“Nell’era degli influencer mancano idee ed esempi per sopravvivere” di Mario Bozzi Sentieri

Una volta, giusto qualche decennio fa, erano le “grandi firme” del giornalismo a “fare comunicazione” ed “opinione”. Nomi come   Indro Montanelli, Oriana Fallaci, Gianni Brera, Pier Paolo Pasolini, Enzo Biagi, Giorgio Bocca hanno punteggiato la Storia culturale dell’Italia del dopoguerra. Prima di quella generazione, avevano lasciato il segno – tra i tanti - Giovanni Amendola, Luigi Barzini junior, Giovanni Ansaldo, Enrico Mattei, Vittorio Zincone, Leo Longanesi, Mario Pannunzio, Vittorio Gorresio. Era un giornalismo provocatorio, ma “riflessivo”, attento alle notizie, ma permeato di una cultura umanistica in grado di “formare” non solo le classi dirigenti, ma la più vasta cultura popolare, attraverso giornali e periodici d’opinione. A destra e a sinistra. Pensiamo a testate come Candido, il Mondo, il Borghese, L’Espresso, con la loro capacità di “fissare” idee-guida e di alimentare le opinioni diffuse di intere generazioni.
A partire dagli Anni Sessanta il medium televisivo, nel mix tra parola e immagini, ha creato una prima cesura rispetto al passato, seppure in continuità con il giornalismo scritto. In video a vincere è stato il messaggio semplificatorio. I tempi sono diventati rapidi. Le analisi sintetiche. Secondo Hans-Georg Gadamer l’avvento della televisione ha segnato “la fine dell’esperienza del dialogo” e, forse, la fine della scuola come confronto delle generazioni.
Oggi, nell’Era del web, a trionfare sono gli influencer, con la loro capacità di orientare le scelte degli utenti, consumatori, ma non solo. Rispetto al passato il potere delle opinioni si è ribaltato: ieri i media “formavano” gli opinion leader e quindi si facevano opinione diffusa e di massa, oggi il popolo della Rete interagisce con gli influencer, in essi si riconosce, li alimenta.  Fino al punto da creare, dal nulla, vere e proprie icone collettive.
Un esempio emblematico, tra i tanti. A ridosso di Ferragosto si è spento per un infarto Omar Palermo. A molti dirà poco, in realtà Omar Palermo è stato una star del Web con il suo canale “Youtubo anche io”. I video di Omar Palermo contavano oltre 66 milioni di visualizzazioni, per un totale di 570mila iscritti, fan di Omar, peso oltre 100 kg, impegnato in “epiche” performance pantagrueliche (40 merendine più un pollo intero; un kg di tiramisù più il solito pollo; 10 bomboloni alla marmellata). Il personaggio – da quel che si dice – era pacato, riservato, perfino introverso. Niente a che fare – sia chiaro – con i furbeschi influencer “commerciali” che impazzano in Rete, sponsorizzando prodotti  alla moda. Ciò che lascia frastornati è la capacità di “fare tendenza” che questo “personaggio”, come tanti altri, riescono ad avere rispetto ad un’opinione pubblica in cerca di riferimenti, di suggestioni, di “esempi”. È il merchandising “culturale” a fare tendenza, sciatto ed omologante, egalitario e con l’unica speranza di apparire, di “fare notizia”, nel nome di quello che viene definito il “ground zero” dei social, dove non esistono filtri e a dominare la scena sono gli spaccati di vita reale. Senza mediazioni, senza approfondimenti, soprattutto senza grandi prospettive, se non quella di “apparire”.
E qui il cerchio si chiude, proprio in ragione della mancanza di una comunicazione “alta” e “formativa”, qual era propria del giornalismo tradizionale, oggi sopravanzato da una comunicazione sregolata. Come ha notato Gianfranco Amato su “La Nuova Bussola Quotidiana” (“Un appello agli intellettuali: svegliate l'Italia!”)  l'incultura è una caratteristica del nostro tempo, lo si nota anche dalla sciatteria lessicale con cui si esprimono gli stessi vertici dello Stato. È evidente nell’incapacità delle classi dirigenti di essere esempio e volano di idee ricostruttive, mentre la classe intellettuale preferisce essere asservita, cavalcando il conformismo.
Il medium insomma ha divorato il messaggio. Il rischio è che non ci restino che i bomboloni alla marmellata, giusto per restare in tema di performance pantagrueliche.
 
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