“Lo spazio chiuso della Sicilia nelle opere di Gesualdo Bufalino” di Giovanni Teresi

 

Lo spazio chiuso della Sicilia Lo spazio chiuso della dissertazione sulla morte e della ricerca di Dio confluisce e trova l'ennesima ragion d'essere in un altro spazio chiuso della vita e dell'opera dell'autore, ossia la Sicilia. Proprio la posizione del narratore, relegato in luogo chiuso, intento ad inventare una vicevita e a riflettere su argomenti onerosi, quali la morte, la vita, l'amore e la storia, riproduce l'abituale spazio di Bufalino scrittore, avvezzo a trascorrere felicemente le sue giornate in un piccolo paese nella remota provincia del sud, che si trova all'interno di uno spazio naturalmente chiuso, quale l'isola abbracciata dal mare. Nonostante la dichiarata claustrofilia della scrittore, il suo rapporto con la Sicilia sembra essere contraddistinto da quel procedere ossimorico che ne domina tutta la produzione. In Essere e riessere infatti Bufalino scrive:

 

La Sicilia... Sicilia come patrimonio di memorie, vera mnemoteca e insieme materno cordone ombelicale con l'esistenza. Intanto devo parlare del mio difficile rapporto con la Sicilia. Un rapporto di rigetto innanzi tutto per il grumo levantino e facinoroso, per l'intreccio di frode e forza e sole sleale che si suole chiamare mafia e che mi sforzo ogni momento di espellere dal mio pantheon di sillabe e sentimenti. Tanto più facilmente in quanto mi è toccato vivere in un angolo finora quasi miracolosamente immune dalla peste comune (per poco ormai). Dall'altro lato avverto un legame identificatorio e carnale, non solo con questo mio triangolo grecocatalano, al di qua dell'Ippari, di cui ho nel sangue i globuli rurali e artigiani di cent'anni fa, ma con l'isola tutta, nella sua complessa eredità mischianza di razze e gerghi, eredità diverse.53 (G. Bufalino, Essere o riessere. Conversazione con Gesualdo Bufalino, cit., pp. 49-50)

 

A tale approccio contraddittorio si aggiunge uno strutturale senso d'isolamento che grava su chi vive nell'isola, e a proposito del quale Bufalino ha coniato un felice neologismo:

 

Una insularità che, giocando con le parole, mi è avvenuto una volta di deformare in "isolitudine", intendendo con questa parola inventata il destino di ogni isola, che di essere sola nell'angoscia dei suoi invalicabili confini, infelice e orgogliosa di questo destino. Donde viene che i suoi figli, stretti tutt'intorno dal mare, siano spinti a farsi isole dentro l'isola e a chiudersi all'interno dentro la propria solitudine con il presuntuoso proposito di rovesciare le parti, diventando a loro volta carcerieri e tiranni del mondo. Resta da dire, per concluder sulla Sicilia, qual è il mio rapporto con la provincia. Ecco, io vi sono vissuto e vivo come in un bunker. È per me una tana, trappola e trono, vi vegeto e vi trionfo, vorrei uscirne ma so che altrove sarebbe la fine.54 (G. Bufalino, Essere o riessere. Conversazione con Gesualdo Bufalino, cit., pp. 49-50)

 

Non è un caso che Bufalino per spiegare il suo rapporto con la Sicilia e con la provincia ricorra più volte a un campo semantico legato alla clausura e all'isolamento: «invalicabili confini», «stretti tutt'intorno dal mare», «chiudersi all'interno» e «carcerieri del mondo» sono tutte espressioni che rimandano a questo senso di solitudine naturale dell'isola, che appunto l'autore definisce "isolitudine". Inoltre, bisogna notare le accezioni positive che, nonostante tutto, l'autore conferisce a questo isolamento, che sembra riferirsi alla stessa segregazione della scrittura. Bufalino usa le immagini della tana, della trappola e del trono per essere più esplicito. Infatti anche in Argo il cieco il narratore anziano a proposito della scrittura di questo romanzo scrive: «Oh sì, scrivere è stato un'innocenza e una tana, un trono dentro una tana, non mi dirò grazie abbastanza per aver avuto il coraggio di farlo».55 (G. Bufalino, Argo il cieco, in Opere 1981-1988, cit., p. 396)

