Fisiologia e funzioni della mente, chiavi per l’approccio al mito

di Gianfranco Romagnoli

(ABSTRACT)

   Lo sviluppo della cultura occidentale ha portato ad una netta separazione tra mithos e logos, attribuendo al solo pensiero scientifico l’attitudine ad essere strumento di conoscenza e di progresso e relegando il pensiero mitico al campo pre-scientifico o a-scientifico. Tuttavia le più moderne teorie filosofiche sull’epistemologia hanno rilevato le contraddizioni insite in un tale dommatismo, mentre gli studi antropologici hanno rivalutato il pensiero mitico come non inferiore a quello logico, dal quale si differenzia solo per la diversità dell’oggetto. Una rivalutazione definitiva del pensiero mitico passa attraverso le scienze anatomiche e psicoanalitiche  che, nello studiare la fisiologia del cervello e le sue funzioni, hanno posto in luce come il pensiero mitico-intuitivo giochi un ruolo determinante di stimolo per il progresso del pensiero scientifico-razionale.

 

   Il mito nasce quando gli dèi abitavano ancora sulla terra: intendo dire, quando tutto l’universo era concepito in una dimensione sacrale che, includendo anche l’uomo, costituiva lo strumento a lui naturalmente offerto per la sua com-prensione. A tale sfera, sopra-umana appunto, si volgeva infatti con naturalezza il suo pensiero per cercare di darsi una spiegazione della realtà che lo circondava.

   Non esisteva allora, e non esistette abbastanza a lungo, dagli albori dell’umanità fino, quanto meno, alla ricerca dell’arché da parte dei filosofi presocratici della scuola ionica (parliamo del VI sec. a.C.), un pensiero che potesse definirsi, almeno embrionalmente, scientifico; ma ogni tentativo di  spiegazione dell’universo poggiava sulla mera intuizione, rapportata alla onniincludente atmosfera del sacro e creatrice di miti, pur se se per tale via si raggiungevano non di rado risultati validi, sia pure espressi in maniera simbolica. Basterebbe pensare alle profonde conoscenze astronomiche raggiunte dalle civiltà più antiche, pur nella personificazione quali divinità dei corpi celesti.

   Al pensiero mitico-intuitivo subentrò gradualmente il pensiero filosofico-razionale che, pur senza perdere del tutto il contatto con la sfera sacrale, andò evolvendosi in maniera autonoma, allargando, già a livello della pura speculazione teoretica, i confini della conoscenza.

   L’antinomia mithos-logos è già evidenziata da Platone, il quale peraltro spesso ricorre ai miti non già con supina credenza, ma paradigmaticamente, per spiegare le sue teorie con lo strumento del pensiero logico, di cui asserisce comunque la superiorità. Tuttavia egli, specie nei Dialoghi della maturità, cerca una definizione più articolata dei rapporti tra questi due “opposti”, secondo la quale il mito cerca una chiarificazione nel logos e il logos un completamento nel mito.

   E’ però a partire da Aristotele che tra i due termini del binomio mithos-logos si compie una netta scissione, a seguito della quale il pensiero scientifico procede autonomamente e viene assunto quale unica chiave per la conoscenza della realtà, mentre il mito, per citare Leopardi, è relegato al ruolo di “favole antiche”: viene, cioè, concepito come pensiero primitivo, pre-logico, legato ad una mancanza di capacità e di mezzi logico-espressivi adeguati a sostenere un discorso di tipo scientifico ed operativamente efficace.

  Una tale posizione pregiudiziale è stata massimizzata dal trionfalismo scientista dell’Ottocento e dalla sua fiducia nell’illimitata capacità del pensiero logico di generare un progresso senza fine, in una concezione lineare della storia, contrapposta alla precedente concezione ciclica tuttora rimasta alla base delle filosofie orientali: una concezione lineare che è propria anche del Cristianesimo, ma che alla fideistica meta finale dello stabilirsi del Regno dopo una fase apocalittico-recessiva dell’umanità, sostituisce la fede nella realizzabilità, attraverso il progresso tecnologico e sociale, del paradiso in terra, assunta poi quale contenuto delle concezioni materialistiche e marxiste che hanno occupato tanta parte del ventesimo secolo, non lasciando certo rimpianti, stante la loro inscindibile connessione con forme di governo autoritarie, che la storia ha dimostrato.

