“Il signore delle formiche” - di Carmelo Fucarino

CAST: regia Gianni Amelio, in concorso alla 79a Mostra del Cinema di Venezia 2022, interpreti principali Luigi Lo Cascio, Elio Germano, Sara Serraiocco e l’esordiente Leonardo Maltese.

Interventi: Amelio: «È soprattutto la storia d'amore tra un uomo e un ragazzo, vorrei fosse un film ottimista nonostante parli di una delle pagine più scure della giustizia italiana. Spero tanto che dia coraggio a chi non può averlo, vorrei fosse un film ottimista nonostante parli di una delle pagine più scure della giustizia italiana».

Luigi Lo Casco che qui ha superato se stesso, in un tema di forte impegno, come al suo esordio con I cento passi, ed ha saputo dare al personaggio dell’intellettuale omosessuale la potenza della vita. Dichiara: «Mi sono fatto schifo per non sapere chi è stato Braibanti, nonostante venga dal teatro e abbia studiato: preparare questo personaggio è stato un tuffo in un'epoca diversa, ma che oggi sappiamo leggere bene».

Di altro nulla qui aggiungo al film. La sua visione può sola rivelare la potenza e lascio agli spettatori la sorpresa. Sfido chiunque a sostenere che la questione sia chiusa e lo verificheremo con il prossimo governo.

Era il 5 dicembre 1967, quando fu arrestato Aldo Braibanti, che il titolo del film connota con uno dei suoi hobby, strano e curioso certo per la nostra odierna società. Allora invece, quando avevo 29 anni, avevo letto già nella mia fanciullezza con curiosità e con scienza (forse un tascabile BUR) La vita delle formiche (1930, in italiano 1932, assieme a La vita delle api del 1901) di Maurice Maeterlinck, drammaturgo, poeta e saggista, Nobel nel 1911. Non ricordo il successo della sua fiaba L’uccellino azzurro (1908), messa in scena a Mosca da Stanislavskij, da Luca Ronconi in Italia nel 1979.

L’ex-partigiano Aldo Braibanti non era solo un mirmecologo, hobby marginale, ma, oltre che a poeta, scrittore, filosofo anche artista poliedrico, sceneggiatore, regista, curatore di trasmissioni radio, un “genio straordinario”, secondo Carmelo Bene, suo amico e ammiratore. Del suo carattere disse Pasolini, altro suo ammiratore, che era «un uomo «mite» nel senso più puro del termine».

L’arresto per un reato ideologico mi sembrò allora strano, anche perché poco sapevo del latino plagium, ‘sotterfugio’, «la riduzione di un uomo libero in stato di schiavitù; anche, il furto di uno schiavo», e nella mia formazione classica richiamava «il fatto di chi pubblica o dà per propria l’opera letteraria o scientifica o artistica di altri». Allora appresi che il diritto penale contemplava nell’articolo 603 il reato di plagio: «Chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni.».

E qui fu la grande dimenticanza degli uomini che nel creare uno Stato completamente nuovo nel passaggio dal regime fascista e dalla monarchia in pochi mesi alla Repubblica, come era avvenuto in tutte le storie anche recenti di mutamento di sistema, gravissimo errore che ancora trova vuoti e contraddizioni. Nessuno dei padri fondatori del nuovo Stato, grandi statisti come De Gasperi e Togliatti, si preoccupò di sostituire i codici di diritto privato, ma ancor più anomalo e arrischiato il mantenimento del codice penale di Alfredo Rocco. Per dire che ancora ad oggi la nostra vita è regolata dal codice penale fascista, RD 19 ottobre 1930, n. 1398 (Gazzetta uff. 26 ottobre 1930, in vigore il primo luglio 1931), detto ineffabilmente codice della Repubblica o codice Rocco, con un arabesco di cassazioni nel testo dovute a decisioni occasionali e fortuite di sconfessioni di giudizi costituzionali. In questo caso, nonostante le proteste popolari dopo la sentenza, come richiamato da Luigi Lo Cascio nella presentazione e nell’epilogo del film, per dire di un gruppetto di intellettuali (prima la triade indiana Pasolini, Moravia e Morante, Eco, e di pochi simpatizzanti), la recisa protesta di Marco Pannella, denunciato per calunnia nei confronti del pubblico ministero, l’assordante silenzio di quel partito comunista di Luigi Longo che mal aveva visto l’amore del leader per Nilde Iotti, fermo più della DC ad una medioevale pruderie, l’obbrobrioso articolo rimase in vigore fino alla sentenza della Corte Costituzionale 8 giugno 1981, n. 96, che dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’intero articolo. Anzi nel settembre 1971 la Corte di Cassazione ne dichiarava definitiva la sentenza, che applicava per la prima volta in Italia il pretestuoso articolo 603 del Codice penale che prevedeva il reato di plagio: «Braibanti, un uomo adulto, volitivo, esperto, sottile, dialettico, controllato, tenace, 'omosessualmente intellettuale. Ha un vizio che deve soddisfare e che invade tutto il suo Essere psichico, che lo muove e lo domina; è indubbiamente colto anche se disarmonizzato e non integrato, ma è anche ambizioso, orgoglioso, immodesto; fisicamente svantaggiato, ha per legge di compensazione esaltato - ed è portato a sopravvalutare - le sue doti intellettive. Però è praticamente un fallito: scrive libri che nessuno legge; quasi cinquantenne, vive ancora una vita fatta di miseria, di panini imbottiti, di panni lavati da sé, di carità della madre, del fratello, degli amici. È preda di sete di potere, di dominio di rivincita, professa monismo e anarchismo, combatte la famiglia, società e Stato; disprezza la scuola e la morale; ripudia il conformismo dei più perché i più sono la gente fisicamente, psichicamente e sessualmente sana, normale, hanno cioè quel che a lui è stato negato».

