"Occidente, Ostpolitik vaticana e teologia della morte di Dio" di Gaetano Catalano

Per un lungo arco di tempo non è possibile assegnare un contenuto diverso ai due termini “cultura occidentale” e “cultura cattolica”. L’aspetto unitario della società dell’età media proiettava infatti la sua ombra in tutte le direzioni e, quindi, anche nel campo della cultura. Ma da alcuni secoli il processo inarrestabile di laicizzazione della società, determinato da fattori complessi e individuabile, per esempio, nella Riforma, nel Rinascimento, nell’Illuminismo, e nel Positivismo, ha fatto sì che la Chiesa perdesse nell’idealismo il monopolio della cultura. Le forze culturali di estrazione cattolica hanno operato in uno spazio sempre più ristretto conducendo, a volte, soltanto delle battaglie di retroguardia. Tuttavia di tratta di forze che non è possibile ignorare e che possono ancora recare un contributo non indifferente alla battaglia per la sopravvivenza ideologica e politica dell’Occidente. È, quindi, opportuno valutate con la massima attenzione l’atteggiamento assunto dalla cultura cattolica nel decennio che già ci separa dalla chiusura del Concilio Vaticano II, un periodo relativamente breve, ma denso di interesse; periodo che abbiamo convenuto di designare come ‘postconcilio’, con intento puramente cronologico e non, certo, polemico o provocatorio. È superfluo rilevare come l’orientamento della cultura cattolica postconciliare si riannodi o si ricolleghi in senso critico o adesivo ai temi trattati dal Concilio Vaticano II, anche per quanto riguarda il problema che qui ci interessa, ossia l’atteggiamento della Chiesa nei confronti del comunismo…Ora non si parla più di Chiesa, di ecclesia, ecclesiale. Si è sostenuto infatti che Chiesa e Papato debbono perdere le loro caratteristiche costantiniane. Debbono cioè abbandonare la prospettiva eurocentrico e occidentale che li ha finora caratterizzati. Il cattolicesimo dovrebbe assumere la diversa dimensione di una religione ecumenica o planetaria. E in take visione gli accadimenti della storia contemporanea, e in particolare l’avvento del comunismo, assumono addirittura un aspetto provvidenziale. Vi è stato persino in tentativo di dare una versione poetica a tale fenomeno. Un autore spagnolo ha proposto di aggiornare i noti versi del Péguy esaltanti il carattere provvidenziale dell’Impero romano, talchè oggi le terzine del Péguy dovrebbero leggersi così:”Per Cristo hanno risuonato i passi cadenzati /delle Legioni di Cesare dal fondo della Galliani alle rive del Memphis/ e per Cristo ha marciato la dialettica marxista / dalle fabbriche inglesi alla Russia zarista”. È superfluo aggiungere che alla base di tale orientamento dottrinario sta una pura diagnosi politica, quella cioè della crisi irreversibile dell’Europa e dell’Occidente. A questo punto chi come noi, volente o nolente, si trova imbarcato nella vecchia ma forse ben costruita nave che chiamiamo Occidente, difficilmente può nascondere il senso del suo disagio, della sua paura, della sua angoscia; e il senso di disagio aumenta ove si rifletta che alle affermazioni teoriche hanno fatto seguito le prime attuazioni di tale allucinante avventura verso il futuro: alludo, com’è chiaro, alla sciagurata Ospolitik del Vaticano. Appare, peraltro, facile dimostrare sul piano politico, storico, filosofico, l’inconsistenza di tali teorie. Mi limito a proporvi solo degli interrogativi. Quale senso può avere il tentativo di comprimere e congestionare tredici secoli di storia e di quale storia! usando un’espressione così antistorica quale è quella della “era costantiniana”? Non è forse partito più sicuro attendete che i posteri giudichino se il Concilio Vaticano II ha chiuso o inaugurato una nuova era? E ancora, perchè si è fatto ricorso proprio al nome dell’imperatore Costantino? Cioè di in imperatore che diede vita a un sista di pluralismo evadi libertà religiosa? Si vuole forse rivedere in edizione moderna la vecchia leggenda della “donatio Costantini”? Ma non basta. La fuga dall’Occidente, sognata dai dottori del nuovo corso post-conciliare indica una via inesistente perché “Occidente” non è un’espressione geografica, è un’espressione anche culturale e ideologica. E la civiltà che sostiene il cattolicesimo è una civiltà occidentale. Oltremare non è ancora sorto nessun “Regnum Francorum”; n’è esiste al uno che possa assumere il ruolo di Carlo Magno! Quanto poi al proposito di allearsi al comunismo per disgregarlo dall’interno, badate!, il proposito è infelice. Si tratta di un disegno talmente ingenuo e puerile che esso può meritare considerazione solo da parte di diplomatici sprovveduti e collezionisti di disavventure, quali sono appunto i monsignori della Ostpolitik…Altre e ben più gravi critiche potrebbero essere avanzate sotto il profilo teologico…Calando la Chiesa in in contesto storicistico, tutto il Vangelo cristiano sibriduce a un messaggio profetico, rivoluzionario, biblico-giudaico, che non ha nulla a che vedere con la tradizione cattolica…Siamo stati battezzati non nella Chiesa cristiana o planetaria, ma nella Chiesa Cattolica Apostolica Romana, che non può sussistere se non è identica a se stessa.
