Mario Perniola, "L’arte espansa" (Ed. Einaudi)

di Tommaso Romano

 

Un libro che può essere autenticamente e tanto un utile segnavia è quello di Mario Perniola L’arte espansa (Einaudi, Torino, 2015), che si iscrive fra i testi nodali del rilievo critico rispetto alle vicende dell’arte nella   contemporaneità.

Perniola parte dalla Rivoluzione Francese e dalla carica distruttiva, iconoclasta, e vandalica (così scrive giustamente) che non risparmiò le “belle arti”. Al contrario di altri critici della contemporaneità, Perniola non manca di far risalire al Romanticismo e all’idea dell’arte totale che si pose “in concorrenza con l’azione politica, con il lavoro economico e perfino con l’operare come è stato tradizionalmente inteso. Ne nascono, di conseguenza, un’idea e pratica parapolitica, una paraeconomia, euna paraarte. L’arte diventa per i Romantici una quasi-azione, diversa dall’azione militare e politica ma in concorrenza con queste”. L’artista si sente così un eroe, guida, e fa pure le rivoluzioni politiche, imprime stile, esalta l’azione: Sturm und Drang.

   Sottolinea Perniola che “la svolta culturale romantica va in una direzione assolutamente differente   rispetto a quella rinascimentale: essa non focalizza la propria attenzione sul possesso di un sapere (come nel caso dell’arte di Leonardo), ma sull’irruenza dell’azione. Perciò essa è caratterizzata da un’aspra   polemica nei confronti delle accademie d’arte, che vengono considerate non solo inutili al fiorire dell’arte, ma dannose e deleterie perché ostacolano e annientano lo spirito creativo del genio artistico”.

    Il neoclassicismo, il neogotico, il neorinascimentale, si collocano nell’Ottocento in una fase di ripetizione concettuale che avrà nel Liberty, nell’Art Noveau, la sua svolta e che aprirà alle avanguardie antipassatiste. Bisogna però discernere a proposito, a cominciare dal Futurismo e alla parabola di alcuni fra   i suoi esponenti verso la spiritualità, la metafisica, a cominciare da un Severini fino a Gerardo Dottori. Il Futurismo resta però, con il Cubismo e il Surrealismo, un movimento complesso e anche contraddittorio, con esiti diversi, in qualche caso geniali.  Ben altra carica distruttiva, autenticamente sovversiva, sono propri degli altri movimenti, a cominciare dal Dadaismo di Tzara e da Duchamp, e ciò che ne è seguito, fino all’arte povera, al minimalismo, al concettuale, ecc…

    Questa epoca lunga della storia dell’arte, scrive Perniola, “non ha fatto tanto opere quanto artisti che facevano arte o anche antiarte. Al limite, l’opera poteva anche non esserci affatto, come nel caso estremo dell’<arte senza opere>. Il cammino iniziato nell’Ottocento col Romanticismo tedesco, affermando il primato dell’artista sull’opera, è stato portato alle sue estreme conseguenze con la sua elevazione a <divo> di una microsocietà internazionale i cui interessi erano essenzialmente economici”.

Chi scrive, sostiene e teorizza da tempo l’importanza delle biografie come disciplina organica denominata Scienza della Biografia (che ha avuto dignità accademica), tuttavia non ha mai sostenuto che l’opera è di secondaria considerazione rispetto alla scrittura della vita, anzi essa è il coronamento di un iter, di un processo, di una tensione etica ed estetica, di approdi e ricerche scientifiche e tecniche, che, ben contestualizzate e studiate nei loro aspetti multiformi, danno una visione più ampia dell’opera stessa e del suo travaglio. La   biografia “serve”, l’opera è indispensabile. Perniola ha un bel da fare a girovagare nel labirinto delle correnti le più svariate e presuntuosamente “originali” (le avanguardie storiche avevano tracciato ben più profondi solchi, opere e gesti, che ora si ripetono invece stanchi, appunto da un secolo a questa parte). Ecco allora l’esame impietoso ma rigoroso, documentato e ironico-paradossale di Perniola su: Post Human, Psychotic Realism, Nevrotic Realism, Abiect Art, Cyberpunk Art, Conceptual Art, Outsider Art, quali espressioni della controcultura che ha nel Sessantotto con il suo movimento esplicito “rivoluzionario” e, prima in Italia, con il “Gruppo 63”, con il suo acme di attacco alla letteratura creativa e alla residua sensibilità lirica. Analisi che giunge fino ai Situazionisti e alle loro teorie psichico-esistenziali della deriva. L’artista si autodesigna o viene investito come tale da lobbies che intrecciano la critica e i mercanti, le rassegne e le grandi mostre, inflazionando il mercato e degradandolo di surrogati deperibili, in un regime di monopolio di pochi, riviste e cataloghi d’arte compresi, una “cupola che governa”, dice Parniola, “la quale arruola anche un gran numero di critici spesso non sufficientemente preparati per svolgere il compito di giudici”.

