Francesco Maria Cannella propone un racconto inedito di Claudia Magliozzo

© Copyright by Francesco Maria Cannella 2013: PREMONIZIONE 
(fotografia analogica, 1998) 

 

 

Mentre mia sorella ricamava a tamburo*

 

di Claudia Magliozzo
 
 
Eravamo appena entrati nell'ora in cui il sole procede a solleticare le onde dei teli leggeri e la calura a imprimersi su di essi lasciandoli dritti e sospesi. Le imposte semiaperte lascia­no che le tende si struscino sui vetri allo stesso modo con cui una mano accarezza senza il minimo attrito una superficie. Alla sola vista era possibile percepire il calore del cotone che lentamente avvolgeva ogni cosa. Annoiata e in cerca di qualcosa da fare entrai nel salotto dove Grazia stava lavorando all'uncinetto motivi floreali da applicare alle nuove tende. Mi sdraiai sul pavimento in prossimità della finestra, mi accompagnava ‘una vecchia lettura russa’ e tenendo il segno con l'indice presi a fissare il soffitto che era incorniciato da un sottile rilievo bianco. Ogni tanto, quando si alzava il vento, la tenda mi scorreva sopra la testa e poi ritornava al proprio posto: provai un particolare piacere nel sentirla scivolare delicatamente tra la bocca e il naso; gli occhi iniziarono a chiudersi al levarsi del sole, persi la tensione che mi tratteneva alla lettura e mi abbandonai completamente al placido tepo­re. Il libro dimenticato sul pavimento cambiava lentamente pagina. La corrente d'aria por­tava dentro casa l'odore delle foglie d'estate, del pomodoro rampicante e dei pergolati qua­si carichi di glicine e vite. All'aperto si sentivano gli ultimi vaghi discorsi della gente che rientrava dal mare prima che calasse il sordo silenzio postprandiale. Al pomeriggio, qual­che ora dopo la meridiana, e quando l'ombra lentamente si accinge a sdraiarsi sul suo fian­co destro, le finestre si schiudono mantenendo gli scuri rigorosamente accostati perché le tende accompagnino verso l'interno flussi d'aria meno cocenti; a salvarci erano i marmi freschi. Dalla camera padronale proveniva il respiro assopito della mamma e del papà mentre dal vicinato arrivavano distinte le voci dei bambini che, non ancora sufficientemen­te ebbri di sole, mostravano il gusto di una acerba anarchia rifiutandosi di cedere al son­nellino. Noi restavamo a parlare sdraiate sui mattoni nella penombra del corridoio coi pie­di annoiati all'insù fin tanto che le ore, apparentemente eterne, non scendessero nei primi toni scuri delle stanze. Di solito aspettavo che si facessero le quattro per fare due passi in giardino, ma la calura mi invogliava sovente a desistere così cedevo, puntuale come sem­pre, a una coppa di granita. Mia sorella si divertiva a darmi della “venduta” ogni volta che mi si presentava un dolce davanti e regolarmente non riuscivo a negarglielo e sorridendo le voltavo le spalle. Nel leggero movimento delle foglie si alzava l'odore della resina ancora morbida e dei fiori di oleandro; riuscivo quasi a distinguerne il colore...
 
E mia sorella ricamava a tamburo mentre venne a trovarla una donna con al seguito tre piccoli marmocchi. Dallo sguardo di Grazia intesi subito che avrei dovuto occuparmi di quei tre, così - poco felice della sorpresa e priva di idee - decisi di portarli in giro per il giardino; in fondo era un mio proposito quotidiano concedermi una passeggiata sotto l'ombra degli alberi. Prima di procedere e per rendere più interessante il giro li pregai di non perdersi e di starmi sempre vicino; gli spiegai che in alcune parti la vegetazione sareb­be stata molto alta e che avremmo addirittura potuto non vederci. Captai immediatamente l'attenzione di tutti loro così: un, due, tre... via!! Mentre noi giravamo intorno alla casa, at­traverso il giardino, mi accorsi che le donne non cucivano bensì parlavano, e i toni sembra­vano alquanto dimessi. Per un secondo avvertii lo sconforto di chi si sente privato della propria libertà e deve darsi da fare per un altro po' senza avere idee se non quella di sapere cosa stia succedendo. Mi voltai più volte indietro a cercare lo sguardo di mia sorella, ma i bambini mi sorprendevano invitandomi a fare attenzione ai pericoli della natura. Attonita mi resi conto che ero riuscita in così poco tempo ad ‘addestrarli’ piuttosto bene. Andammo vicino alla recinzione e li portai a raccogliere del glicine per realizzare un profumo naturale per la loro mamma. Quando proposi loro l'idea divennero estremamente euforici e, schia­mazzando, iniziarono a raccogliere più glicine possibile. Nel frattempo mi allontanai per prendere dei vasetti e passai volutamente vicino alle due donne con la speranza di quietare la mia feroce curiosità, tuttavia non immaginavo che me ne sarei pentita... Mia sorella mi chiese di portare dell'acqua mentre la donna piangeva a dirotto, ma non sapevo ancora per cosa. Senza batter ciglio andai a prendere dell'acqua in cucina e gliela portai. Quando fui nuovamente dalle donne la signora si era sforzata di recuperare un certo contegno e pren­dendomi per mano - quasi a volersi giustificare - mi spiegò che suo marito era stato prima ricoverato e poi riportato a casa perché affetto da una malattia terminale. Girai per un se­condo il capo verso i bambini, poi le strinsi più forte le mani per riconoscerle quel senso di gratitudine che genuinamente provava, ma l'unica cosa che fui in grado di dirle in quel momento fu «ci mancherebbe» e mi affrettai a raggiungere i suoi figli...
 
Mi aspettavano, eccome se mi aspettavano: gli avevo promesso un regalo per la loro mamma. Era una promessa davvero importante e nessuno di loro voleva andar via deluso; nell'attesa si erano fatti trovare all'ingresso vicino ad una fontanella, seduti su un muretto, alto quanto una bottiglia, col portamento che in genere assumono gli adulti. Diedi loro i vasetti in cui iniziarono a inserire i boccoli del glicine. Mi piaceva vedere come li entusia­smava il profumo di quei fiori, se ne compiacevano proprio...
 
 
*Editing by Francesco Maria Cannella, 2020.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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