Omaggio di Senigallia a Dante Alighieri a 700 anni dalla sua morte / Amori tragici e sofferti di Franco Patonico, Ed. “Il Cantastorie” (autopubblicazione) - di Lorenzo Spurio

Per un amante del dialetto come il sottoscritto ricevere le nuove pubblicazioni del poeta senigalliese Franco Patonico (1944) è qualcosa di particolarmente interessante, riconoscendo nella lingua vernacolare non tanto l’espressione melanconica di una vita passata ormai percepita lontana ma la vera essenza delle proprie radici, dell’anima popolare, della propria appartenenza al territorio.

Franco Patonico, che nel corso degli anni ha pubblicato vari libri di poesie in dialetto (tra cui ricordiamo le opere Machì so’ nat’ (parla com’ magni) del 2013 e A Senigallia machì so’ nat’ del 2019), oltre a vari racconti, tanto in italiano che in lingua, è forse – nella regione Marche – uno degli esempi più fulgidi di questo amore intestino con la propria lingua vernacolare. Suoi testi poetici sono stati pubblicati in varie antologie tra cui I Poeti dialettali di Senigallia (La Felice, Senigallia, 2011) a cura di Domenico Pergolesi e Convivio in versi. Mappatura democratica della poesia marchigiana (PoetiKanten, Sesto Fiorentino, 2016, II vol.) a cura del sottoscritto. Non solo pubblicazioni, molte delle quali volutamente autoprodotte e da lui curate nei minimi dettagli anche nella preparazione e impaginazione dei rispettivi volumetti, ma anche dicitore, partecipante convinto a recital, incontri poetici e, giustamente, vincitore di vari premi letterari. La sua presenza sulla scena culturale senigalliese negli ultimi decenni è una costante e una sicurezza; la grande capacità di questo poeta nel districarsi col suo dialetto è tale che non solamente ha scritto e pubblicato poesie in dialetto relative alla sua Senigallia dove è nato ed è fortemente radicato, ai suoi usi e costumi, alle sue genti ma sia anche in grado, con esiti molto buoni, di riferirsi al mondo tutto, abbracciando ora l’uno ora l’altro i principali temi della nostra attualità con particolare aderenza alle questioni etico-civili.

Per la versatilità dei contenuti e soprattutto per la sua capacità d’ascolto nei confronti dell’ambiente, tanto di Provincia che nazionale (quando non addirittura internazionale) è possibile sostenere la sua condizione di neodialettale, sebbene questa sia una definizione che spesso non mette d’accordo molti critici e studiosi. Sta di fatto che, a ragione, Patonico va collocato in quella linea di purezza della lingua vernacolare, strenuamente promossa e difesa per mezzo di varie iniziative, che nella città di Senigallia è stata a lungo coltivata da rappresentare senz’altro uno dei dialetti più distinti della provincia di Ancona. Una linea di ascendenza che rintraccia progenitori in Nicola Leoni (1897-1983) e che si protrae con esempi chiarificatori quali, ad esempio, Renata Sellani (1922-2018) che fu dirigente scolastico e per molti anni Presidente dell’ANPO.S.DI, l’Associazione Nazionale Poeti e Scrittori Dialettali ed Edda Baioni Iacussi (1931) di Marzocca. Il dialetto che Patonico utilizza, pur traendo origine dal tessuto dell’oralità, vale a dire alle forme effettivamente impiegate nei rapporti dialogici familiari del secolo scorso mostra una meticolosa attenzione per la trascrizione grafica sulla carta, ce ne rendiamo conto dai vari segni grafici e dalle lettere particolari impiegate, in campo fonetico, per meglio evidenziare e significare determinati suoni. Questo per dire che per il Nostro il dialetto non è solo una passione molto forte, un interesse particolarmente sentito e coltivato ma anche motivo di studio, approfondimento e ricerca.