   Nel corso del Novecento e varcata ormai anche la soglia del secondo millennio, abbiamo potuto assistere ad uno stupefacente sviluppo esponenziale della scienza e della tecnologia: l’avere oltrepassato, dando attuazione al motto Plus ultra inciso sul basamento della statua di Carlo V in Palermo, i “ristretti” limiti che sin dalla sua comparsa avevano legato l’uomo al suo pianeta, ha contribuito in modo definitivo alla “desacralizzazione” dell’universo. Già Bertolt Brecht nella sua Vita di Galileo, una piéce del 1938-39, parlando delle prime osservazioni al telescopio fatte dallo scienziato pisano, aveva affermato: «Galilei vide che il cielo non c’era»: lo sbarco sulla Luna, poi, ha reso tangibile una verità peraltro già da tempo risaputa, cioè come essa altro non sia, se non un ammasso di rocce, che più non si presta ad alcuna interpretazione mitica o poetica.

   Ci si chiede allora: non rimane dunque che il pensiero logico, a poter essere assunto come strumento esclusivo ed infallibile per la conoscenza della verità, in un esasperato scientismo che comporta un pregiudizialmente ostile gettare via tutto quanto l’ha preceduto o si è sviluppato indipendentemente da esso?

   Vari elementi, provenienti da diverse discipline, inducono a ritenere troppo affrettata una risposta affermativa.

 

   La prima di queste remore proviene dall’evoluzione del pensiero filosofico rispetto alla epistemologia e al rapporto mithos-logos, un tema che è stato trattato da Pietro Palumbo nella conferenza Mito, Scienza, Filosofia tenuta per il Centro Internazionale di Studi sul Mito.[1]

   Deve infatti rilevarsi, innanzitutto, che parallelamente alla descritta, esponenziale crescita di fiducia nel logos sul versante del pensiero scientifico, abbiamo viceversa assistito in anni recenti, sul piano del pensiero filosofico, ad un corrispondente calo della fede nel suo valore assoluto,  come si può riscontrare, per non citare tanti altri, nelle teorie di Richard Rorty e specialmente nel “pensiero debole” di Gianni Vattimo, alla cui base sta l'idea che il pensiero non è in grado di conoscere l'essere e quindi non può neppure individuare valori oggettivi e validi per tutti gli uomini. Secondo questa prospettiva i valori tradizionali sarebbero diventati tali solo a causa di precise condizioni storiche che oggi non sussistono più, per cui deve essere messa in crisi la loro pretesa di verità e vanno ripensate profondamente tutte le nozioni che erano servite da fondamento alla civiltà occidentale in ogni campo della cultura.

   Senza troppo addentrarci nella moderna epistemologia filosofica, si può notare come da essa, in linea generale, emerga l’esigenza di non fare del pensiero logico l’unica via alla conoscenza, tenuto conto da un lato dei suoi limiti e, d’altro lato, della caratterizzazione del pensiero mitico che, secondo Ernest Cassirer, è un pensiero umanizzante tutt’altro che illogico e particolarmente incline alla spiegazione causale. Più vicino a noi, Lévi-Strauss, nel suo rifiuto del concetto di “primitivo”, sostiene che la logica del pensiero mitico è altrettanto esigente di quella del pensiero scientifico strutturatosi nell’Occidente e che, dunque, la differenza non riguarda «tanto la qualità delle operazioni intellettuali quanto la natura delle cose su cui tali operazioni vertono», concludendo: «Forse un giorno scopriremo che è la stessa logica a funzionare nel pensiero mitico come nel pensiero scientifico, e che l’uomo ha sempre pensato altrettanto bene».[2]  

   Tutto ciò premesso, la domanda da porsi diventa questa: esiste veramente tra questi strumenti di conoscenza, l’intuizione e il pensiero scientifico, una contrapposizione, una incompatibilità così netta, da far eleggere a strumento esclusivo di indagine la scienza, con esclusione assoluta e totale del mito? Oppure è possibile ed auspicabile, ed entro quali limiti, una integrazione tra pensiero mitico e pensiero scientifico nella ricerca della “verità”? (viene in mente Pilato: «Che cos’è la verità?» in Gv. 18, 38).  

 

   Oltre alle risposte date sul piano teoretico dalla filosofia e dall’antropologia, alle quali si è accennato, una conferma alla possibilità di integrazione tra mithos e logos  può venire dalla fisiologia della mente e dei suoi processi.