Le opere diventano “articoli” (e non mi pare errata la definizione che le attribuiscono i curatori e i critici) e di seguito Perniola giunge ad esaminare la Biennale Veneziana del 2013, “Il palazzo enciclopedico (tardo illuminismo nominalistico-concettuale) curata da Massimiliano Gioni , dove si potevano trovare , come in un mercatino o in uno spazio di istallazioni, Jung, Crowley, e Steiner con i loro libri assieme all’ “arte dei folli”, e con disegni e miniature, artigianato e arte dell’imbalsamazione, video, contaminazioni di scritture-pitture-musiche, eseguite anche sui corpi propri di artisti, insieme a manichini, androidi, cyborg, fumetti, fotografie, a una azienda agricola spiegata. Insomma, una rassegna di “trasgressioni”, premiata e integrata dalle istituzioni”.

    L’arte può essere tutto e fatta da tutti, in sostanza, senza l’ombra di poetiche e progetti di riferimento, di idee, visioni e fini, se non il quotidiano riutilizzato e rimasticato anche come pratica dell’accumulo, ed emblema del minimalismo del nulla, con materiali i più variegati e con gli scarti emblematizzati come simboli, con tutto ciò che è fringe, marginale. Un nichilismo operante e ripetitivo, lo ribadiamo, che svaluta il naturale per l’artificiale e l’artificio (i pessimi nipotini di Hegel e Croce,i quali escludevano il bello del mondo naturale), rompendo con ogni pur minima idea di estetica e di bellezza.

Periola usa un bel neologismo per descrivere tutto questo: artisticità. Sta accadendo, dice, un cambiamento epistemologico del concetto di arte, dato che l’arte non basta più a sé stessa, diventa un  sistema in azione (Alfred Gell), una cosa che agisce, gli oggetti creati sono perciò agenti sociali.

L’artistizzazione, ancora scrive Perniola, suppone che “nulla è di per sé stesso arte. E non lo diventa attraverso molti fattori: la maniera in cui l’autore pensa la propria attività, il contesto diacronico e sincronico in cui si pone, il lavoro di mediazione ermeneutica cui è sottoposto, la ricezione del pubblico e della critica, la manipolazione con i mass media lo assoggettano, la conservazione di ciò che è stato fatto.

Ne deriva che l’arte è tutto questo insieme di azioni e reazioni, teorie e iniziative, oggetti e racconti, documenti e materiali del più vario genere”. Una reazione chimica che annulla solo per il gusto di annullare.

    Si moltiplicano e si autoeleggono così milioni di artisti o pseudo tali, nella decadenza reale di istituti, licei e accademie che fanno il verso alla disgregazione, negando in radice il loro statuto e divenendo megafono degli imbrogli spacciati per progresso liberatorio: “Proprio per ciò si corre il pericolo di affogare in un abisso di insulsaggini e di futilità, in cui scompare non solo la vecchia idea dell’arte, ma anche ogni possibilità di fornire un orientamento in un melting pot in cui tutto si confonde con tutto, con l’emergere di valutazioni arbitrarie, malevole, mistificatrici e manipolate. L’arte espansa è una grande occasione per coloro che, volenti o nolenti, sono restati fuori dal <mondo dell’arte> istituzionale, ma è anche un grande pericolo, perché nella crescita bulimica di mostre, biennali, esposizioni, libri d’arte, stage, seminari, fondazioni … finiscono con l’essere assimilati e confusi proprio con ciò che hanno combattuto e dal quale hanno voluto distinguersi, spesso pagando questo isolamento con la povertà, l’inaridimento, la depressione e la malattia”. 

Eterogenesi dei fini, direbbe Augusto Del Noce.