Ce ne rendiamo ben conto dalle ultime pubblicazioni – sempre autoprodotte, questa volta sotto il “marchio” personale de Il Cantastorie – dove l’autore si fa interprete di opere letterarie dell’alta tradizione italiana, analizzando da vicino contenuti, respirando i relativi contesti, avvicinandosi a personaggi di narrazioni e cicli della classicità ampiamente noti e apprezzati su larga scala. Patonico si fa attento traduttore di opere, o di parti di esse, nel suo dialetto motivato sia da un grande amore verso la letteratura in senso lato che della sua parlata. Sono nella gran parte delle rivisitazioni e adattamenti, com’è ovvio che sia, perché molto spesso risulta difficile predisporsi alla traduzione di un testo d’altri, basato su una lingua, una metrica e anche un andamento ritmico e melodico diverso che per forza di cose impone un adeguamento dei codici linguistici. Se è vero che per qualcuno “tradurre è un po’ tradire il testo”, questo luogo comune sembra non addirsi in nessun modo al caso di Patonico che, invece, oltre ad essere in grado di rispettare adeguatamente il testo di partenza è artefice attento nel rendere anche i doppi sensi, le sfumature, gli elementi direttamente più evocativi, analogici o addirittura umoristici. Sta di fatto che non è tanto il dialetto senigalliese a mostrarsi permeabile, duttile e adatto a questo genere di “operazioni”, ma quello proprio messo in atto da Patonico che, come già asserito, è frutto di uno studio attento tanto sul lessico, la sillabazione, la musicalità e la componente grafico-testuale.

Tra i più recenti lavori vanno di certo annoverati Omaggio di Senigallia a Dante Alighieri a 700 anni dalla sua morte nel quale il Poeta propone la versione in dialetto dei Canti I, III, V, XXVI e XXXI dell’Inferno della Divina Commedia nella circostanza dell’anniversario che quest’anno ha visto e vedrà l’organizzazione di eventi atti a celebrare il Genio fiorentino. Nella premessa Patonico subito chiarisce che “Il ritorno alle tradizioni, cioè mantenere vivo il nostro linguaggio, ci riporta all’atmosfera in cui hanno vissuto i nostri nonni. È un po’ come ritornare, per quanto mi riguarda, all’infanzia, a quando in famiglia si parlava solo il dialetto”. A completamento delle cantiche che Patonico ha deciso di “versare” nel suo dialetto sono, in appendice, una serie di poesie di argomento dantesco che il poeta ha deciso di inserire quale naturale completamento dell’opera: vi troviamo opere che affrontano il tema dell’eternità e del colloquio col tempo; il raffronto umano con l’alterità spaziale del non-conosciuto rappresentata dalla “selva oscura” e un avvincente omaggio al padre della Vita Nova.

L’altro volume, che conta ben centoventinove pagine, porta come titolo Amori tragici e sofferti; in quest’opera Patonico ci accompagna per mano in un interessante e coinvolgente percorso tematico nella letteratura italiana attraverso vicende (tristi) di amori impossibili o negati, sottoposti alle ingerenze del tempo, del potere e minati inesorabilmente da forze traditrici. Il sottotitolo del volumetto ben chiarisce l’intendimento dell’autore: quello di raccogliere, con viva probabilità, alcune tra le storie più passionali e al contempo tormentate che la letteratura (complice anche la cinematografia con i relativi adattamenti) ha tramandato nel corso del tempo. Il volume, infatti, ci parla di Storie di quattro amori tragici dove l’amore prevale sempre sulle vicende umane anche quando il suo epilogo è sofferto e in molti casi va incontro alla morte. Nella premessa al volume Patonico si riferisce ai brani da lui tradotti dalle opere di cui a continuazione parlerò definendole “cantiche”, in effetti sembrano avere le caratteristiche di musicalità e cantabilità dei testi e lo stesso autore diviene, nell’atto della trascrizione su carta in versione dialettale di questi brani, un vero e proprio cantastorie.

Le opere delle quali Patonico ha deciso di dedicarsi sono quattro: in apertura è la vicenda di Quo Vadis (68 d.C.) narrata nel romanzo del polacco Henryk Sienkiewicz del 1895, resa ben nota dall’omonimo film. Patonico ha prima operato una sorta di riassunto delle vicende principali dell’opera che poi ha tradotto nel suo dialetto e infine gli ha dato la forma del poemetto che riscontriamo nel volume in ben 308 versi di dodecasillabi a rima alternata.