   La scienza, invero, si basa attualmente su una prospettiva exofisica, cioè sullo studio della realtà che ci circonda per quale essa è, prescindendo dal fattore umano: essa peraltro, negli studi portati avanti in tempi più recenti da Rosolino Buccheri e Marina Alfano e compendiati anche in una conferenza tenuta per il Centro Internazionale di Studi sul Mito,[3] costituisce un limite e va sostituita da una prospettiva endofisica, che ponga cioè al centro del processo conoscitivo l’uomo e i suoi processi mentali come risultano stimolati dall’ambiente esterno, senza con ciò cadere nelle teorie del soggettivismo della conoscenza, contrapposte alla possibilità di una conoscenza oggettiva.

   Da detta nuova prospettiva di studio, pur se centrata dai due suddetti studiosi, in modo particolare, sugli stimoli auditivi in genere e musicali in ispecie, trarremo alcuni concetti generali, utili per dare una risposta al nostro quesito.

   E’ noto che il cervello umano è diviso in due emisferi, ciascuno dei quali presiede a funzioni diverse. Elkhonon Goldberg afferma che i neuropsicologi evolutivi concordano nel ritenere che l’emisfero sinistro è responsabile della maggior parte dei processi basati sul riconoscimento di modelli, sia quelli che coinvolgono il linguaggio, sia quelli che non lo coinvolgono; mentre l’emisfero destro ha un ruolo importante nella percezione delle “novità”, specialmente nelle prime fasi della vita quando l’arsenale di modelli pronti all’uso è ancora limitato e l’ambiente esterno con le sue immagini “impatta” direttamente sulle funzioni cerebrali, salvo il trasferimento all’emisfero sinistro quando il modello, attraverso la ripetizione dell’imagine, si sia formato e sia pronto ad esse riconosciuto.

   In altre parole, e semplificando al massimo l’enunciato anche a scapito della sua esattezza, l’emisfero cerebrale destro è legato alla percezione intuitiva di quanto dall’esterno influenza l’organismo e come tale è alla base della creatività, mentre quello sinistro è preposto alla funzione logico-associativa.

   Quanto detto costituisce un riferimento essenziale per la comprensione delle dinamiche interattive che si sviluppano fra l’uomo e l’ambiente, anche in funzione del recupero di alcune preziosissime informazioni che l’umanità ha depositato, nel corso del suo processo evolutivo, sotto il velame dei simboli e delle allegorie, di cui sono indistricabilmente intessute sia la cultura mitica, sia le alte vette della speculazione teologica. Un tale “recupero dell’anima mitica” è indicato dal filosofo praghese Kurt Übner quale obiettivo primario per il riequilibrio dell’anima umana, pena la sua progressiva desertificazione. Appare d’altronde evidente che la attuale rimozione delle figure simboliche  mediante le quali l’umanità ha cercato di dialogare con il suo fondo oscuro, non è a favore del logos, bensì della sua autodistruzione mediante l’erosione delle fondamenta, anche mitiche, della nostra civiltà, posto che, a dispetto dell’illusione dell’uomo razionalista di poter concentrare la conoscenza nel solo proprio pugno, detta esigenza di dialogo risulta insopprimibile e quanto è stato incautamente rimosso viene spesso supplito mediante il ricorso alla droga o a stravaganti dottrine.

   Invero, la dualità di fondo dei dispositivi neuroanatomici compendiati nei due emisferi cerebrali, non gioca assolutamente un ruolo negativo, ma è tanto più funzionale alla produzione di nuova conoscenza, quanto più l’uomo è in grado di cogliere e sfruttare il differenziale di carica tra i due emisferi che si manifesta attraverso un continuo scambio di informazioni.

   Ogni irrigidimento di schemi mentali che non riesca ad avvalersi  fruttuosamente del contributo di situazioni nuove, non ancora strutturate in modelli, inibisce la creatività, provocando uno stallo nella produzione di nuova conoscenza. In altre parole, la conoscenza legata al solo esercizio della funzione logica come pretende apoditticamente l’imperante schema scientista, incontra, a un certo punto della ricerca, un limite che non può valicare se non attraverso l’intuizione, base di ogni scoperta e progresso, da verificare ovviamente alla luce della scienza per giungere ad una conoscenza oggettiva, conseguibile secondo le teorie di Karl Popper soltanto nel tempo attraverso approssimazioni progressive. Ne deriva che quanto più le varie aree cerebrali costituiscono un sistema integrato e cooperante di attività neurale sincronica indotta dall’ambiente esterno, tanto più viene ottimizzata la capacità di produrre nuova conoscenza.

