Corrado Calabrò, "L’altro" (Ed. Thule) - di Nicola Prebenna

Non sempre allo spessore del libro corrisponde la qualità del contenuto o la chiara positività del messaggio; accade spesso che testi agili, condensati, essenziali rivelino tesori nascosti, a prima vista insospettati. E tale è la disvelatura della plaquette L’Altro che il poeta Corrado Calabrò ha da poco affidato alle stampe. Essa comprende 25 componimenti che, pur essendo ciascuno conchiuso nella sua autonoma sfera espressiva, concorrono insieme a tessere la tela di un discorso complesso, articolato, che si fa espressione delle ragioni dell’impegno poetico dell’autore e ne costituisce la sintesi, il succo che l’esperienza di vita e d’arte ha sedimentato nell’animo e sulla pagina scritta. I componimenti sono per la maggior parte stati scritti negli ultimi due anni ed in essi s’incuneano alcuni risalenti ad anni anteriori ma il cui contenuto si intreccia positivamente con gli altri. A nostro avviso, nei 25 testi della plaquette troviamo sintetizzate le coordinate del rapporto tra l’autore e l’esistenza e tra lui e la scrittura. Nel componimento eponimo che dà anche il titolo alla plaquette, L’altro, il poeta esprime la sorpresa nell’avvertirsi diverso, altro, rispetto alla percezione che normalmente ha di sé e ciò ci spinge alla consapevolezza della nostra provvisorietà, come se la nostra essenza si diluisca, si volatilizzi fino a darci la certezza dell’estraneità a noi stessi. “Oh Dio! / e se foss’io un altro da me stesso?”. Non manca nemmeno in questa plaquette un tema costante della poesia di Calabrò, la donna: ne sono testimonianza i componimenti Fattura, Tratteneva il respiro pure il gatto, Dentro lo specchio, dove alberga il sentimento della solitudine profonda, della fuggevole apparenza-presenza, la consapevolezza dell’evanescenza, della fuga. A rendersi volatile non è solo la donna, è il tempo, la vita, il passato come attestato in Day-to-Day: “Viceversa il passato / tutto in una volta se n’è andato”. Nei componimenti della plaquette ritroviamo l’interrogarsi del poeta sul senso della vita, del senso che in essa acquisisce la nostra vita e il dubbio se veramente sia possibile attingere un senso che spieghi il nostro essere al mondo; pare che la conclusione a cui perviene Calabrò non sia una definitiva affermazione di senso, bensì la confessione di un’impotenza, di una incertezza, di dubbio, come ben espresso in una delle ultime intuizioni: “Non mi angoscia la morte, l’ho già vista. / E’ il non senso della nostra esistenza / nell’universo senza scopo …”, atteggiamento ripreso nel componimento-poemetto Roaming, riportato nella plaquette con un passaggio, in cui in un’atmosfera siderea si smarrisce “la distinzione tra provenienza e destinazione”. Unico balsamo per l’animo inquieto che indaga, che si interroga, che cerca, il ricordo o, imparentato con esso, il sogno come espresso nel componimento Onde REM. Mi piace concludere queste brevi note a proposito della plaquette con il riferimento a Mare agitato, che potrebbe in miniatura essere considerata una sintesi del tutto particolare, absit iniuria verbis, dell’Infinito leopardiano, colto nei due momenti, dello spaesamento e dell’incantevole oblio: “Mare agitato / m’inquieta appena entrato // e poi m’acquieta / cullandomi come un neonato”, L’infinito che da astrale si fa distesa d’acqua che dapprima inquieta e poi acqueta. La maneggevolezza della plaquette è un invito ad averla a portata di mano e abbeverarsi di tanto in tanto a un sorso di acqua di fonte che disseti e disponga positivamente al viaggio che rimane.

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