Il secondo poemetto è dedicato alla quinta cantica dell’Inferno (presente nel precedente volume commemorativo per Dante pubblicato quest’anno) interamente dedicata all’amore impossibile e disperato di Paolo e Francesca. Il terzo, alla vicenda tormentata di Giulietta e Romeo, di argomento shakespeariano ma il Nostro parte non tanto dalla versione originale o tradotta in italiana di quest’opera centrale nel teatro mondiale ma da una versione di per sé già tradotta che è quella di Monteci e Capuleti, poemetto del poeta vicentino Zeffirino Agazzi pubblicato a Padova nel 1943. Patonico aveva già raccolto questa sua versione in un precedente volumetto, presentato e diffuso alla Biblioteca “Luca Orciari” di Marzocca di Senigallia nel 2016. Seguiamo le varie fasi della storia amorosa dei due giovani appartenenti a famiglie nemiche sino al costruirsi vero e proprio del finale tragico sebbene una pesante aria piombata di fatalismo sia presente e pronosticabile sull’opera sin dagli inizi. Le scene più intense e desolanti sono, forse, quelle che prendono piede immediatamente dopo l’instaurarsi del sonno eterno di Giulietta. Patonico fornisce degli apparati in italiano prima dei testi in dialetto senigalliese che meglio consentono, per coloro che non conoscono bene le rispettive opere, di avvicinarcisi in maniera spigliata e mai accademica e di approfondirne i contenuti.

Infine viene proposta la vicenda amorosa di Renzo e Lucia tratta da un’opera narrativa capostipite della letteratura italiana, i Promessi sposi (1827) di Alessandro Manzoni. Qui, con estrema sintesi, Patonico è in grado di produrre un efficace adattamento dell’intero romanzo ottocentesco in centosessantotto dodecasillabi a rima alternata dove incontriamo i Bravi, Renzo, l’avvocato Azzeccagarbugli, Lucia, fra’ Cristoforo, lo spietato don Rodrigo, don Abbondio, la monaca di Monza, Griso, L’Innominato e il cardinale Borromeo, la presenza fosca dei monatti sino alla luce provvidenziale dell’intervento mariano. Anche in questo volume, come il precedente, corredano l’opera alcune poesie aggiuntive tra le quali mi pare rilevante citare due adattamenti in senigalliese di opere leopardiane: la poesia “L’Infinito” e il “Canto notturno di un pastore errante per l’Asia”.

L’ampio e suasivo tragitto tematico che Patonico ci fa fare attraverso i suoi adattamenti e rivisitazioni di alcune storie e scene centrali della nostra tradizione letteraria è così ampio e diversificato (si parte sia da poemi che da romanzi) che va a toccare il tema dell’amore – fil rouge portante dell’opera – in numerose sfaccettature, lì dove è osteggiato e reso impraticabile, tormentato e perseguitato dal potere e dalle divisioni, negato e, solo in taluni casi, recuperato, salvato e restaurato. Si tratta anche delle vicende che conducono a morte o disperazione come quella contenuta nella tragedia del Bardo Inglese, di momenti di altissima intensità emotiva e spirituale che, anche leggendole (qui in dialetto) sono capaci di un profondo raccoglimento personale e di un fascinazione intramontabile. Complimenti, dunque, all’autore, per la sua opera di rivitalizzazione e di riproposizione del classico in termini e circostanze non nuove (dacché il dialetto tutt’altro è che qualcosa di nuovo) ma che necessiterebbero maggior impulso, conoscenza e diffusione. Esperimenti che avvicinano il Grande, la classicità, il famoso, l’ufficialità della storia e della letteratura, al Piccolo, alla conoscenza di zona, al contesto familiare, all’ambiente circostanziale e ristretto nel quale effettivamente si nasce, si cresce e s’appartiene.

 

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