Recuperi/1 - "Gaetano Lo Manto: il pregevole linguaggio disegnativo " di Francesco Carbone

A scorrere attentamente il curriculum di Gaetano Lo Manto, ci si accorge quanto lunga e intensa sia stata e continui ad essere la sua atti­vità di artista e come la stessa attività si sia sostan­ziata sinora di rinnovati fermenti di ricerca e di esiti linguistici certamente tra i più significativi nel panorama della cultura figurativa non soltanto siciliana, come del resto è ampiamente dimostrato dai numerosi premi e riconoscimenti che gli ven­gono attribuiti.

Mosso da una sottile ideologia del tempo, o della temporalità come fenomenologia di un dive­nire mentale che a quello fisico e storico offre un nutrito apporto di idee e il senso dei loro orizzon­ti. Lo Manto ha capito sin dall'inizio come il dise­gno debba prestarsi ad una filtrazione ideativa fortemente immaginosa che lo sottragga alle sedi­mentazioni di un vedere conosciuto e abitudina­rio, pigramente assuefatto.

Ciò perché una delle principali conseguenze dell'incontrastata prolife­razione di una strategia comunicativa di tipo figu­rale, è sicuramente stata la produzione di una spro­porzionata quantità di immagini che, tendenzial­mente sempre più com­plesse e manierate, sono troppo spesso rivolte alla celebrazione di se stesse nello spasmodico tentativo di affermarsi all'interno di un sistema estetico, che presuppone una continua sfida con quella che si può definire la "moltitudine delle immagini adiacenti", che è tipica invece dei linguaggi pubblicitari. Si capisce perché la conse­guenza di ciò -contrariamente a quella che potreb­be essere una prima superficiale aspettativa - sia la sovrapproduzione di immagini che, per quanto elaborate, risultano essere normativizzate sino al punto di ottenere una uniformità tale negli esiti formali, per cui anche diverso il presunto nuovo risulta alla fine identico.

Così, per Lo Manto, il concetto di immagine disegnata come persistenza del modello e non come modellazione retorica della realtà, diviene proposizio­ne di immagini di tipo mentale e non concreto, per il quale "una rappresentazione non è un'immagi­ne, ma un'immagine può corrispondere a una rap­presentazione". Da queste differenze scaturite da un'intelligenza attiva, quanto criticamente seletti­va, si è snodata nel tempo la ricerca di Lo Manto, puntualmente e coerentemente sorretta da moti­vazioni culturali riferite ai saperi e alle conoscenze come ai pressanti condizionamenti socio-antropo­logici del nostro tempo. Su tali presupposti, già presenti sin dagli inizi, si innestano, dunque, l'uso delle tecniche e il punto di vista delle impagina­zioni sintattiche (tagli, campiture, toni, timbri, intersecazioni di piani, frammentazione di linee, ecc.), votati a desumere la superficie nelle sue più feconde letture disegnative.

Così, Lo Manto, che la natura vuole riumaniz­zare, trasferendo nell'arte una personalissima poe­tica dell'arte-ficio, affida al disegno il compito di rappresentare tale poetica, depurandola però di ogni enfasi descrittiva a favore di un impianto strutturale in cui il dato anatomico, architettonico, costituisce una sottile metafora dei profondi senti­menti umani.

E ancora, alla superficie del foglio, Lo Manto demanda il ruolo di rispecchiare i termini della propria poetica, pratican­do stesure, scansioni, toni e timbri di un disegno rea­lizzato per intersecazioni di piani e di rapide riqua­drature di linee, di geome­trie oggettuali, di scenari in movimento filtrati da improvvisi squarci di luce, da zone d'ombra, dove il disegno diviene quello straordinario linguaggio, tipico delle tonalità e dei gradienti visivi di cui è capace questo singolare artista.

Dal disegno alla pittu­ra, all'uso dei materiali con cui costruire e model­lare: un trasferimento estetico - operativo che non rivela alcuna contraddizione, ma che fa dell'arte, ancora una volta- in virtù delle stupefacenti facoltà immaginative di cui è dotato Lo Manto - un prov­videnziale ritorno a quell'innocent eye, di cui di cui parlava John Ruskin.

