Prefazione di Giuseppe La Russa a "Sul far della poesia" di Guglielmo Peralta

Poesia e Bellezza

Un uomo osserva la sua mano da vicino. Prima il palmo, poi il dorso. Poi le esamina entrambe ed emana un sospiro lungo. Non basta, occorre che si guardi bene allo specchio, che scruti bene i suoi occhi, che provi a fare un sorriso. Le sue parti del corpo mostrano i segni di un tempo trascorso e vissuto, la forma delle sue labbra è la stessa che aveva da bambino, ma l’espressione adulta sembra aver inghiottito quell’innocenza primigenia. Quell’uomo allora si allontana di poco, spegne la luce della stanza e attorno a sé è il buio profondo; si ritrova di nuovo davanti lo specchio e si chiede se, nonostante il buio, la sua immagine sia ancora riflessa su quello specchio, se i giorni passati si notino ancora, se quello sguardo sia capace di infrangere quel buio e di posarsi sulle impronte del tempo trascorso.

Nel buio di quella stanza, nell’oscurità che si offre allo sguardo come negazione, è ancora tangibile la vita?

Sul far della poesia. La raccolta poetica di Guglielmo Peralta ci si offre così, come una domanda sita tra la luce e il buio, uno spazio-cerniera dell’essere, come una conciliazione tra i due opposti, come l’inizio di un percorso che stiamo guardando dalla sua conclusione, come il tempo ormai lasciatosi alle spalle da quell’uomo che, in quell’interstizio tra chiarore e tenebre, scorge il suo corpo come depositario dei frammenti, di tutti i lasciti residuali del tempo; è una poesia che vuole, verso dopo verso, decretare la vittoria dello sguardo nella negazione di esso, la preminenza della vita nella consapevolezza della sua dissonanza. Una domanda, quella posta in precedenza, che appartiene dunque all’uomo, alla sua carne, al palmo della sua mano, ma che al contempo è propria della poesia stessa: nel buio del secolo, è ancora tangibile la poesia? Una compenetrazione della poesia nella vita, e viceversa, che in Peralta non solo è vistosamente esibita, ma rappresenta esattamente il fulcro attraverso cui leggere i suoi versi:

Nella luce infinita del suo canto / dove si cela il senso alla radice / mieto la vita e il verso che fiorisce / Così cantando nasco dal suo verbo

Sono, queste, parole tratte dal testo La vita e il verso, laddove la congiunzione potrebbe benissimo essere letta come voce del verbo essere, oppure come semplice voce: da coltivare e da cogliere nella sua essenza primigenia, nella sua luce virginea, perché è proprio lì – ci illumina Peralta – che risiede il senso materno della parola, della poesia, dei giorni trascorsi. Che la poesia di Peralta si presenti come domanda aperta è probabilmente il dato di fatto più eclatante, ma è proprio nell’atteggiamento interrogativo che trova luogo il senso del suo versificare teso oltre quella notte e quel buio che, lungi dal negare lo sguardo – come si vedeva – accolgono in sé l’apparizione perpetua della vita stessa, come si può evincere da un testo, chiaramente modulato su Leopardi: Non è forse la notte? Non è forse la notte, ci dice il poeta, che scrive il suo poema, che si offre a noi come fecondatrice di energia vitale, come forza che dall’humus più profondo prorompe verso vette sconfinate? Verrebbe da parafrasare: non è forse la notte la poesia stessa che sa farsi luce? Ecco, probabilmente, il cardine della poesia di Peralta. In questo testo, così come nella raccolta intera che reca nel titolo stesso l’immagine serale, gli opposti divengono uno e tendono ad una comunione reciproca. Si tratta, questa, di una figura che in Peralta ricorre spesso, così come frequente è l’espediente della conciliazione di immagini di senso opposto: d’altra parte, il suo neologismo Soaltà, emblema di quel “luogo” sito a metà tra il sogno e la realtà, offre proprio il senso di due concetti che si muovono in una sorta di matrimonio parallelo e continuo. La poesia di Peralta vuole situarsi proprio in quello spazio che fa da perno tra due opposti ed è essa stessa lo strumento che può unirli simpaticamente, così come apertamente affermato:

Come si cercano e come si amano gli elementi! / Con leggerezza il fuoco tende verso l’aria / che in dolce zefiro spirando / con l’umido ricambia il suo calore.

Come accade nella raccolta, il punto di partenza è prettamente filosofico e, in questo caso, di matrice eraclitea e tende ad una visione dialettica dell’Essere, visto nel suo perpetuo divenire: «non ascoltando me – diceva Eraclito – ma la parola della verità, è saggio riconoscere che tutto è Uno, e che l’Uno è tutto». Il punto di partenza è squisitamente filosofico, si diceva, ma poi il discorso in Peralta si allarga ancora una volta alla dimensione poetica e all’immagine del verso fecondatore, come si può evincere dal finale del testo poc’anzi citato:

Elementale natura io ti corteggio / per il fertile canto che mi nutre / e per la simpatia / che mi fa simile a te e mi rapisce!

