“Non parlerò di Raffaello” di Dalmazio Frau

Non parlerò di Raffello Sanzio. Non m’interessa, e non perché non lo stimi come straordinario ed eccelso artista e pittore, anzi, forse – come sostiene Antonio Paolucci – fu il più grande di tutti coloro che usare un pennello, soltanto lo ignorerò volutamente, perché quest’anno essendo il cinquecentenario della sua morte è di moda, e a me invece piace andare controcorrente e accuratamente “fuori” moda. Ne parleranno tanti, troppi, trasformandolo in un’icona ricorrente lungo i muri delle metropolitane, ci subisseranno di speciali televisivi, di spettacoli, di convegni, conferenze e pagine su pagine dei giornali. La raffeallomania sta per esplodere, fracassona e monotonamente reiterata sempre sulle medesime note, finché qualcuno non vorrà fare l’originale e per dichiararsi tale s’inventerà qualche superba idiozia su povero urbinate, morto a soli trentasette anni.

Non parlerò di Raffaello perché è un pittore privo di Mistero, benché cresciuto alla scuola del Perugino e quindi deve aver assimilato anche lui quei simboli e quelle dottrine ermetiche allora tanto in voga grazie ai filosofici-maghi di Careggi, ma tutto questo nei suoi dipinti è superfice apparente. La “Scuola di Atene” è un perfetto compendio della grandezza della Cultura occidentale lungo i secoli, ma resta lì, una sorta di immenso cartello stradale indicativo dei sublimi vertici ai quali giunse il pensiero e l’anima d’un mondo oramai troppo lontano da questo nostro, triste e vacuo che viviamo oggi, fatto di figurine mediocri, false e autoreferenziali. Quello del pittore da Urbino era un tempo d’eroi e di giganti, di grandi luci e terribili ombre, a differenza del tempo che abitiamo adesso, dove i nani saltellano come sgorbi in cerca di titani sui quali arrampicarsi.

Non vi è profondità di segreto né d’incantesimo in Raffaello, meraviglioso pittore, ma senza Magia. Il suo simbolo appare subito per ciò che esso è, l’immagine che mostra immediatamente il volto senza il velo, laddove ancora alcuni colti da fissazione monomaniacale, stanno a cercare reconditi significati nel bracciale che adorna la Fornarina.

Raffaello, un giovane erotomane bellissimo che non riusciva a dipingere se non aveva qualcuna disponibile nel proprio letto, sia che ella fosse popolana, cortigiana o nobildonna, tanto che forse di questa compulsività sessuale ne morì. Magnifico, eccelso, sublime Raffaello è soltanto un pittore di corte, un “leccaculo del papa” come lo definì qualcuno suo contemporaneo, che da fiorentino non gli lesinò epiteti roventi. Nessun’alchimia né ombra sulle immote luci dei suoi dipinti, in una vita cortese condotta al limite della monotonia, Raffello non mi affascina né m’interessa più di tanto. È vivo, immortale, ma tremendamente noioso quindi lo lascio volentieri a chi è privo d’alata fantasia.

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