“Ma quale “patriarcato”, abbiamo bisogno di figure paterne” di Domenico Bonvegna

In questi giorni dopo l'assassinio della povera Giulia Cecchettin abbiamo ascoltato e letto un profluvio di commenti, alcuni aberranti a cominciare dai sinistri che son partiti lancia in resta per combattere la “crociata” contro il patriarcato e i maschi sempre e comunque selvaggi. Ha cominciato la stessa sorella di Giulia, che invece di chiudersi nel dolore ha lanciato una specie di appello generico accusando tutti i maschi di patriarcato. Certamente le sue parole sono musica per le orecchie di una certa sinistra, che voleva sentire proprio questo. A proposito come mai non abbiamo sentito  una parola, una manifestazione contro quel cattivo “patriarcato” all'interno delle comunità islamiche che ha fatto fuori la povera Saman e tante altre donne? Un'altra dichiarazione è quella del Ministro Antonio Tajani, che ha purtroppo debordato (sempre se l'abbia pronunciata). Di fronte alla mattanza di donne, vittime della follia degli uomini. “Come uomo chiedo scusa a tutte le donne, a cominciare da mia moglie e da mia figlia per quello che fanno gli uomini”.

Ho letto diversi commenti, ne prendo qualcuno tra i più significativi. A cominciare da quello di don Antonello Lapicca è intervenuto su fb con una interessante nota cogliendo alla radice la vera questione: “L'odio per il patriarcato è l'odio mascherato verso Dio Padre. La follia di questa società che, eliminando Dio padre e con lui il padre, pretende di instaurare una fraternità di rivoluzionaria memoria, libera ed egalitaria. Ma senza Dio Padre gli uomini si trasformano in fratellastri di menzogna, senza identità, orfani condannati a mendicare vita gli uni dagli altri, senza mai saziare la fame inestinguibile d'amore”. Continua don Antonello: “È questa una generazione che sorge dalla più grave delle mancanze, figlia del taglio violento con il proprio Padre, fonte unica di vita e amore”.

Sullo stesso tema è intervenuto padre Francesco Solazzo, che fa un elogio dell'ambiente patriarcale, dove lui è cresciuto. Senza giri di parole scrive:“A questi criminali, manca proprio il patriarcato (quello vero e genuino, non la caricatura di cui si parla in questi giorni). Questi criminali sono stati educati dai media, dai giornali, dai film: è questa la realtà. Sono stati educati a pensare che ogni capriccio è diritto, che è bello essere guidati unicamente dal ventre e dai genitali. Un esempio celebre è quello di Alessandro Serenelli che uccise S. Maria Goretti: quando molti anni dopo l'evento funesto ebbe cambiato realmente vita e uscì dal carcere, fu egli stesso ad ammettere che furono i cattivi giornali e i cattivi libri ad averlo abbrutito fino al punto di arrivare ad accoltellare una bambina che non si piegava a ai suoi insani desideri.

Quindi, cari amici giornalisti, registi, attori e strimpellatori d'ogni genere, non colpevolizzate il patriarcato, perché i colpevoli siete voi. Io non sono Filippo Turetta, perché Filippo Turetta è opera vostra”.

Infine un altro intervento meritevole di attenzione è quello di Massimo Gandolfini, dottore  in neurochirurgia e presidente del Family Day, pubblicato dal quotidiano “La Verità” (L'uomo ha cancellato Dio dalla sua vita. Così qualsiasi dolore diventa violenza, 22.11.23) Certo di fronte a un fatto di morte così dolorosissimo, dovremmo fare silenzio e pregare. Ma non basta, segue la naturale ricerca del perché, per tentare di dare risposte a tanta disumanità. Tutti si interrogano e avanzano spiegazioni di ogni genere, ma spesso si ripete, “per l’ennesima volta, un copione che, purtroppo, abbiamo detto e ascoltato ad ogni tragico appuntamento”. Neanche Gandolfini ha la pretesa di esaurire il problema, è d'accordo sulle “pene più dure, di norme giuridiche di prevenzione più stringenti, di programmi di educazione scolastica e culturale incentrati sul tema della violenza di genere: tutto vero, tutto importante, tutto necessario”. Ma queste sono misure parziali, occorre fare uno sforzo di analisi della “condizione morale in cui tutti noi, oggi, viviamo”. Esiste una cultura diffusa” che caratterizza questo nostro tempo il terreno fertile dove allignano e si sviluppano odio e violenza. Di genere e non di genere, perché la radice è unica. Una “cultura diffusa”, trasmessa dallo strapotere delle agenzie della comunicazione di massa, che sta condizionando e rimodellando la nostra “coscienza comune”, imponendo che ogni valore assoluto di riferimento debba essere riletto, manipolato, decostruito,[...]”. Pertanto, per Gandolfini, se questa è la situazione, di fondo, “appare molto parziale e semplicistico prendersela solo con le famiglie e con l’educazione scolastica, con il “patriarcato” e la cultura sessista: se pensiamo a Caivano può essere così, ma se pensiamo a Filippo Turetta, cresciuto in ambiente familiare ed educativo ottimi, i conti non tornano”.

