Nazario Pardini, "I dintorni della solitudine" (Ed. Miano)

di Rossella Cerniglia
 
 
La silloge di Nazario Pardini “I dintorni della solitudine” è costituita da tre sezioni, di cui la prima, molto estesa, raccoglie testi dalla tematica unitaria che fa capo alla visione che il poeta ha del reale, un tempo definita, nella terminologia filosofico-letteraria tedesca, Weltanschauung, parola oggi un po' desueta, ma sempre efficace sintesi di un concetto epistemologico ampio e complesso.
   È stato detto più volte che la sua è una poesia che trascorre dal presente al passato, dal reale alla visione memoriale che lega la sua anima al vissuto di un'infanzia e di una giovinezza idealizzate, rese nostalgiche alla stregua di un paradiso perpetuamente agognato e inesorabilmente lontano. Nella lirica di apertura “L'ultimo autunno” compare già uno dei temi più ricorrenti nel tessuto dell'opera, quello del trascorrere del tempo nelle stagioni che si fanno simbolo delle tappe biologiche della nostra vita: “Sarà bello abbracciarsi” dice il poeta alla sua donna “ sarà di nuovo bello / confondersi coi lampi di una fine, /come lo era, / coi fremiti nascenti delle fronde. ” Ciò che stupisce è la valenza simbolica delle immagini, tutta giocata tra presente e passato, tra vita reale e ricordo; l'assimilazione de “i lampi di una fine” con la stagione amorosa del presente in cui vive un autunno metaforico - e quella dei “fremiti nascenti delle fronde” che al di là della primavera reale richiama quella simbolica degli amori giovanili. Si coglie, in questi brevissimi accenni, il perfetto parallelismo tra le stagioni della natura e quelle dell'uomo.
   Altro tema ricorrente è quello dell'esistenza messa di fronte al suo destino di morte: nei versi di “Piccioni” lo sguardo trascorre ammirato sulla naturalità e bellezza della loro esistenza, del loro volo, espressione purissima di libertà. Il componimento porta avanti una lunga strofa gioiosamente descrittiva, e all'inizio della seconda ed ultima strofa, molto breve, esordisce con l'improvvisa sgomenta constatazione: “E poi la morte.” Ed è come se il poeta trovasse sorprendentemente incongruo l'esistere di tanta vitalità e bellezza di fronte all'imperiosa, ma anche misteriosa, necessità della morte.
   Il tema dell'abbandono è presente in molti testi, a cominciare da “Il falcione” che per i toni mesti, in parte crepuscolari, e nostalgici, richiama “l'aratro in mezzo alla maggese” di matrice pascoliana, ma anche la vena vagamente ironica di certi versi gozzaniani. “...ha perso la sua foga tra le miste / ferraglie di cantina; (…) “...ed i suoi suoni / “ -dice più avanti- “sembravano dei canti a primavera. // Ora è lì, senza voce: una bestia ferita, / (…) Nemmeno ti risponde se lo chiami.”
Anche nella lirica “L'aratro” ritroviamo lo stesso tema: strumenti che prima erano parte integrante della vita di chi li usava e che ora giacciono dimenticati. Una caratteristica li accomuna: il loro vibrare di un'inopinata umanità che osserva, pensa e si duole della sua stessa sorte. Questa umanizzazione e personificazione dell'oggetto, saldamente ancorato all'ambiente e al lavoro dei campi, è una delle peculiarità di tanti testi in cui, ritorna il ricordo di quel paesaggio, della vita e dei costumi familiari, che il poeta riconosce come sue lontane radici: un mondo fatto di elementi desueti e nostalgici -e dunque poetici per eccellenza- in cui grandeggia il mito di un'età dell'oro vagheggiata e lontana.
   La lirica “Lo stradone” e diverse altre della stessa silloge, sono accomunate da uno stesso sentire: abbandono e amarezza della solitudine che reca in sé un interrogativo inquieto e mai sopito. E anche qui, le cose si animano di una vita propria, si umanizzano e partecipano di una visione e di un sentire che è tipicamente umano.
Nella vibrazione di certe atmosfere pascoliane, si potrebbero collocare pure alcuni versi di “Le case”. Il poeta scrive: “ E mi domando spesso: / “Ma le pareti terranno in memoria / le parole d'amore, i grandi affetti, / le promesse di fede, gli urli e i canti (…)”. In essi si stempera il presupposto che, in qualche modo, ci riconduce alla dimensione del “nido” familiare, mito pertinente agli affetti e alle memorie del poeta romagnolo.