L'intero potere tecnico dell'arte - sosteneva infatti Ruskin - dipende dalla nostra possibilità di recuperare quella che potrebbe essere chiamata l'innocenza dell'occhio. Questa innocenza discende anche dall'idea dell'arte come costruzione e dalla concezione agonistica e ludica, di cui essa può essere rivestita. Così, Gaetano Lo Manto opera un taglio, sia in avanti che in profondità, per vedere di stabilire se sia possibile ancora riuscire a scopri­re in noi la presenza di una condizione etica ed este­tica basata sui dati naturali suscettibili al tempo stesso di autentiche e immaginose riproposizioni artificiali.

N

on ritengo che sia dato reperire giudizi così tanto differenziati e dotati di punte esaspe­rate come su un attività non solamente priva di nocumento, ma certamente - come vedremo - dotata di produttività e, senza tema di smentite, di considerevole valenza culturale: il collezioni­smo.

Già la corretta definizione del fenomeno è priva di univocità. Nella lingua italiana, infatti, esistono due verbi ed i sostantivi ad esso collega­ti: raccogliere e collezionare cui - se andiamo a consultare le più autorevoli fonti lessicali - non viene data omogenea interpretazione.

Nel "Grande dizionario della lingua italiana" diretto da Salvatore Battaglia, edito dalla UTET ed ancora incompleto dopo la comparsa nel 1961 del primo volume (ne sono stati editi 18 per giungere alla lettera "S"), troviamo le seguenti definizioni:

"Raccogliere: a) riunire cose sparse, accostarle, ammucchiarle in un punto preciso, mettere insieme (per non lasciare andar perduto, per usare o riusare); b) accumulare, ammassare, concentrare (beni, risorse, ricchezze); c) riunire, ordinare in col­lezione, conservare dopo aver ritrovato, ricercato, scelto, oggetti antichi, pregiati, curiosi: costituire una raccolta o collezio­ne".

"Collezione: raccolta di oggetti della stessa spe­cie aventi un valore intrinseco o che rivestono interesse storico, arti­stico, scientifico anche solamente di curiosità, condotta sistematicamente secondo uno specifico ordine".

Ogni cosa sembrerebbe sufficientemente chia­ra, ma se ci prendesse la voglia di fare un passo indietro, rivolgendoci al "classico", e andassimo a consultare il "Dizionario dei sinonimi della lin­gua italiana" di Niccolò Tommaseo, riveduto da Giuseppe Rigutini, sorgerebbe qualche perples­sità.

Ecco cosa leggeremmo: "La collezione è un accozzamento di cose. La raccolta forma un corpo delle cose accozzate. Raccolta, in altri casi, è piccola collezione e collezione è grande raccol­ta". Eccoci, dunque, in preda alle traveggole!

Come se non bastassero i dubbi sulle inter­pretazioni lessicali, ecco intervenire una raffica di giudizi, per lo più malevoli, sul collezionismo ed i collezionisti. E cominciamo dal celebre psichia­tra Giovanni Mingazzini (1859-1929) che - bene­volmente -ritiene il collezionismo equivalente dell'istinto di proprietà, mentre altri suoi colleghi ritengono che si allacci alla cleptomania, sino a giungere col ritenerlo atteggiamento paranoico.

E, puntualmente, il "Dizionario" del Battaglia - visto che qualcuno sdrucciola verso la vera e propria patologia - come sottovoce di ordine medico definisce il collezionismo "tendenza mor­bosa a raccogliere i più diversi oggetti, presente negli affetti da schizofrenia e da ossessione"!

A tutto ciò, ahimè, danno una mano scrittori, scienziati, pensatori illustri. Corrado Alvaro, infatti incalza: "C'è un forte dubbio che la mania collezionistica sia una manifestazione di sessua­lità non del tutto evoluta". Tale affermazione è probabile che discenda da quella che si può leg­gere in un testo, sicuramente noto allo scrittore calabrese, qual è Passeggiate romane di Stendhal, che così recita: "Nulla rende lo spirito angusto e geloso come l'a­bitudine di fare una colle­zione".