   L’attuale atteggiamento dommatico del pensiero scientifico è stato raggiunto dopo un processo evolutivo di progressivo distanziamento da uno stato di indifferenziazione, il cui esito finale è stato il prevalere della ratio sul  mithos, al fine dell’ottimizzazione di un sistema che garantisse il pieno dominio dell’uomo sull’ambiente, a scapito però della sua capacità di apertura all’esterno. E, tuttavia, sono proprio le strategie percettive delle forme di conoscenza prelogica e quantitativa - tipiche dell’infanzia dell’uomo, ma ancor oggi valide per tutte le attività creative - ad avere aperto la strada all’evoluzione.

   Come il mito narra e la storia conferma, ogni qualvolta si stabilisce l’imperativo di un unico punto di vista, questo aliena il soggetto dall’oggetto ed aliena entrambi da se stessi e dal Tempo, sostituendo i contenuti  vitali connessi al movimento e alla mutazione con una Weltanschauung pregiudiziale, insuffuciente, dopo tutto, anche all’economia di colui che ne è affetto e coattivamente esportata perfino all’intorno, in una prospettiva potenzialmente violenta per il suo basso contenuto empatetico e la sua improbabile creatività, ed è quindi conservazione e mera utilizzazione di ciò che è stato edificato da altri.

   Da queste e da altre più ampie argomentazioni, i due studiosi Buccheri e Alfano concludono:

 

   Se non saremo capaci di riconoscere una concreta possibilità di fuga dall’inquietante associazione fra ratio e assenza di interazione, di fatto così aprioristicamente acquattatasi tra le pieghe del pensiero scientifico, l’aporia del paradossale cortocircuito consistente nel logos (la scienza) che scopre il non-logos (l’irrazionalità) attraverso il logos (la razionalità) comunicandolo con il logos (il linguaggio apofantico [=dichiarativo]) ci lascerà scarsi margini per il superamento dello stallo in cui la conoscenza è caduta ormai da troppo tempo.

 

   Lo studio dell’immenso deposito culturale del mito dovrebbe, pertanto, essere basato su una consapevole purificazione della pregiudiziale attribuzione ad esso della qualificazione di pre-scientificità, o addirittura a-scientificità datagli al fine di autolegittimare la razionalità occidentale, e fondarsi piuttosto sull’interpretazione del mito come un processo di progressiva corporificazione del logos.

 

   Abbiamo sinora visto il ruolo, tuttora attuale ed importante, che il pensiero mitico svolge pur nel quadro di una società tecnologicamente avanzata e che ha assunto - in genere pregiudizialmente - il pensiero logico come unico strumento capace di assicurare una corretta interpretazione della fenomenologia naturale ed un progresso tendenzialmente infinito, laddove invece, come abbiamo visto, l’assunzione di tale schema in maniera rigida ed assolutistica, con il parallelo mancato riconoscimento del ruolo dell’intuizione nella quale il pensiero mitico si sostanzia, impedisce ogni reale progresso di una scienza che rimane ancorata tenacemente alle acquisizioni del passato, senza riconoscere che trattasi di verità valide solo in un determinato periodo storico, come la teoria del “pensiero debole” ha evidenziato.

   Dal rapido excursus compiuto, abbiamo potuto constatare come il mito, per sua natura, si presti ad uno studio multidisciplinare - altro segno della sua vitalità ed attualità - che attraverso diversi punti e metodologie d’approccio non escludentisi a vicenda ma perfettamente integrabili e che chiamano in causa gli sviluppi attuali delle rispettive scienze, consente una corretta lettura del pensiero mitico.

    Le discipline sotto il cui angolo visuale il problema è stato finora sommariamente esaminato sono state la filosofia, la sociologia, la fisiologia.

    Rimane, in questa che altro non vuol essere se non una panoramica, da fare un rapido cenno al mito considerato dal punto di vista della psicanalisi, una scienza moderna che con il tema appena svolto della fisiologia del cervello, ha in comune il fatto di rivolgersi a funzioni della mente,  appartenenti alla sfera dell’inconscio.

