“Dino Buzzati”: torna nelle librerie la monografia di Fausto Gianfranceschi - di Giovanni Sessa

Il volume, curato da Gianfranco de Turris, uno dei massimi studiosi del fantasy, è articolato in due parti di cinque capitoli, ed è chiuso dalla raccolta di tre introduzioni di Gianfranceschi a volumi di Buzzati e da una  Appendice che presenta un’intervista rilasciata dallo scrittore bellunese, poco prima della morte, al curatore
 

Dino Buzzati è uno dei nomi più significativi della letteratura italiana del Novecento. Eppure, la sua figura ha rappresentato, per troppo tempo, un “caso a parte” nelle lettere patrie. Alieno alle mode culturali del tempo in cui visse, discreto per carattere e dotato di un temperamento sognate, fu estraneo al “politicamente corretto” che, fin dagli anni dell’immediato dopoguerra, andava organizzandosi in consorterie intellettuali legate al gran carro della partitocrazia. A rivelarne la genialità scrittoria, si distinse, tra i primi, Fausto Gianfranceschi, intellettuale libero dai condizionamenti del mainstream, in una monografia, comparsa da poco in nuova edizione nel catalogo di Iduna con il titolo, Dino Buzzati (per ordini: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.). Il volume, curato da Gianfranco de Turris, uno dei massimi studiosi del fantasy, è articolato in due parti di cinque capitoli, ed è chiuso dalla raccolta di tre introduzioni di Gianfranceschi a volumi di Buzzati e da una  Appendice che presenta un’intervista rilasciata dallo scrittore bellunese, poco prima della morte, al curatore e dall’intenso “coccodrillo” che de Turris scrisse in occasione della scomparsa del giornalista-scrittore.

Dalla lettura si esce con la ferma convinzione che l’autore del Deserto dei Tartari sia uno scrittore di spessore, assolutamente attuale, nella sua inattualità, anche oggi. La prosa di Gianfranceschi risulta efficace nel concedere al lettore, non solo accesso proficuo alla biografia esteriore del  bellunese, ma anche ai meandri più nascosti della sua complessa psiche. Nella prima parte, il volume si intrattiene sul personaggio Buzzati e presenta un’esegesi organica della sua produzione letteraria. Buzzati, nato a Belluno: «ha tratto due eredità da questa origine: il rigore nordico […] e l’unica passione immutabile della sua vita, quella per la montagna. Sciatore, rocciatore, non ha mai abbandonato questi sport» (p. 17). Attratto dai silenzi alpini e boschivi amò, di un amore profondo, Milano (dove lavorò al Corriere della sera, ricoprendo incarichi disparati): «ne conosce gli angoli segreti e tranquilli, mentre le voci della metropoli lo mantengono in contatto con il dinamismo collettivo» (p. 17). Buzzati, in ogni luogo e circostanza della vita si mantenne in: «attesa del meraviglioso quale inclinazione dell’animo ad accogliere manifestazioni insolite della natura e della realtà umana» (p. 18). Seppe, per questo, elevare l’attività di cronista ad una osservazione attenta dei casi umani, mirata non semplicemente a cogliere  i dati  esteriori in quanto osservato, ma anche la  profondità da essi celata, attestante, in molti casi, la possibilità dell’impossibile: «Il lato favoloso, l’essenza mitica di ogni fenomeno» (p. 18). 

Per questo, i temi e le strutture (analizzati nella seconda parte del volume) che animano la   produzione letteraria buzzatiana sono: «tragici e significativi» (p. 21). La creatività, nel nostro autore, è dominata dalla fantasia, la sua vocazione alla frammentarietà: «dipende dall’urgenza di questa fantasia sempre in moto e sempre avida di macinare una situazione» (p. 22). Lo si evince fin dal primo libro del 1933, Bàrnabo delle montagne, così diverso dalle letteratura del tempo, forse prossimo solo al “realismo magico” di Bontempelli. Le sue pagine evidenziano il lavoro di scandaglio della realtà messo in atto dallo scrittore, teso a dis-velare: «l’irrazionale sotto le strutture apparentemente razionali della vita moderna» (p.24). Buzzati conduce ad ascoltare risonanze vaghe proprie di alcuni particolari del reale che, ai più, appaiono insignificanti. In Bàrnabo, l’elemento magico-favoloso è insinuato in modalità lieve, pudica, mentre erompe prepotentemente nel Segreto del Bosco Vecchio, nel quale la natura recupera appieno la sua animazione principiale. Nella physis tutto pensa, come seppe la tradizione ermetica, in quanto “tutto è in tutto”. La vocazione della letteratura buzzatiana, per Gianfranceschi, è essenzialmente “religiosa”. L’apprensione moderna alla natura è impersonata, nel Segreto, dall’aridità del Colonnello, incapace di cogliere l’invisibile nei fenomeni.

Solo con Deserto dei Tartari, lo scrittore conseguì vasta notorietà. L’attesa di Drogo testimonia che l’eterno coincide con l’attimo immenso, rivelatore dell’essenza profonda della vita. Buzzati ci pone di fronte a una meditazione della morte che, a ben vedere, è meditazione attorno alla temporalità aperta. Drogo è: «l’eroe coinvolto in un’irriducibile tensione: assorbito dalla routine […] attratto dall’altra nella cerchia dei pochissimi che guardano più in alto verso il “grande evento”, verso l’illuminazione» (p. 47). Con, Sessanta racconti, tale visione consegue tratto compiuto: «il mondo dei morti si sovrappone a quello dei vivi […] nelle delicate favole L’assalto al grande coniglio Il Mantello» (p. 50). Lo scrittore indica la via che rende possibile liberarsi dall’inganno “retorico”, avrebbe chiosato Michelstaedter, del tempo. Per sfuggire alle sue maglie non bastono i progetti spensierati imbastiti, per tutti, dalla “società dei consumi”. Essi, al massimo, possono indurre, visto il loro inevitabile fallimento, ad insediare gli uomini nel nostos, nella nostalgia. Il bellunese è animato da “carità” nei confronti delle cose della vita. Tale atteggiamento lo rende edotto del fatto che il “risveglio “ è possibile. La vita stessa è appesa alla dimensione originaria della possibilità. I   protagonisti dei racconti buzzatiani sconfiggono le perfidie e le delusioni della vita. L’amore, forza cosmica, rende il miracolo possibile. Il suo magismo letterario mira a  rilevare: «le trasmutazioni fra paesaggio, cose, eventi, immagini ed emozioni » (p. 151).

Per tale ragione, il presunto kafkismo di Buzzati: «si risolve nel rinvio a modelli ispiratori dislocati in un passato molto profondo» (p. 162), a modelli archetipici e mitici, e il suo mondo può esprimersi solo in modalità immaginale. La visione del Nostro ha un precedente illustre nella pittura di Bosch, nella sua figuratività (non casualmente lo scrittore è stato anche valente pittore) che ha: «tratti insieme umani, bestiali ed è ripresa dal mondo degli oggetti dove si nota la profusione di realismo e il pervadente desiderio di esprimere l’immateriale» (p. 149). Il Buzzati di Gianfranceschi va letto quale antidoto alla visione moderna della vita. Dino Buzzati è libro, per dirla con de Turris, esemplare. Induce a pensare un mondo diverso rispetto a quello in cui viviamo, in quanto è latore della possibilità dell’impossibile.  

da: barbadillo.it

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