Siamo ormai negli anni dello sbancamento del ’68 e dei governi Andreotti e Rumor.

La Consulta si accorse soltanto nel 1981 dopo circa 13 anni dalla condanna definitiva a nove anni di carcere per plagio, da parte della Corte di Assise di Roma del 14 luglio 1968 e della riduzione di pena da parte della Corte di Assise di Appello il 27 settembre 1969 a quattro anni (due condonati in quanto ex partigiano). Pertanto: «16. - L’esame dettagliato delle varie e contrastanti interpretazioni date all’art. 603 c.p. nella dottrina e nella giurisprudenza mostra chiaramente l’imprecisione e l’indeterminatezza della norma, l’impossibilità di attribuire ad essa un contenuto oggettivo, coerente e razionale e pertanto l’assoluta arbitrarietà della sua concreta applicazione. Giustamente essa è stata paragonata ad una mina vagante nel nostro ordinamento, potendo essere applicata a qualsiasi fatto che implichi dipendenza psichica di un essere umano da un altro essere umano e mancando qualsiasi sicuro parametro per accertarne l’intensità.». Perciò un anno dopo la Corte di Assise di Appello ordinò che la condanna fosse cancellata dal suo certificato penale. Egli visse già da allora in estreme ristrettezze tanto che già nel 1987 un gruppo di artisti e intellettuali firmò un appello in suo favore, ma solo nel 2006 gli viene concesso il vitalizio secondo la legge Bacchelli.

C’è da sottoscrivere con il sangue che i nostri nanetti politici si preoccupano di istaurare un regime presidenziale, preferibilmente con un Parlamento di semplice avallo di scelte di parte, mentre ormai da quasi 78 anni di Repubblica, nessuno si è sognato con i tanti giuristi di grido di metter mano ai codici e adeguarli alla nuova Costituzione e alla moderna legislazione, gli unici veri strumenti di gestione della democrazia. La prima cosa di cui si preoccupò Napoleone con il suo codice del 21 marzo 1804, ancora in vigore in Francia.

Eppure l’affaire Braibanti esplose in Italia del 1968 come scandalo e si valse di questo particolare delitto per processare e condannare un omosessuale, nella fattispecie reato ignoto alla legge perché il fatto non esisteva in una società che traeva linfa dal machismo, dote del leader Mussolini e quindi di tutti gli italiani. Il caso esplose in una fase di mutamento della società italiana che da lì a poco si sarebbe espressa nella “contestazione studentesca”, in quel ribollire di ideologie e di pretesi mutamenti radicali, che comunque oggi si vogliono leggere in versione revisionistica, fu di innegabile spinta ideologica, fino all’estremismo della negazione della famiglia, “la camera a gas”, quella famiglia che si colloca come vindice del diritto, istituzione in nome della quale una madre può consegnare il figlio ai torturatori per elettroshock con la pretesa di essere padrona assoluta delle azioni e delle ideologie del proprio figlio.

Il film riprende quegli atti processuali, ne rivede tutta la vicenda in un clima in cui l’outing e le trascrizioni anagrafiche di matrimoni omosessuali sembrerebbe che abbiano mutato la posizione della società rispetto al fenomeno. Ha un significato riprendere questo tema oggi? L’annunciata vittoria della destra, prospetta scenari nuovi e perciò il film cade a proposito. Non vorrei che si tornasse a quell’interpretazione psichiatrica o ad altre deviazioni pedagogiche, ma c’è da temerlo. Naturalmente è una bufala che nessun giornalista o politico connivente smentisce l’affermazione che il popolo italiano è diventato fascista e che la sorella d’Italia rappresenti il popolo italiano, però il 26% del nuovo record negativo del 64% di votanti rappresenta un misero 16,64%. Eppure nessuno rileva l’euforia di rappresentare tutti gli italiani con una quotazione così misera.

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