Tommaso Romano, "Il barone Bebbuzzo Sgàdari di Lo Monaco" (Ed. Thule) - di Lorenzo Fabris
- Dettagli
- Category: Scritture
- Creato: 04 Aprile 2021
- Scritto da Redazione Culturelite
- Hits: 2812
Luglio 1954, San Pellegrino Terme. Nella cittadina lombarda si tiene un convegno durante il quale nove letterati famosi presentano altrettanti scrittori esordienti. Tra questi c’è uno sconosciuto poeta siciliano la cui opera viene presentata da Eugenio Montale. Si tratta del barone Lucio Piccolo di Calanovella ed è arrivato dalla Sicilia in compagnia di un cugino, anch’egli letterato, anch’egli nobile, tale Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Durante il lungo viaggio di ritorno i due parlano di letteratura, come del resto sono soliti fare in ogni momento sin dai tempi della giovinezza, e il principe di Lampedusa, colto forse da un moto di invidia per il fortunato cugino, matura la decisione di scrivere un romanzo che a
vrà negli anni successivi una vita travagliata fatta di rifiuti editoriali e di postumi riconoscimenti. La vicenda è nota ed è riportata in tutte le biografie di Tomasi di Lampedusa ma quello che non tutti sanno è che in un primo momento Lucio Piccolo aveva pensato di farsi accompagnare a San Pellegrino dall’amico Bebbuzzo Lo Monaco. La cosa non era andata in porto e con il senno di poi verrebbe da dire che è stato meglio così perché forse il caso o il destino ci avrebbero privato di quel grande capolavoro della letteratura che è Il Gattopardo. Il medesimo caso e il medesimo destino, tanto benevoli nei confronti del principe di Lampedusa, hanno tuttavia congiurato nel tenere nascosta una delle più brillanti personalità della Sicilia intellettuale e artistica del Novecento, appunto quel Bebbuzzo Lo Monaco di cui oggi possiamo finalmente conoscere la vita e l’opera grazie a un libro pubblicato dalla casa editrice Thule e scritto da Tommaso Romano. Il barone Bebbuzzo Sgàdari di Lo Monaco, questo il titolo del volume, non è una semplice biografia bensì la rievocazione di un mondo e di un clima umano e intellettuale. Il mondo è quello palermitano della prima metà del Novecento mentre il clima è quello unico e irripetibile, indissolubilmente legato a quella che potremmo chiamare, citando il titolo di un saggio di Benedetta Craveri uscito qualche anno fa, civiltà della conversazione, ovvero un fitto sistema di rapporti e conoscenze che permetteva a sensibilità e personalità diverse di incontrarsi, ritrovarsi e confrontarsi nel nome di una superiore educazione al bello e del comune amore per l’arte. Dal libro emerge il ritratto di un uomo eccezionale, di una personalità unica, di una individualità forte e originalissima, di una intelligenza capace di spaziare dalle arti figurative alla musica fino alla letteratura e sempre con la stessa acutezza e la stessa indomabile passione.
Nato a Palermo nel 1906 e morto nella stessa città natale nel 1957, Pietro Emanuele Sgàdari di Lo Monaco appartiene a una nobile famiglia originaria delle Madonie palermitane. Della sua infanzia e dell’adolescenza si sa poco ma è ragionevole immaginare che siano entrambe trascorse a contatto con quelli che saranno sempre i grandi amori di Bebbuzzo, come viene chiamato fin da subito in famiglia, e cioè l’arte, la musica, i viaggi. Un ruolo decisivo in questa particolare educazione sentimentale lo gioca anche la religione e non potrebbe essere altrimenti su un’isola in cui gli dei delle religioni precristiane si sono presto fusi e confusi ai santi della tradizione cattolica, generando una religiosità unica e affascinante, in cui Iside e la Vergine sono per così dire accomunate in un unico volto materno e luminoso. Lo stesso palazzo di famiglia è del resto una fonte inesauribile di suggestioni con la sua biblioteca contenente più di diecimila libri, i mobili d’epoca, le ceramiche, i quadri. Possiamo immaginare il piccolo Bebbuzzo che vaga tra le grandi stanze in cerca di manoscritti e testi antichi, magari proprio quelli che inizierà a tradurre molto presto dal francese. Tra questi va ricordato il Testamento di François Villon scritto nel 1431 e di cui Bebbuzzo fornirà nel 1930 la prima traduzione in italiano. Nella nota conclusiva al volume si trovano queste parole del traduttore: “Traducendo François Villon ho inteso fare non solo opera di pura poesia, scevra da qualsiasi pedante e soffocante erudizione. Ho voluto tradurre il mio poeta, adattandogli lo stile e la sensibilità mia e del mio secolo, pur mantenendomi fedelissimo al testo, perché in François Villon ho sentito un’anima incredibilmente vicina alla nostra ed ho scorto il padre della poesia moderna”. L’educazione estetica di