La chiusura per legge dei manicomi ha aperto la porta di gallerie, musei e di critici entusiasti, a psicopatici, schizofrenici, portatori di fantasie represse e di repressioni “esemplari”, come avviene per gli artisti sotto effetto di stupefacenti, anch’essi egualmente osannati.

L’arte non è allora più una distinzione basata sulla qualità, ma un veicolo per tutti; nasce e si sviluppa così anche l’Art Brut, che combatte “l’impostura di origine greca”. Perciò Debuffet sostiene la transitorietà dell’atto artistico, la “dissipazione gioiosa” non lontana dal delirio, da quel pensiero selvaggio, bibbia per arruolati frettolosi dell’antropologia di un discutibile Levi-Strauss.  Ne consegue che, ancora è Perniola che citiamo, “la democrazia implica che tutti possano diventare artisti e che ciò che fanno sia considerato arte!”. Come stupirsi, allora di unPremio di un milione di euro sganciati dalla Commissione Europea e dato per lo sviluppo della Contemporary Folk Art and Outsider Art to Creativity, sotto il titolo Equal Rights to Creativity, in nome di una democratizzazione, presunta, di pseudo talenti.

    Opere provvisorie, di poveri materiali deperibili, incapaci di solcare il tempo si disfanno. Ed ecco il paradosso: “un secolo, il Novecento, che ha portato all’estremo l’ebbrezza della novità e dell’attualità, ci appare come un cumulo di rovine che è molto difficile da restaurare, ammesso che ne valga la pena” (Perniola); “un’arte senza opera” (Jean Galard); dato che “l’arte non consiste nel fare un quadro, ma nel venderlo” (Jeff Koons), e ancora resta esemplare Beyus quando afferma “Non ho nulla a che fare con l’arte, e questa è l’unica possibilità per poter fare qualcosa per l’arte”.

    Siamo al “grado zero” dell’arte e ne consegue logicamente “che è avvenuto un mutamento radicale nella stessa categoria cognitiva di ciò che finora è stato chiamato <arte>: l’opera ha perduto la sua autonomia e per essere riconosciuta come una entità degna di apprezzamento deve passare attraverso tutte quelle mediazione, le quali, peraltro, sono ancora insufficienti e spesso inattendibili e inaffidabili, perché resta sempre il sospetto che nascondano interessi e operazioni puramente commerciali e finanziarie più o meno lecite. (…) I confini del paradigma dell’<arte> si sono a tal punto allargati da comprendere potenzialmente qualsiasi cosa, vale a dire nulla”.

    Perniola indica, ancora, della prognosi all’arte in pericolo di morte (Marcel de Corte giustamente sosteneva che, più ampiamente, dovesse parlarsi di “intelligenza in pericolo di morte”), intanto combattendo e denunciando a viso aperto l’ignoranza di curatori di mostre, direttori di musei e riviste, organizzatori, dato che “nessuna strategia artistica può più fare a meno di una strategia teorica”. Esattamente come l’artista, come “persona colta”, intraprendente, determinata; capace di discernere e di avere una visione dell’arte e della vita, aggiungiamo noi. Non psicopatici, ignoranti e presuntuosi, autodidatti che si ritengono unti da qualche signore della critica o da qualche mercante in crisi d’astinenza da “originalità” da proporre a “un pubblico plaudente che non capisce niente” (Enzo Benedetto).

    Con un ulteriore paradosso che Parniola indica brillantemente: “in Occidente il compito delle Accademie e delle università sarebbe quello di fornire le armi concettuali e tecniche per distruggerle!”. Tutto condito con le armi improprie di antropologie manipolate, estetiche che si arrendono per statuto al relativismo e di “dottori in nulla” (così si autodefiniva Guy Debord), che pontificano, trasformando in <arte> qualunque seriale oggetto o scarto di oggetti o pseudoconcettualizzazioni estemporanee o destinate a disperdersi. Una metamorfosi, il cui distruttivo cammino, con qualche salutare inciampo, dura da oltre due secoli. Per questo stato di cose, che specchia ed è specchio della globalizzazione livellante che viviamo in atto, intanto nei cervelli, nelle abitudini, nei costumi, nell’immersione non sempre consapevole, nel “pensiero unico” – l’arte dovrebbe ritrovare e ritrovarsi nel fare arte senza sicuramente, ripetersi, ma non perdendo il suo trascendente orizzonte, un Ascendentismo, che riproponga l’arte come possibilità di manifestazione distinta della verità e della bellezza.a

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