Porfiri e il contesto ‘Arte a Roma’ anni ‘50/’60/’70. Colloquio con Vitaldo Conte - a cura di Italo Inglese

Fernando Porfiri, come artista e promotore culturale, è riconducibile a un particolare clima che ha avuto il suo apogeo a Roma nel ventennio Cinquanta/Sessanta del secolo scorso. Gli spazi La Capannina di Porfiri, in via Alibert, e la Galleria Porfiri, in via del Babuino, si inseriscono in quella atmosfera, che tu hai conosciuto attraverso l’esperienza di tuo padre, lo scultore Pino Conte, il quale appunto frequentava quegli ambienti.

 

          Gli anni Sessanta, nel ventennio che hai indicato, sono assai vitali. Roma è il centro di riferimento culturale, in tutte le sue espressioni. Il cinema ha glorificato, per esempio, quel periodo attraverso il film la Dolce Vita, uscito proprio all’inizio del 1960. È il decennio del boom economico e della gioia di vivere. Gli esponenti della vita culturale romana, soprattutto letteraria e artistica, amavano uscire per incontrarsi nei bar e nelle gallerie di riferimento. Questi spazi avevano come centro un’area compresa tra Piazza di Spagna e Piazza del Popolo con le vie limitrofe. Non è casuale che la sede dell’antica Accademia di Belle Arti di Roma sia in via Ripetta. Diversi artisti e critici, che s’incontravano in quell’area, erano suoi docenti. 

          Mio padre, pur essendo un uomo riservato e taciturno, mi raccontava dei suoi incontri, in quel periodo, che sfociavano in amicizie e sodalizi culturali. Anche lui aveva una galleria di riferimento proprio in Via Alibert. Gli incontri al bar, che si estendevano fino a sera, avevano spesso come centro principale due bar di Piazza del Popolo: “il Rosati” e, soprattutto, “il Canova”. Questi incontri frequentemente anticipavano mostre personali e di gruppo, come iniziative editoriali.

 

          Non è casuale, quindi, che una comunità di artisti si incontrasse e operasse in quella precisa area topografica. Come quella situata tra via Alibert, via Margutta e il bar Canova. Nella Roma contemporanea c’è qualcosa di comparabile a tale esperienza?

 

          L’area pulsante dell’arte romana si è “decentralizzata”, nei decenni successivi, in quartieri di riferimento anche per la vita notturna, “giovane” e non, come Trastevere, Testaccio-Ostiense, San Lorenzo (dove è nata anche una Scuola artistica). Infine si è espansa anche in quartieri, un tempo considerati “periferici” per l’arte, come Prenestino, Pigneto, Corviale, ecc. Anche l’organizzazione di “incontri negli studi degli artisti” diviene una possibilità di comunicazione.

 

          Sei a conoscenza di studi o di iniziative che nell’ultimo decennio hanno trattato l’argomento-Porfiri?

 

          Porfiri, per quello che so, è stato attraversato in un convegno presso l’Accademia di Belle Arti di Macerata nel 2014, in cui si celebrava Franco Ferrarra (letterato e critico d’arte), morto in quell’anno. Tra gli interventi c’era quello di Agnese Sferrazza (storica dell’arte), che, nella sua relazione, parlava appunto di Franco Ferrara e gli artisti della Galleria di via Margutta “La Capannina” di Fernando Porfiri.

 

          Come dimostrano alcuni scritti di Porfiri, la polemica tra arte figurativa e astrattismo era molto viva in quegli anni. Come la valuti alla luce degli sviluppi successivi?

 

          È bene ricordare che Porfiri, subito dopo la guerra, ha scritto un saggio sullo sviluppo storico dall’Impressionismo all’Astrattismo.  In quegli anni era molto sentita, tra gli artisti, la disputa e la dialettica tra figurazione / astrazione / informale nel fare artistico, pittorico e scultoreo. Ma risultava anche una disputa in famiglia, in quanto, in quei decenni e nei successivi anni Settanta, coincideva, sotto la spinta delle neo-avanguardie, la de-strutturazione dei medium tradizionali dell’arte: quelli espressi appunto dal quadro e dalla scultura. Le nuove poetiche li superavano, sostituendoli con il corpo in azione (Happening, Fluxus, Comportamento, Body Art), con il pensiero-concetto (Arte Concettuale), con la fuoriuscita ambientale (Land Art, Istallazione), ecc.