Bebbuzzo fiorisce del resto tra tradizione e modernità, tra l’amore per i classici e la scoperta di nuovi scrittori e nuove tendenze musicali. Amico di Filippo Tomaso Marinetti, estimatore di Gabriele D’Annunzio, sostenitore di giovani talenti artistici, Bebbuzzo non è certo un passatista e però è consapevole di quanto il passato sia ricco di tesori inestimabili e unici. Anche in questo Bebbuzzo somiglia al suo amico Lucio Piccolo, fautore di una poesia intesa come memoria e contemporaneamente attratto da ogni nuovo fermento culturale proveniente dall’Europa negli anni tra le due guerre. Come sottolinea Romano, sono proprio gli anni Trenta a costituire il baricentro della vita culturale di Bebbuzzo il cui salotto diventa luogo di ritrovo fisso per gli artisti e i letterati di Palermo. Nello stesso periodo il barone intensifica anche la propria attività di pubblicista ed è in prima linea nel tentativo di creare uno spirito di camaraderie tra quanti in Sicilia si occupano di letteratura e di musica. In uno scritto del 1933 giunge a rievocare con nostalgia la Palermo del passato, quella della Belle Époque, in cui gli artisti erano incoraggiati e sostenuti, le mostre finanziate e frequentate e insomma l’Arte era di casa. Uno dei meriti del libro di Romano sta proprio nell’aver messo in luce due aspetti apparentemente contraddittori di Sgàdari Lo Monaco: da una parte l’estrema modernità che lo porta a recensire e apprezzare pittori e scultori del suo tempo molti dei quali destinati a diventare famosi nel corso degli anni in ambito internazionale e dall’altra la consapevolezza di quanto è andato perduto, irrimediabilmente, nel tramonto di quel mondo di ieri che nella Belle Époque ha avuto il suo canto del cigno. E però forse è proprio qui il segreto di una personalità tanto affascinante come quella di Bebbuzzo, letterato e intellettuale libero e anticonformista come pochi altri, ovvero in questo suo saper cogliere le suggestioni estetiche senza preconcetti di alcun tipo, filtrando tutto attraverso la sensibilità e la cultura e restituendo poi sulla pagina il proprio giudizio e la propria valutazione. Pur nel rispetto delle scuole Bebbuzzo non tollera che un’artista venga incasellato o addirittura ridotto a un indirizzo o a una tendenza. La musica, l’arte e la letteratura occupano le sue giornate, le sue discussioni, i suoi articoli che escono numerosi sui giornali e l’attività di Bebbuzzo non conosce sosta se non nei famosi sonnellini che è solito fare di tanto in tanto anche nel bel mezzo di una discussione. Allora, quando cioè Morfeo gli si avvicina e lo accoglie nel suo dolce abbraccio, lui si scusa gentilmente con gli ospiti, li prega di proseguire la conversazione e si addormenta per poi risvegliarsi dieci minuti dopo pronto a riprendere il discorso.
Un eccentrico potremmo dire e però sarebbe necessario restituire alla parola il suo vero spessore e il suo reale sapore. Proviamo a farlo ricorrendo ad alcune righe tratte da un bellissimo articolo uscito su Il Borghese di Leo Longanesi dopo la morte di Bebbuzzo. Il pezzo, a firma di Enrico Fulchignoni si intitola L’ultimo barone e Romano lo riporta integralmente all’interno del libro:
I pranzi notturni nel suo palazzo di Palermo avevano una sinistra bellezza gogoliana. C’era, infallibilmente, a tavola, la zia di Bebbuzzo, una vecchia dama di corte della Regina Elena, che aveva quasi cent’anni, era completamente sorda ma ancora sfavillava il sussiego. Una furibonda regale vitalità come in certe duenas dipinte da Goya. Un cameriere in polpe si aggirava per la stanza reggendo solennemente i vassoi. Era un vecchio ultrasettantenne, completamente sordo anche lui. Trasparenti tovaglie di lino, candelabri dell’epoca aragonese, mirabili porcellane di Sassonia. Il pranzo si svolgeva, per così dire, a tre differenti livelli acustici: a livello della sordità totale dominava la dama di corte ( che infallibilmente a un certo momento cominciava a citare con voce di bronzo versi di Carducci e di Victor Hugo), al livello della sordità parziale funzionava il maggiordomo ( che rievocando gli anni d’infanzia di Bebbuzzo ogni tanto si commuoveva e si chinava a baciargli la testa) e finalmente al livello dell’acustica normale galleggiava la voce sua, del cinquantenne anfitrione. E questi tre dialoghi, ognuno per conto suo, si svolgevano contemporaneamente. In modo che l’ospite non sapeva se lasciarsi intenerire più dai versi della dama di corte, dagli spaghetti e souvernirs del maggiordomo o dagli accidenti che il padrone di casa, sicuro della impunità acustica, dedicava col sorriso sulle labbra, a voce alta, ora uno ora all’altro dei due sordi”.