E se i collezionisti (ho il coraggio di confessare di essere uno di essi) vengo­no in tal modo relegati nei lager della patologia, forse ancora più brucianti risultano certe battute al vetriolo, certe descrizioni od immagini ad essi dedi­cate.

 Il grande fisico Ernest Rutherford, eminente stu­dioso dell'atomo, sdegnosamente attribuiva la qualifica di "raccoglitori di francobolli" ai ricer­catori dediti a pubblicazioni di scarso rilievo; Pitigrilli, che pure non era uomo di pessimo gusto, si lascia andare a definire i filatelisti "rac­coglitori di sputi internazionali"; Benedetto Croce esclama: "ci sono perditempo che fanno collezione di francobolli? È una nuova scienza; è la Filatelia!". Ebbene, quella scienza - oggi è ampiamente riconosciuta - esiste ed i filatelisti non possono riconoscersi certamente nel dipinto di Gregorio Sciltian, nel quale un vecchio sciatto ed emaciato, abbandonato scompostamente su una poltrona, é sommerso da tendaggi impolve­rati e da una marea di francobolli in disordine, né nel collezionista di maioliche che Champfleury descrive nel bel romanzo breve intitolato Le violon de Faience: "Gardilanne asseriva di non avere passioni; era la persona più passionale che si potesse immaginare (...) nessuna passione! Gardilanne le possedeva tutte, fuse in una sola, più forte, la passione per le collezioni! (...) Per placare la sua sete di collezionista, Gardilanne era diventato tanto avaro da maltrattare il suo corpo dentro e fuori, tra cibo e vestiti, per rispar­miare ogni giorno qualcosa da dare in pasto al mostro delle anticaglie".

La rassegna, di segno negativo, appena con­clusa, lascia perplessi. Dà la sensazione che di eventuali situazioni estreme si sia voluta fare una regola, per motivi esclusivamente polemici, dei quali non risulti chiara la ragione. Ci si chiede, infatti, quale sarebbe stato il destino delle testi­monianze della storia, ove non vi fosse stato qualcuno disposto a curarne la conservazione. E, chiunque sia stato a farlo, non può non essere annoverato - almeno in senso lato - nell'ambito dei "collezionisti". Del resto, il raccogliere è dote istintiva che si manifesta in ogni bambino e, per traslato, in ogni essere primitivo. Il loro - la ricerca e la conservazione di ciò che piaccia o che ricordi un successo nella caccia, nella lotta della vita - lo definirei "collezionismo incosciente".

Ma è ad altro tipo di collezionismo che desi­dero fare riferimento e che mi sembra di non marginale importanza. E' quello che matura al momento in cui l'uomo prende coscienza di ciò che significhi "passato", di ciò che voglia dire "futuro". Momento cruciale, nel quale l'animalità cede alla intellettualità, l'utilitarismo e l'elementare istinto di sopravvivenza dà spazio ad una spiritualità che induce ad aspirare ad un'esistenza capace di proiettarsi anche oltre la coscienza della morte corporale.

In tale spirito il collezionare può assumere due indirizzi: quello di custodia delle memorie di chi o di ciò che non è più, ovvero - ed è quanto i Faraoni d'Egitto hanno messo in atto nei loro monumentali sepolcri - il tentativo di traghettare nell'al di là il mondo che li aveva circondati durante la vita terrena. Quindi suppellettili, abiti, insegne, prodotti scultorei (anche artigianali), testi che davano atto agli eventi della loro vita e, particolarmente, dei successi riportati; per non parlare addirittura del tentativo di preservare dal disfacimento i propri stessi corpi.

In ogni caso collezionismo diviene espressione del tentativo di preservare "il bello": si tratta di oggetti di raffinata fattura o di opere dell'intellet­to umano. Così, diviene una sorta di splendido collezionismo la creazione di quella favolosa biblioteca di Alessandria d'Egitto nella quale vennero raccolti - fra il 300 e il 50 a.C., data della sua distruzione per incendio - oltre settecentomila volumi, in parte acquistati, in parte donati e tutti tradotti in greco.

E non fu grazie all'antica determinazione di collezionare che nei decermi scorsi si potè acqui­sire un patrimonio di elevatissimo valore cultura­le ed archeologico rappresentato dalle "tavolette" sumere e dai "rotoli" del Mar Rosso che erano stati accorpati e conservati dagli uomini di quei remoti millenni alla cui cultura appartennero?