          Il quadro e la scultura (di figurazione o astrazione) erano talvolta considerati linguaggi conclusi in chiave propulsiva. Ho scritto in I misteri di Dioniso[1]: “Non a caso un protagonista della teoria d’arte del tempo, e “formatore” di critica, quale G.C. Argan, a cavallo fra i decenni ’60 e ’70, scriveva: “La scultura non rappresenta l’oggetto, lo riproduce in una materia diversa e lo traspone in una dimensione metafisica: la storia, l’allegoria, il mito. (…) la scultura si è deteriorata perché non ha saputo staccarsi dalla radice classica. I valori analitici e moderni dell’arte, nei decenni ’50 ’60 e ’70, “debordanti” talvolta di ripetitività e di sterilità creativa, hanno preso il sopravvento su quelli “caldi” dell’espressione e dei valori poetici, con numerosi epigoni di buona volontà, incoraggiati da critici e da gallerie d’arte, fino alla degenerazione del gratuito, come in tanta “presunta” Arte Programmata e Cinetica o nell’Arte Concettuale (…)”.

 

          Pare che quegli artisti fossero inclini a coltivare rapporti con poeti e scrittori piuttosto che con i critici d’arte. Questi ultimi, a differenza dei primi, si caratterizzavano per un forte impegno ideologico.

 

          In quegli anni la tensione ideologica era molto avvertita. I critici d’arte spesso cavalcavano l’orientamento di una modernità militante, che li induceva a ricercare espressioni d’arte non legate ai linguaggi tradizionali. Per questo spesso gli scrittori diventavano frequentemente critici delle poetiche d’arte espresse attraverso la pittura e la scultura, soprattutto quelle di istanza figurativa.

 

          Esistono differenze tra i collezionisti dell’epoca e gli attuali?

 

          Nei decenni Cinquanta, Sessanta, Settanta esisteva un collezionismo (piccolo e medio) diffuso, anche colto, praticato da amanti dei linguaggi figurativi e astratti, che permetteva a diversi artisti (come a mio padre) di guadagnare somme considerevoli. Il grande collezionismo di respiro internazionale esplode, soprattutto in Italia, negli anni Ottanta, “inducendo – come ho notato – l’arte a divenire più costosa: lo status symbol delle classi emergenti ne richiedeva il collezionismo. L’arte contemporanea è caduta, talvolta, nel paradosso di essere di moda proprio quando è divenuta più costosa”. Ma le regole di questo iper-mercato, ormai a conduzione internazionale, sono dettate dal sistema economico-finanziario. Il mercato diffuso, medio-piccolo, si è oggi fortemente ridotto e talvolta scomparso per certe sue valenze espressive.

 

          Che senso può avere oggi rivisitare quel periodo?

 

          Ritengo che sia molto importante “ri-visitare” quel periodo per “ri-leggere” artisti di uno spaccato dell’arte che oggi, talvolta, risulta “dimenticato” per motivazioni diverse: stilistiche, in quanto l’orientamento di moda o del mercato è rivolto oggi “altrove”; ideologico, in quanto, nel suo tempo, non rappresentava l’arte che doveva esprimere una certa immagine della società, talvolta costruita per una visione politica. 

          Ho scritto, a proposito di quel periodo, in Danger Art (2018): “Mentre rimaneva ancora un giudizio di ostracismo, talvolta ottuso, verso poetiche del secolo scorso e autori del Futurismo (si pensi per esempio a Mario Sironi), si celebrava viceversa il realismo espresso da alcuni “artisti impegnati” in tematiche di retorica politico-sociale. Come nel caso del pittore comunista siciliano Renato Guttuso: senatore, amico di importanti intellettuali del tempo, editorialista tra l’altro de l’Unità e de la Repubblica. Oggi il neo-realismo di questo artista crolla nelle sue valutazioni (…). Un destino riservato anche ad altri autori “al servizio” di una ideologia”[2].  Diverse espressioni della ricerca letteraria e artistica degli anni ’60-’70 hanno conosciuto, infatti, “indirizzamenti” di varia natura.

 

 

 

In: Fernando Porfiri detto Porfirius, a cura di Italo Inglese, Tabula fati, Chieti 2021.

 

 

 


[1]  1) V. Conte - D. Frau, I misteri di Dioniso, Solfanelli, Chieti 2019.

[2]AA.VV. - L. Reghini di Pontremoli, Antropologia dell’arte presente, UniversItalia, Roma 2018.

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