    Il legame tra mito e psicanalisi si basa sul concetto di archetipo: un tema trattato in più occasioni dal Centro Internazionale di Studi sul Mito che vi ha dedicato giornate di studi e convegni, i cui materiali sono stati raccolti in un e-book presente sul sito del Centro stesso.

    Karl Gustav Jung, nella ricerca del quale gli archetipi svolgono un ruolo basilare, li ha definiti “resti arcaici” della memoria nascosta, primitiva o “ancestrale”: resti che tendono a riemergere in particolari condizioni di sonno o, come chiarito dalla ricerca successiva, specialmente da Karl Kerenyi, anche di veglia. Tali “resti” si ritrovano invero identici presso tutti i popoli, anche se distanti e privi di contatti tra loro: basti pensare al mito del Diluvio nel Vecchio e nel Nuovo Mondo.

   La vastità dell’argomento sconsiglia di inoltrarvisi in considerazione dei limiti di questo contributo: pertanto, oltre a rimandare ai pregevoli interventi svolti nelle dette occasioni da Alessandro Aiardi,[4] segnalo una buona sintesi che può rinvenirsi nella conferenza Pensiero mitico e dimensione archetipica, tenuta per il Centro stesso da Vincenzo Guzzo, dalla quale cito[5]:

 

   Di grande rilievo … è … il rapporto tra il pensiero mitico e la dimensione archetipica, ossia gli ambiti in cui avviene tutto ciò che ricade sotto la potenza degli archetipi, di queste numeniche energie che da Platone alla moderna psicologia del profondo, vengono rappresentate come forme ideali o immagini primordiali. 

   Di immensa importanza è stato il contributo di Carl Gustav Jung e dei suoi seguaci. Ci hanno dimostrato che le qualità e le funzioni della psiche umana, individuale e collettiva, sono in stretto rapporto con la dimensione archetipica. Il pensiero mitico, con il maturare del linguaggio e della  capacità di tradurre le intuizioni simboliche in modalità narrative dai contenuti aperti, fu alla base di un passaggio fondamentale della crescita psicologica che condusse, da varie forme di determinismo, all’idea di responsabilità. 

   Questo tipo di riflessione ci viene oggi proposta dagli studi più avanzati sul piano della psicologia del profondo ed in particolare dai numerosi contributi del grande  e compianto filosofo junghiano, James Hillman, del cui notevole valore ci si renderà sempre più conto nei prossimi anni.

 

CONCLUSIONI

 

   L’uomo racchiude in sé un universo, o meglio è egli stesso un universo nel quale convergono i dati sensibili e quelli extrasensibili, il pensiero scientifico ma anche quello mitico e religioso: in tale senso, esattamente gli antichi avevano percepito l’unità inscindibile tra creato e creatura umana, le cui funzioni cerebrali, specialmente quelle inconscie, al di là delle spiegazioni meccanicistiche costituiscono un mistero atto a restaurare la primitiva sacralità di una siffatta concezione. Ridurre l’uomo alla sola dimensione logica, amputando tutto ciò che non vi rientra, è una deminutio  di carattere violento che, prescindendo dai facili trionfalismi scientisti e dall’imperare del nuovo idolum tribus denominato “politicamente corretto”, è da ritenersi la principale responsabile del cadere del senso morale e della stessa, pur ipocritamente esaltata, socialità, cui assistiamo ai nostri giorni.

        

         

    

 

[1] P. PALUMBO: Mito, Scienza, Filosofia in Gli aspetti del Mito, 2010 Palermo, Carlo Saladino Editore, pp. 49-67.

[2] C. LÉVI-STRAUSS  Antropologia strutturale, tr. It. di P. Caruso, 1966 Milano, Mondadori, pp.258-59  

[3] M.ALFANO – R. BUCCHERI L’energia creativa dell’oscillazione polare fra mito e scienza in I mille volti del Mito, 2009 Palermo, Carlo Saladino Editore, pp. 97-131

[4] A. AIARDI Alcune considerazioni sul concetto di archetipi   in Gli Archetipi , e-book 2010 Palermo, www.centrointernazionalestudisulmito.com, pp. 3-11

[5] V. GUZZO Pensiero mitico e dimensione archetipica  in Miti e altri miti, 2012 Palermo, Carlo Saladino Editore, p. 72

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* Prefetto, Vicepresidente e Delegato per la Sicilia del Centro Internazionale di Studi sul Mito

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