Ecco, ci sembra che una descrizione del genere possa davvero riportare la parola eccentrico al suo reale significato. La vita di Bebbuzzo si svolge in un mondo e in un clima che trasformano in stile la fuga elegante dalla regola e dalla normalità. Un palazzo avito, una tavola imbandita, una zia sorda che declama versi, un maggiordomo che si commuove al ricordo del suo padrone giovinetto e si china per baciarlo e poi le luci, i candelabri, i mobili, tutto questo contribuisce a creare un’atmosfera di libertà e gaiezza che è essa stessa poesia. Nel nome del bello, delle cose belle, delle belle conversazioni e ovviamente della bellezza artistica, la vita assume una dimensione necessariamente eccentrica rispetto alla monotonia e al grigiore della quotidianità prosaica e inelegante.
Eccentricità, dunque. E stile. Oggi questa parola non dice quasi nulla e però un tempo essa aveva un suo significato profondo e legato molto più all’estetica che alla morale. Il discorso porterebbe lontano e allora, ancora una volta, la cosa migliore è restare ancorati al saggio di Romano e riferirsi a due circostanze della vita del barone Bebbuzzo Sgàdari di Lo Monaco che chiariscono meglio di ogni discorso che cosa qui si intenda per stile: l’omosessualità e la fede monarchica. Bebbuzzo è omosessuale, ma in lui non c’è nulla di quell’eros greco e pagano che risplende, per esempio, nelle pagine di Giovanni Comisso. Cattolico, devoto e praticante, Bebbuzzo non può vivere la propria condizione con la spensieratezza di chi con la mente e con il cuore abita ancora nell’Atene di Socrate, eppure non vi sono in lui nemmeno vergogna o timore dell’altrui opinione e dell’altrui giudizio. Ovviamente non vi è ostentazione alcuna, insomma siamo anni luce lontani dalle moderne rivendicazioni di piazza, dai cortei e dall’isteria del politicamente corretto. L’eleganza, la raffinatezza e la fierezza aristocratica modellano anche l’eros del barone, che del resto morirà celibe e senza figli. Scrive Romano: “Nel tempo Pietro andrà accettando, non senza dissidi interiori, il suo orientamento di genere omosessuale, fino a non farne- nel secondo dopoguerra- alcun mistero, anzi! Sfidado con libertà – come un Oscar Wilde di provincia del profondo sud Europa- dicerie, pettegolezzi e maldicenze”.
Anche la fedeltà a una tradizione come quella monarchica è tutta in nome dello stile e le pagine che Romano dedica ai rapporti di stima e di amicizia tra Bebbuzzo e Umberto II di Savoia sono al proposito illuminanti. Amico personale del re di maggio- titolo del tutto fuorviante dal momento che la vita di Umberto II non rappresenta un fuoco di paglia nella storia di Casa Savoia, ma questo è un altro discorso- Bebbuzzo rimane fedele al suo sovrano anche dopo che questi è partito per l’esilio. Pur senza impegnarsi politicamente nelle fila del partito monarchico, Bebbuzzo continua ad essere devoto al re al punto da rendergli visita più volte in Portogallo. Una devozione simile a quella di Tomasi di Lampedusa il quale, pur convinto dell’impossibilità di un ritorno della monarchia in Italia, sempre si dichiarerà monarchico, per quegli stessi “vincoli di decenza” che uniscono il protagonista de Il Gattopardo alla dinastia dei Borboni. Ci sia permessa a questo punto un’ultima divagazione nei mondi della poesia. Ci piace pensare che Bebbuzzo, letterato, esteta e sognatore, nutrisse nei confronti della monarchia la stessa dolce persuasione e la stessa tenera adesione che Roberto Pazzi ha affidato ad alcuni suoi versi che riportiamo qui per chiudere queste brevi note sul libro di Tommaso Romano:
Certo quando hanno cambiato
forma dello Stato
non hanno pensato
alle esigenze dei poeti