesto ottimista intorno a lui: la sua nostalgia è semplicemente la testimonianza di un misticismo della sua anima che è la parola, o forse il pianto, del fanciullino interiore.

Nella sua principale raccolta di poesie, Myricae (da un verso virgiliano delle Bucoliche: “non omnis arbusta iuvant humilesque Myricae”), uscita in prima edizione nel 1891, egli dà voce all’Italia contadina, a campi arati, piante, animali, arnesi da lavoro. E lo fa con una delicatezza che solo chi vive interiormente una spiritualità in armonia con la natura sa fare. Egli possiede l’arte dell’aedo che trasforma le parole in suoni, le frasi in musica: tramite un’operare che potremmo definire una “ricercatezza naturale” delle parole. Poesie come L’assiuolo, Arano, Le lavandare, Novembre sono probabilmente la sua cifra poetica più alta e altresì sono probabilmente la vetta più alta, insieme alla poesia di Ungaretti, della poesia moderna italiana. In questa poesia pascoliana (sia in Myricae, sia nei Canti di Castelvecchio) vige un simbolismo fatto di “corrispondenze” (per usare il termine di Baudelaire) tra natura e uomo che prendono corpo negli odori, nei colori, nei suoni della vita campestre, nei gesti dei contadini e della umile e laboriosa gente dei campi. Un simbolismo che è la traccia esteriore del segreto inviolabile dell’anima e che solo chi è capace di sentire il divino riesce a tradurre in parole, riesce a mediare per gli altri uomini.

Se in Virgilio il microcosmo dell’idillio agreste ha il suo corrispettivo nel macrocosmo di un nuovo ordine politico-sociale – quello della grandezza imperiale di Augusto -, il microcosmo di Pascoli non ha un complementare macrocosmo: esso basta a se stesso, è pura testimonianza poetica, non ha un riflesso nel mondo esterno ma è solo il ripiegamento verso posizioni interne e private. Pascoli è il “piccolo-borghese” dall’anima profonda e delicata, così delicata che il confine tra intimismo e feticismo interiore è davvero labile; in quanto “piccolo-borghese” votato alla spiritualità egli è forse per metà un hobbit tolkeniano a cui manca però tutta l’altra metà: lo spirito festaiolo e gaudente, l’estroversione, l’indole scanzonata e guascona. In Pascoli la dimensione di introversione malinconica non è parziale bensì totalitaria. E in effetti è questa la sua cifra poetica più alta; ben più alta di quella “impegnata” che culminerà nel celebre discorso di Barga “La grande proletaria si è mossa” (1911) con finalità socialistiche-patriottiche-interventiste, nel quale Pascoli si espremirà pubblicamente in favore dell’intervento militare italiano in Libia, affermando che i lavoratori italiani avrebbero trovato nella nazione nord-africana terreni da poter lavorare, anche per risollevare le loro condizioni di vita. Tema, questo dell’Italia come “grande proletaria” che aveva diritto ad una sua espansione anche coloniale, che sarà poi ripreso anche dal fascismo. Ma questo è senz’altro il Pascoli “minore”.

Il Pascoli “maggiore”, invece, è quello che con lo sguardo sempre ingenuo del fanciullino possiede l’arte magica del Poeta: l’immaginazione creativa che, in contatto col mondo spirituale, sa vedere oltre al dato materiale e trasfigura in “oro” le cose più semplici e umili della campagna, come “il sottil tintinno” del pettirosso del suo capolavoro Arano.

 

 

 

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