Nel componimento intitolato “La giacca”, presente e passato ancora si legano per misteriosi e carnali richiami. Il poeta ricorda una giacca che era stata del padre, poi del fratello, e di cui non rimane che un piccolo lembo di velluto: “ (…) Fu mia madre /a ricavarne un brandello. Mi diceva: / “Profuma di persona, di stagione; / sa di storia passata, di vicende; / annusa! C'è tuo padre in questa stoffa, / tuo fratello”. Ci andavamo a cacciare, / ed il coniglio, la lepre, o il fagiano / penzolavano giù (...)”. Per vaghe suggestioni e richiami, questi accenni evocano il ricordo della sindrome proustiana, dove la semplice fragranza delle madeleine richiama tutto un mondo che, per vie indefinibili e misteriose, è ad esse legato.
Anche il ricordo della giacca, che ha una sua storia, un suo vissuto, ed è intrisa della materialità del padre e del fratello, è in sé piena di tanto altro: del ricordo degli scambievoli affetti familiari, di quello della caccia e della gioiosa e sana vita dei campi, che riappaiono in un percorso a ritroso che ramifica man mano che si addentra nelle memorie di un passato divenuto mito.
Il testo intitolato “Pandoro” è dedicato alla figura indimenticabile di un cane, il cui nome è già di per sé un'icona ben definita: è tutto un dono per il suo padrone. I versi accennano alla struggente vicenda di affetti semplici e incrollabili di cui l'animale è protagonista, vicenda che, per analogia, ci riporta a quella che i versi immortali di Omero resero mitica attraverso la figura del cane Argo.
Il poeta canta spesso la sua terra, la Toscana, la sua grandezza e bellezza, le memorie illustri, l'arte, la sua storia. Bellissimo l'incipit della lirica “Vieni al mio paese” con quel gentile richiamo al forestiero: “Vieni a trovarmi, caro forestiero. / Vive da me ogni palpito di storia, (...)” E cantando la sua Terra, il poeta sembra incarnarsi in essa: un sentimento panico cui aderisce corpo ed anima.
La seconda sezione del libro “Verso la luce” è un poemetto che dispiega una visione onirica, indirizzata a percorsi salvifici. È istanza di riconquista di quel “paradiso perduto” che racchiude infanzia e giovinezza, e una vita campestre gioiosa e vibrante di affetti: il “nido” che condensa gli ideali custoditi nel santuario dell'anima.
I versi di apertura descrivono un cammino arduo, instancabile e periglioso che è il traslato della vita: “Cercavo la luce. Camminavo, / e camminavo sempre, e camminavo, / per monti, valli, e fiumi. Per campagne, / per boschi. Mi infilavo tra i rovi e le sterpaglie: il mio corpo sanguinava (...)”
Il sogno ha le sembianze di una discesa agli inferi, dove l'impervio e selvatico cammino, per grandiosità e icasticità di immagini, riporta alla mente - unitamente alla sua valenza allegorica - il percorso infernale e “la selva oscura” di dantesca memoria.
Le figure del fratello e del padre, insieme ad altre apparse al poeta lungo l'immaginario cammino, gli indicano la strada che riconduce al cuore delle sue memorie, a quel luogo santo, agognato, cui abbiamo fatto riferimento, e che incarna, nella sua luce, ideali di ancestrale purezza.
Nel simbolico arrivo di questo percorso non si dà il raggiungimento di vette sovrumane nell'astrattezza ideale dei voli pindarici della nostra immaginazione, ma il poeta sembra volerci dire che l'unico reale “paradiso”, concesso agli uomini, è quello si attaglia alla dimensione umana. E la luce che illumina i valori eterni dell'uomo, attraverso la strada dell'Amore e della Purezza, non è che quello stesso “piccolo raccolto paradiso” custodito nel mito delle sue memorie.
Nella terza ed ultima sezione, intitolata “Dialogo” ci troviamo di fronte ad un immaginario contraddittorio tra la Storia, che diviene personaggio, e un personaggio della Storia, che è lo spartano Leonida. Ognuno di due rivendica con autorevolezza il proprio punto di vista. Leonida chiarisce le ragioni che lo hanno indotto ad immolare i suoi trecento valorosi uomini alle Termopili: “Solo la vera libertà mi era cara. / Solo il pensiero di essere soggetto / mi rendeva infelice. / Inappagato”. E la Storia sciorina le proprie superiori ragioni facendo riferimento al valore delle azioni dell'uomo in quanto lascito alla posterità.
Ancora una volta, come spesso accade, il testo apre a suggestioni molteplici, provenienti da altri versi e da altri poeti; in particolare, qui, mi tornano in mente certi componimenti di Luis Cernuda, anch'essi strutturati in forma di contraddittorio, di disputa tra tesi contrapposte, come è, ad esempio in “L'adorazione e dei Magi” e ancor più in “Notte dell'uomo e del suo demonio”.
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