Né possiamo ignorare l'esistenza di quel raffi­nato collezionismo che indusse i Romani ad appropriarsi di quanto, negli anni del massimo splendore della Grecia antica, era stato prodotto in ambito letterario ed in quello delle arti figura­tive. Ciò consentì la creazione di collezioni pub­bliche e private che contribuirono alla conserva­zione di beni di inestimabile valore intrinseco, storico e culturale. Quando il declino degli impe­ri romani di Occidente e di Oriente produsse un imbarbarimento generale e si corse il rischio che potessero andare perduti i contatti con le civiltà del passato e potessero andare dispersi i testi che sino ad allora erano stati preservati dalla distru­zione, almeno in Europa, furono gli istituti reli­giosi - le Abbazie - che con i propri amanuensi e con i miniaturisti che con loro collaboravano, tra­scrissero, conservarono, classificarono, tradusse­ro, i classici immortali salvandoli da un oblio che sarebbe potuto divenire fatalmente definitivo.

Nel tardo Medio Evo, poi, si andava affermando nel Nord Europa la cultura collezionistica orientata verso le rarità di scienza naturale o, semplicemente, verso le curiosità. Fra i privati collezionisti - ovviamente appartenenti alle privilegiate classi aristocratiche - si distinse l'Arciduca Alberto di Baviera ed il Duca di Berry, quest'ultimo celebre per i Libri d'ore, stupenda­mente miniati e rilegati, che fece produrre dagli artisti che frequentavano la sua corte. Sulla loro scia sarebbe esploso il mecenatismo che avrebbe distinto le grandi Famiglie italiane del Rinascimento e i Papi più illuminati, inducendo la produzione di opere che avrebbero, poi, finito per costituire - in Italia e nel mondo - il nucleo delle collezioni che oggi abbiamo l'avventura di ammirare nei maggiori Musei. Si pensi ai Medici, agli Estense, agli Sforza, ai Gonzaga, ai Borgia, ai Montefeltro, per citare alcuni nomi alla rinfusa. In tali Famiglie emersero anche figure femminili che seppero coniugare cultura, gentilezza d'ani­mo, e vocazione al mecenatismo e al più raffinato collezionismo.

Sarebbe troppo lungo elencare i nomi dei Papi e Cardinali che raccolsero, appassionatamente, tesori di ogni genere. Per tutti basti citare Giulio II della Rovere, coevo e mecenate di Raffaello, del Bramante, di Michelangelo e di quello straor­dinario coacervo di Artisti che caratterizzarono il primo Cinquecento italiano.

Nei secoli successivi emergono altri ecceziona­li personaggi dediti alla raccolta di monete e di opere d'arte che in Francia, Spagna, Inghilterra, negli antichi Stati tedeschi, in Russia e, ancora in Italia, per merito dei dogi veneziani, emulano coloro ai quali si è fatto riferimento. Da Carlo V a Francesco I, a Filippo II, a Luigi XIV il "Re sole", a Carlo I d'Inghilterra, a Federico II di Prussia, a Caterina II di Russia.

Ma è solamente dopo la rivoluzione francese e, pertanto, nei primi decenni del XIX secolo che con l'affermarsi della borghesia il collezionismo diventa patrimonio anche delle classi emergenti.

Esse ne faranno, in taluni casi, elemento di quali­ficazione dei singoli e di tentativo di adeguamen­to alla tradizione dei grandi personaggi del pas­sato.

La polverizzazione, fra un più ampio numero di persone, dell'interesse collezionistico fa sì che - poco alla volta - fiorisca ed emerga anche il - cosidetto "collezionismo minore". Quello che, a fianco dei filoni battuti in passato, ne aggiunge altri relativi a fenomeni d'arte, d'artigianato ed a tecnologie che vanno sorgendo in parallelo con il rapido evolversi delle attività umane. Di conse­guenza i settori sui quali si è andata incentrando l'attenzione dei cultori si è espansa, divenendo di enorme vastità né se ne può fare una esausti­va elencazione.