E' indispensabile una riflessione più profonda: “chi e che cosa ha così tragicamente manipolato le coscienze, le menti, i pensieri, i sentimenti di quelle povere “brave persone”? Tentare una risposta è doveroso, anche se scomodo, difficile, anche doloroso e, soprattutto, non politicamente corretto: perché si tratta di avere il coraggio di dire che l’aver cancellato Dio dalla storia dell’uomo, l’aver costruito e deificato un “superuomo” cittadino di un nuovo umanesimo che può fare a meno di Dio, ponendolo al centro dell’universo, “etsi Deus non daretur”, sta provocando la perdita della dimensione umana, di creatura, che riconosce valori e norme iscritte nella legge naturale, che l’uomo stesso non si è dato, ma che deve imparare a conoscere e servire”.

Pertanto in una società così delineata, tutto è possibile, fruibile, addirittura lecito, al fine di ottenere felicità, soddisfazione, appagamento o, almeno, lenimento del dolore. La cultura della felicità ad ogni costo, la cui cifra fondamentale è la negazione di ogni senso e significato del dolore e della sofferenza, fisica e spirituale – coniugata con la visione di un uomo infinitamente potente, dotato di libertà assoluta e pieno possessore dei suoi diritti – sta producendo la società dell’ “homo homini lupus”(Plauto), l’unica soluzione diventa la cancellazione del dolore, con la droga, il suicidio, l’eutanasia fino all’omicidio”.

Continua Gandolfini, pertanto,“Amore e odio, nel cuore dell’uomo, sono sentimenti fortissimi perché strutturanti la vita stessa, e la linea di separazione fra i due è terribilmente fragile, al punto che assai spesso il primo si trasforma nel secondo. Così l’amore – parola vergognosamente manipolata tanto da diventare possesso per la soddisfazione personale, basta guardare fiction, telenovelas, pubblicità, slogan mediatici, con corpi trattati come pupazzi per il godimento – scompare nel suo significato originale di donazione per la felicità dell’amato, e diventa solo capriccio e piacere, potendosi trasformare in ’odio violento quando l’altro non corrisponde, rifiuta e si allontana”.

L'unica via d'uscita per il professore  “è quella di ritornare a Colui che duemila anni fa ci aveva indicato il fondamento della vita comune “Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amato”. Occorre tornare a Gesù Cristo.

All'inizio del mio intervento avevo fatto riferimento all’assenza del padre nel compito educativo in famiglia. Il tema viene affrontato in un interessante volumetto di qualche anno fa del professore Claudio Risé, “Il mestiere di Padre”, edito da San Paolo. Un testo che potrebbe aiutarci a comprendere certi disagi della nostra gioventù. Scrive Risè: “Ad insegnare all’uomo- maschio a diventare tale è sempre stato il padre e una serie di figure che lo affiancavano: dal maestro d’arti e mestieri, all’insegnante, all’istruttore militare, a quello ginnico (sopravvissuto, ma non basta). Senza questa iniziazione – scrive Risé – l’uomo non si sente tale a livello profondo”.

Interessante il racconto estratto da un testo di uno studioso americano, dove un giovane uomo cresciuto con la madre lesbica, circondata da un gruppo di donne intraprendenti, l’uomo alla fine si ritrova senza una sua identità istintuale, sessuale, nessun padre gliel’aveva trasmessa. Infatti, “il giovane senza padre, che non viene ‘iniziato’ al maschile, non ha volto: è portatore di un’identità debole, e ha paura”.

Così secondo Risé, “Il padre assente, insomma, già figlio matrizzato a sua volta, tende a diventare un eterno adolescente, in perenne ricerca di rassicurazioni narcisistiche alla sua esistenza”. Tuttavia, secondo lo psicanalista, tutte queste patologie scompaiono, quando il padre accetta di fare il mestiere di iniziatore dei figli.

Certamente è “un lavoro complesso, abbastanza impopolare, difficile da mettere a fuoco, anche perché richiede di andar contro pregiudizi, luoghi comuni, e superficialità di ogni genere”.Un altro aspetto che il libro di Risè prende in considerazione è quello della scuola. Anche qui si nota una mancanza di docenti uomini. La femminilizzazione del corpo insegnante nella scuola italiana, ma anche in tutto l’Occidente, è un dato di fatto documentato. E l’assenza nella scuola della figura maschile può portare a un disturbo che può influire nella psiche degli allievi, che non vedono una figura simile a quella paterna.

Risè, è fortemente critico della nostra “società dove le attività educative, di addestramento e formazione dei giovani, a tutti i livelli (tra cui la scuola e la famiglia), non sono più svolte da figure maschili, legate all’immagine archetipica del padre e alla sua particolare energia. Bensì da figure femminili, che rimandano al mondo della madre, con la sua diversa energia e cultura [...]”.

 

 

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