PRODIGIO NELL’ISOLA ERRANTE: LA NASCITA DI FEBO E DI ARTÈMIDE – RICERCA STORICA SUL MITO DI GIOVANNI TERESI

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Apollo ed Artemide con archi e frecce 

 

 Non meno poetica di quella di Afrodìte è la nascita di Febo, la cui madre andò di terra in terra, di isola in isola, di casa in casa, supplichevole chiedendo ospitalità. Ma nessuno osava accogliere questa madre dolorosa: tutti temevano l’ira della sdegnosa Era.

Soffriva Latona, sventurata madre dalla quale doveva nascere un dio, figlio di Zeus, più forte e più bello di Ares. E pervenne nell’isola di Delo e così parlò:

Io vago straniera per terra, tu per le onde, Isola bella!

 Tu sarai la più splendente di tante che il mare Egeo bagna, se vorrai accogliermi.

Un tempio avrai assai venerato dagli uomini; accoglimi.

Giurò Latona e l’isola l’accolse.

Essa fermò il suo vagare per gli azzurri flutti, trasportata dal vento; restò immobile, quasi per incanto su radici ben salde. Trascorsero nove giorni. Al decimo calmo era il mare, sereno il cielo; ovunque era pace, quando un clangore profondo, come di bronzo percosso, si sparse per ogni dove; sulle aride zolle di Delo si versò una benigna pioggia d’oro ed il mare si mosse allegramente fin dai più cupi abissi: Latona aveva generato Febo.

Dall’Olimpo scesero moltissime dee; anche Temi, madre delle Ore e delle Parche, dea della giustizia, scese e nutrì il dio neonato con ambrosia e nettare divini.

Prodigio. Rotte le finissime fasce, rotti gli aurei legacci, Febo saltò in piedi: stupirono le dee. Per tutta Delo si diffuse soave fragranza e germogliarono piante di soavissimi profumi.

Ed eccolo già giovane; ecco i suoi lineamenti splendidamente perfetti; pieno di forza; l’animo suo audace e sensibile: dio della bellezza, della musica e della poesia, dio solare che fugge le tenebre, dio tremendo dall’arco d’argento, nume vaticinatore, nume mèdico.

Era vegliava dalle scoscese rupi dell’Olimpo e nel suo cuore ancora più cresceva l’ira; evocò, allora, un ferocissimo serpente, Pitone, e lo spinse contro Febo. La lotta avvenne a Deldi.  Febo prese l’arco d’argento e le saette infallibili. Dardeggiò. La brutta bestia s’aggirò colpita qua e là là: un filo di sangue gli colò giù per le viscide spire e bruttò la terra. Si dibatté, urlò. Urlo di morte!

Febo scuoiò il serpente e con la pelle dalla fredda lucentezza rivestì il sacro tripode che ripose nel tempio che quivi edificò.

Dalla sua vendetta d’Olimpo la regina degli dei ebbe grande ira.

Il nome di Febo fu sostituito con quello di Apollo e che se Febo in un primo momento rappresentò il sole e la luce, distinto tuttavia da Elios, che è il vero dio della luce, in un secondo momento, invece, Febo-Apollo appare, soprattutto, come il dio della musica e del canto.

Molti furono i centri di culto e i santuari a lui dedicati. Ma su tutti s’ergevano il tempio nella nativa Delo, dove ogni cinque anni si celebravano le Dèlie, e il santuario di Delfi, la cui località era considerata come centro del mondo.

Fra le feste a lui dedicate ricordiamo, ad Atene, le Delphinia, che salutavano le primizie. Aspetto guerriero assunse, infine, la festa dedicata ad Apollo nelle Carnee.

La medesima isola e le medesime dee, che avevano accolto Febo, accolsero anche Artèmide, la bionda sua gemella.

Molta somiglianza di temperamento tra i due; infatti, la sorella, al pari del fratello, amava l’arco, la faretra e le saette dalla sottile punta d’oro, che, scoccate, andavano a dritto segno. Era molto bella. S’aggirava per le selve inesplorate, per valli ombrose, per balzi montani, per ameni boschi. In compagnia di Ninfe e di giovanette mortali trascorreva le sue giornate, inseguendo lepri, schiva di nozze.

Un giorno, stanca per il lungo errare, accaldata dal sole estivo, deposto l’arco e il turcasso, si ristorava in un laghetto, piacevolmente circondato da alti cipressi, da fitti lecci, da fronzuti faggi. Lì pervenne pure, spinto dal suo maledetto fato, attirato da una cerva, un giovane, Atteòne, famoso cacciatore.

Subito egli la conobbe e restò a guardare estasiato la bella dea, che spiccava fra le compagne, sebbene esse stesse fossero belle.

S’avvicinò Atteòne, quasi inconsapevolmente, per ammirare più da vicino la dea. Fuggirono, gridando, le compagne e Artèmide rimase sola. Cercò le armi, non avendole trovate, raccolse acqua con il cavo della mano e la spruzzò in faccia al cacciatore …

Subito ad Atteòne spuntarono sul capo le corna, il collo gli si allungò, gli orecchi gli si appuntirono, le mani gli si mutarono in zampe; il corpo gli si coprì di pelo macchiettato, la sua voce non fu più quella di un uomo.

In cervo si tramutò e fuggì. Fuggì disperatamente inseguito dai suoi stessi cani, da essi dilaniato. Povero Atteòne! Eppure Artèmide era d’animo gentile; se fu spietata fu perché volle punire gravi offese: uccise con le sue frecce le Niòbidi superbe, il cacciatore Oriòne, il gigante Tìzio, figlio di Gea.

Protesse amorevolmente le donne che a lei si rivolgevano e sempre ne alleviò i dolori. Amava la caccia e null’altro desiderava.

Accese la fantasia degli antichi e dei moderni poeti, che ne cantarono le belle gesta, le virtù preclare. Essi vollero anche raffigurarla nella Luna, che rischiara il cielo notturno, motiva d’estasi per gli uomini di tutti i tempi. Ebbe vari culti locali. Ai tempi in cui visse Platone, una divinità forestiera, Bendis, in onore della quale una processione si recava da Atene nel Pireo, fu identificata in Artèmide.

Giovanni Teresi

 

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