Basti dire che alle tradizionali collezioni di opere letterarie ed artistiche (che hanno finito col comprendere anche i mobili ed i loro modelli­ni, le armi e le armature, gli arazzi e gli stemmi) si sono aggiunte quelle riferentesi ad oggetti di uso corrente, dalle fibie agli orologi, dai sigilli ai bastoni, dalle bambole agli strumenti musicali, alle carrozze, alle automobili d'epoca, ai ferri da stiro, alle pipe, alle scatole di sigarette, a quelle di fiammiferi, alle penne, alle bottiglie di liquori, ai loro tappi, ai bottoni e così via.

E non ho fatto cenno ad un settore che ha avuto rapida, estesa e qualificata diffusione per l'approfondimento degli studi che ad esso sono stati dedicati: la Filatelia.

Quella filatelia che, nata dopo remissione del primo francobollo adesivo emesso dalla Gran Bretagna nel 1840, ha mandato in crisi di nervi addirittura - come abbiamo visto - Benedetto Croce. Oggi gli storici, con Sua buona pace, la considerano - assieme alla Storia Postale - uno degli ambiti di ricerca che può risultare comple­mentare alla Storia, in senso lato, e può contribui­re a comporne il mosaico. E' forse per questo che ad essa si sono dedicati personaggi di grande prestigio ed autorità. Ricordo solamente pochi nomi (e tanti ad essi potrebbero esserne aggiunti): il Barone Ferrary La Rénotier, alcuni elementi di spicco della famiglia Rotschild, Re Giorgio V d'Inghilterra, il Presidente degli Stati Uniti d'America Franklin Delano Roosevelt, il Cardinale di New York F. G. Spellman, il Principe Ranieri di Monaco. Personaggi che avrei difficoltà a classificare con la qualifica di "perditempo" adottata Benedetto Croce!

D'altronde mi è di conforto il fatto che storici, studiosi del costume, critici d'arte abbiano preso in seria considerazione la filatelia, il francobollo, la loro storia; elementi più diffusi e, quindi, anche popolari tra quelli che gravitano nella sfera del collezionismo. Ritengo opportuno citare le parole che Federico Zeri, studioso fra i più noti - pur­troppo di recente scomparso - ha dedicato ai fran­cobolli, prima nel suo trattato di Storia dell'Arte e, quindi, in un volumetto intitolato I francobolli italiani - Grafica di ideologia dalle origini al 1948, edito da Einaudi. Egli così si esprime: "Provvisto di connotati così vari e complessi, di una carica semantica talmente ampia e di radici storiche e figurative tanto profonde ed articolate, il franco­bollo può anche venir considerato e giudicato sotto il semplice profilo estetico, alla stregua cioè di un'incisione o di una stampa più o meno d'arte (...). In realtà, il francobollo è oggi il mezzo figura­tivo più stringato e concentrato di propagan­da, quasi un manifesto murale ridotto ai minimi termini, dal quale il substrato sociale e politico si rivela con estrema chiarezza e pre­gnanza. Ed è anche il mezzo figurativo di propa­ganda più capillarmente diffuso, sia nei diversi strati della società, cioè a livello locale, sia in senso orizzontale, per i suoi destinatari situati in un sistema terminale che ignora distanze e fron­tiere".

Non credo siano necessari ulteriori commenti.

Ma, al di là del collezionismo filatelico o - comunque - di settore, mi sembra di poter affer­mare che in assenza di cultori delle singole ed innumerevolissime branche, molti prodotti d'arte e d'artigianato, molte testimonianze delle attività umane della cultura, più o meno elevata, sarebbe­ro state destinate, nel tempo, con l'essere dimenti­cate.

Il collezionismo ha evitato codesta iattura.

Né va sottovalutata la componente economica che dà consistenza ad ogni settore collezionistico. Tale da indurre abili falsari ad impegnarsi nella loro deleteria attività. Unica difesa nei loro con­fronti è quella dell'approfondimento delle cono­scenze settoriali, che deriva dallo studio.

E dove c'è studio, inevitabilmente, c'è cultura. Vogliano o no ammetterlo i piccoli e grandi detrattori del collezionismo.

 

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