Viene in mente, in proposito, una bella immagine che dello strumento poetico fa il poeta Franco Loi, genovese ma consacratosi nella versificazione in dialetto milanese e scomparso nel gennaio del 2021. In una intervista esplicita la stessa idea che abbiamo riscontrato in Peralta, ossia di una poesia come rapporto privilegiato con l’Essere, di strumento e tramite tra l’uomo e le cose: «la vita è fatta di cose che conosciamo e cose che non conosciamo. Dice giustamente Einstein: “non si perviene alle leggi universali per via di logica, ma per intuizione”. E l’intuizione non la facciamo noi, con la testa. È possibile nel rapporto simpatetico con l’esperienza. Cioè amoroso con l’esperienza. Perché è il rapporto d’amore con l’esperienza che ci fa raggiungere anche ciò che non conosciamo». La “simpatia” di cui Franco Loi parla è un’operazione intuitiva che l’uomo/poeta, o l’uomo/creatore se seguiamo l’etimologia del termine, può far proprio in virtù di una capacità di pieno rapporto con le cose, di una coscienza sostanziale all’Essere e di uno sguardo che nell’amore e nella comunione, per dirla con Peralta, può trovare il senso compiuto dell’esperienza. Potremmo richiamarci alla dottrina di Empedocle – riportata anche da Dante nel canto XII dell’Inferno – e al suo ciclo cosmico, laddove la vita sta nella tensione di due forze, la concordia/ amore la discordia/odio: in questa continua ed eterna dialettica sta all’uomo saper com-prendere questa realtà. Ecco dunque il motivo per cui – si diceva – la poesia di Peralta può essere considerata una domanda aperta, perché questa comprensione della sostanza ultima dell’Essere e dell’essere al mondo è lo sforzo che di continuo tocca all’uomo capace di contemplare. Proprio la contemplazione è o può essere un elemento chiave che si annida tra i versi peraltiani: vicino, probabilmente al concetto di otium dei latini, la contemplazione in Peralta racconta di un atteggiamento attivo afferente al proprio animo più profondo, uno strumento privilegiato di conoscenza e osservazione del reale. Così attento all’uso della parola, non può certamente essere sfuggita a Peralta l’etimologia stessa del termine che vede nella parola ‘contemplazione’ il prefisso -cum che indica il mezzo, lo strumento e -templum che designa lo spazio del cielo che l’augure circoscriveva per osservarlo e trarne i vaticini. Guardiamo questo atteggiamento più da vicino attraverso la lettura di un importante testo:

 

 

LO SGUARDO E IL MONDO

Un sole è l’occhio nel cui magico cerchio /si apre lo spettacolo / La sua orbita attrae il mondo che vi fa ingresso / festoso e nel cristallino sognano con la materia / tutti gli esseri e gli elementi / Tutto è nuovo e tutto si purifica nella contemplazione / Ogni cosa si fa buona e bella per il sognatore / che la veste del suo s-guardo E l’intero globo si ammira / nella sua esaltante bellezza / Un tripudio di luce incanta la pupilla / dove io abito e sono

E d’un tratto accade il miracolo

M’inondo d’infinito e converso con tutte le creature / E l’universo mi guarda e cresce in me la visione / Io amo il sogno che si versa nella parola / Amo la rotondità dell’occhio che mi unisce alla terra / e amo la parola che mi fa cosmo e scrittura / Ma sopra ogni cosa godo da buon sognatore / della vita segreta dei dormienti rivelata / da una lingua dolce, di radice