Ma a questo punto vorrei essere ancora più deciso allorché esamino le dottrine dei cosiddetti teologi della “morte di Dio” e gli altri titoli della loro pubblicistica: “fine della Chiesa tradizionale”, l’”avvenire della crisi”, “cattolicesimo in rivoluzione”, “la Chiesa dei poveri”, “la Chiesa e la lotta di liberazione dal colonialismo”, “Riboluzione nella base”, “Chiesa e sottosviluppo”, “le due Chiese”, “Chieda sotterranea-establishment cattolico” ecc. Orbene queste dottrine dei teologi della morte di Dio non sono altro che il connubiondibdue sottoculture: la sottocultura maldigerita dei marxisti e la sottocultura che viene insegnata nei Seminari Pontifici. Esse non meritano, pertanto, neppure l’attenzione di chi si sia abbeverato alle fonti autentiche della cultura del cattolicesimo e non sia digiuno di
Nozioni elementari di storia e di teologia, e abbia Snche una chiara visione della posizione raggiunta dalla scienza contemporanea che, come potrebbe ben dire Vintila Horia, è tutt’altro che disposta a combattere i valori dello spirito e del trascendente. La vasta letteratura postconciliare, come ha detto
Il cardinale Felici, una vera e propria eruzione di libri che svende come volata lavica sul versante della facile popolarità e del conformismo, ebbene questa colata lavica non solo ha perduto la sua forza, non solo si è raffreddata, ma raffreddandosi ha rivelato la sua vera natura: non si tratta di pietra lavica, ma di fanghiglia ed di neve che si scioglie come neve al sole di aprile! I libri del “nuovo corso” rimangono invenduti, le riviste del “nuovo corso” non hanno più abbonati, i libri del postconcilio vanno al macero. Tra il pubblico si diffondono invece i libri della riscossa anti conciliare, e mi basterebbe citare per tutti come esempio tipico i libri stampati contro la riforma liturgica di Tito Casini, che sono stati stampati alla macchia e che oggi si vedono ristampati in più lingue e in centinaia di migliaia di copie, rappresentando uno dei più grossi successi editoriali dell’Occidente. Anche se, come è ovvio, la stampa libera dell’Occidente non dedica nessun rigo ai libri di Tito Casini…sono ormai maggioranza quelli che più non credono al processo di secolarizzazione e mondanità ione della Chiesa, in quanto di sono accorti con cinquant’anni fi ritardo che questo processo partiva dalla premessa che la Chiesa fosse in grado di risolvere tutti i problemi dell’uomo moderno! Credo così di potere constatate conclusivamente che i teologo della morte di Dio, se sono forse in tempo per assistere alle nozze incestuose dei loro partiti confessionali con la intollerante chiesa comunista, sindoni radunati con troppi zelo ed eccessivo anticipo per presenziare ai funerali del buon Dio, che continuerà, impassibile, a regnare “per omnia saecula saeculorum”.
(Gaetano Catalano, Postconcilio e comunismo, relazione al congresso internazionale dell’A.I.C.O. “La cultura del postcomunismo”, Roma, 7-8-9 marzo 1975, nel volume “La civiltà del postcomunismo”, a cura di Armando Plebe, edizioni Centro Editoriale Nazionale, Roma, 1975)
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Così il Professore ricordò Beppe Niccolai
Caro Carli, la scomparsa di un amico fraterno e di un commilitone tanto esemplare, quale Beppe Niccolai, lascia nel mio animo un vuoto incolmabile e voglio cullarmi nell’illusione, che per me è certezza, che il Suo spirito sarà sempre presente a proteggere le insegne della nostra causa.
Con Niccolai avevo la consuetudine di proseguire le nostre conversazioni per iscritto. Amavamo, infatti, riprendere quel costume, ormai smarrito, degli incontri epistolari. E tu ben lo sai, perché molte mie lettere sono finite per iniziativa di Niccolai proprio sulle colonne de “L’Eco della Versilia”. Restano però ignorate, perché da me gelosamente custodite, le Sue risposte, nelle quali rifulgono le doti del Suo grande ingegno e della Sua non meno apprezzabile modestia.
Desidero farti conoscere la penultima che mi ha scritto. Mi diceva: «… ho ripensato alla tua lettera. Ti allego una nota sul problema del Mezzogiorno. Ascoltami: un tuo giudizio -se è negativo cestina il tutto-; se c’è qualcosa, una preghiera: forniscimi una possibile bibliografia sull’argomento. Ripeto: se c’è qualcosa di valido io penso che si possa costruire una politica. Nessuno meglio di te può aiutare alla bisogna. Tante cose care e grazie, Giuseppe Niccolai».
È una traccia preziosa quella disegnata con tanta lucidità da Niccolai sulla quale è necessario meditare anche in senso critico. Il mio giudizio fu dettagliato e largamente positivo.
Sarebbe forse opportuno che il battagliero periodico che tu dirigi gli desse spazio anche per onorarne il ricordo.
 
(lettera al direttore, “Tabularasa”, n° 5 Anno I, 31 Agosto 1992)

 

 
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