 Abbiamo deciso di riportare per intero il testo poiché si tratta probabilmente di uno dei punti cardine su cui appuntare l’attenzione: la poesia, che tratta densamente le tematiche più presenti all’interno della riflessione di Peralta, si snoda tra l’elogio dell’atteggiamento contemplativo di cui si diceva, la fiducia nella parola, la comunione con la parola poetica. Non è certamente un caso che il testo successivo, nella silloge, sia intitolato Al fuoco della poesia. Il dipanarsi filosofico/esistenziale è ancora una volta evidente, vi si accenna ancora alla materia come sostanza feconda e fecondatrice di tutti gli elementi che, nella loro discordanza e unione, formano il tessuto vitale. La parola chiave ‘contemplazione’ è posta proprio immediatamente dopo questo breve preambolo di stampo filosofico e introduce alla tematica che fa da snodo all’intera speculazione di Guglielmo Peralta: lo «s-guardo», parola qui introdotta attraverso una sagace evidenziazione del prefisso che isola il verbo ‘guardo’, coniugato alla prima persona, con l’io del poeta che si pone solitario alla visione e alla contemplazione, per l’appunto, del mondo. Questo ‘io’, posto così in evidenza, poi, sembra quasi richiamare l’io narrante epico, basti pensare ad Omero o Virgilio che esordiscono nei loro proemi con “Io canto”, espressione che tra l’altro in Peralta troviamo esplicita in DentroFuori («Io canto il cielo invisibile […] Io canto la pura dimora»). La contemplazione, si diceva. Come ci indica l’etimologia del termine, che poc’anzi abbiamo riportato, la parola che Peralta utilizza in una posizione così enfatica sta ad indicare proprio la circoscrizione da parte del poeta di un ambito di cielo, o di mondo in questo caso, per trarne sentenze “augurali” (si legge in Il quinto elemento «Ma è nell’azzurro che si svela l’anatomia delle ombre salgono le maree / e la vita riempie il cuore degli elementi»). Il punto a cui Peralta arriva attraverso l’osservazione assorta, attraverso uno sguardo che è più mentale che fisico, è la consapevolezza che non solo sta osservando il mondo, ma di essere esso stesso mondo, di esserci e di vivere in comunione con esso. Lo s-guardo così inteso, questo atteggiamento simpatetico nei confronti dell’esperienza è il primo e più importante snodo a livello di conoscenza del sé e di sé nel cosmo, di una profonda e più vera percezione del proprio essere infiniti nella consapevolezza del proprio essere transeunte. Ed è proprio in questo spazio/cerniera che va a situarsi la poesia, perché questo essere “inondato di infinito” Peralta lo ottiene con la parola e nella parola che lo rende, panicamente universo, abitatore e abitato dell’Essere, uomo la cui «esistenza è un soggiorno sul far della poesia».

Nella immagine poetica può venir meno ogni sorta di dilacerazione esistenziale, dunque. La poesia, sempre etimologicamente intesa, riesce a creare vita in ascolto della vita, è madre perpetuamente feconda. Ne discende, nella poetica e stilistica di Peralta, una forte attenzione alla parola intesa come Verbum sacrale. Un’attenzione cui l’autore non è certamente nuovo: la parola “esatta” la possiamo riscontrare già nei romanzi, negli articoli di critica. Nella poesia si susseguono giochi di parole, univerbazioni (milleunaluce, sempreverde), neologismi (Kalosfera), tecnicismi, termini aulici e più vicini al parlato. Il tutto avviene in nome di una fiducia totale nel verbo, capace di abbattere barriere e oltrepassare mondi, di fare da tramite tra l’umano e il divino; è nella parola che la discordia degli elementi può diventare comunione. Se in principio era il Verbum, nella vulgata latina della Bibbia, all’origine vi era il Logos, secondo la traduzione greca: ciò indica che agli albori dell’uomo vi era la parola, intesa però appunto come Logos, la cui radice richiama al ‘legarsi’, a ciò che quegli elementi può tenere insieme, e da qui alla logica, ossia ad un evolversi del cosmo all’insegna dell’ordine e non del caos, dell’amore e non dell’odio. Dire Parola e dire Amore, in Peralta, è probabilmente formulare un teorema che ha la stessa radice nella genesi stessa del mondo. La parola poietica è quella enunciata dal demiurgo nell’atto della creazione stessa ed è ciò che tiene sempre viva la tensione dialettica tra gli elementi, ma in una prospettiva di unione, comunione e bellezza. Ecco, appunto, la bellezza, l’approdo alla domanda della poesia di Peralta. Questa consapevolezza cui il poeta arriva, questo sentirsi parte integrante del dettato cosmico è probabilmente la bellezza cui esso aspira e cui deve e vuole arrendersi. Oltre a notare che nella silloge la parola ‘bellezza’ ricorre ben quaranta volte, possiamo apprezzarne la portata filosofica ed esistenziale in questi versi:

Una passione ardente scorre nelle vene-sorgenti / Più energica di una centrale nucleare / più potente d’innumerevoli bombe / più eruttiva di qualsiasi vulcano / versa fuoco in moltissime lingue/ da incendiare il pianeta / E ci invade e ci dà scacco con saggezza / Siamo sotto attacco dell’invincibile Poesia!/ E non abbiamo scampo E non abbiamo scelta / Arrendiamoci costi quel che costi / alla Bellezza

Poesia e Bellezza diventano così un tutt’uno capace di incendiare il pianeta, di inondarlo di desiderio ardente e proficuo. Lo stesso desiderio di quell’uomo che nel buio della stanza continua a chiedersi se il suo volto sia ancora riflesso in quello specchio, se nelle tenebre la luce continui, se nell’assenza dello s-guardo la vita ci possa essere ancora. Quell’uomo, con maturata consapevolezza e saggezza, può passare la propria mano sul proprio viso, ne può scorgere tutti i segni che, tangibili o no, lo informano di come ogni lascito della vita sia suo e soltanto suo e che il tempo trascorso ha riversato su di lui la grandezza dell’esistere, dell’esserci, del cosmo e di tutta la sua infinita e fragile Bellezza.

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