Inoltre anche in un'altra intervista a proposito di questo senso di reclusione causato dall'insularità lo scrittore dice:

L'abitante d'isola è invece, anche visivamente, circondato da una muraglia, e così in lui questo senso delle radici è necessariamente più forte. Ma proprio perché l'isolano è circondato, quasi prigioniero, il suo bisogno di evasione e di fuga può in certi momenti diventare spasmodico.56 (M. Morace, Gesualdo Bufalino e la terra di Sicilia, «Azione», 27 maggio 1982.

 

Prima di Bufalino era stato Pirandello a riconoscere l'isolamento del siciliano nella sua stessa isola: Siciliano triste – va bene. Tutti i siciliani in fondo sono tristi, perché hanno quasi tutti un senso tragico della vita, e anche quasi una istintiva paura di essa oltre quel breve ambito del covo, ove si sentono sicuri e si tengono appartati; per cui son tratti a contentarsi del poco, purché dia loro sicurezza. Avvertono con diffidenza il contrasto tra il loro animo chiuso e la natura intorno, aperta, chiara di sole, e più si chiudono in sé, perché di quest'aperto, che da ogni parte è il mare che li isola, cioè che li taglia fuori e li fa soli, diffidano, e ognuno è e si fa isola a sé, e da sé si gode, ma appena, se l'ha la sua poca gioja, da sé, taciturno e senza cercar conforti, si soffre il suo dolore spesso disperato.57 (L. Pirandello, Discorso su Verga, in Saggi, poesie, scritti varii, a cura di M. Lo Vecchio - Musti, Milano, Mondadori, 1973, poi in G. Bufalino - N. Zago, Cento Sicilie, cit., p. 30.)

 

L'identificazione tra lo spazio chiuso della Sicilia e lo spazio chiuso della scrittura porta con sé un altro parallelismo, quello tra l'isola e chi la abita:

Capire la Sicilia significa dunque per un siciliano capire se stesso, assolversi o condannarsi. Ma significa, insieme, definire il dissidio fondamentale che ci travaglia, l'oscillazione tra claustrofobia e claustrofilia, fra odio e amor di clausura, secondo che ci tenti l'espatrio o ci lusinghi l'intimità di una tana, la seduzione di vivere la vita come vizio solitario. L'insularità, voglio dire, non è una segregazione solo geografica, ma ne porta dietro altre: della provincia, della famiglia, della stanza, del cuore. Da qui il nostro orgoglio, la diffidenza, il pudore; e il senso di essere diversi. […] Ogni siciliano è, di fatti, una irripetibile ambiguità psicologica e morale. Così come tutta l'isola è una mischia di lutto e di luce. […] Il risultato di tutto questo, quando dall'isola non riesca o non si voglia fuggire, è un'enfatica solitudine.58 (G. Bufalino, La luce e il lutto, in Opere 1981-1988, cit., p. 1141.)

 

Se il siciliano è afflitto da un costante travaglio, che si riflette nella dissertazione sulle tematiche esistenziali, quali la morte e Dio, dall'altra parte l'insularità può portare tanto alla scelta volontaria dell'autoisolamento, quanto al desiderio di fuggire da tale segregazione. Inoltre, l'isola non è il solo spazio della solitudine del siciliano,59 (S. Aglianò, Questa Sicilia, cit., poi in G. Bufalino - N. Zago, Cento Sicilie, cit., pp. 61-63) perché essa comprende una serie di segregazioni strutturate in modo concentrico: la provincia, la famiglia, la stanza, etc. Lo scrittore sceglie (e per tutta la vita porta avanti questa scelta) di assecondare la via della claustrofilia e di eliminare la claustrofobia, scelta che determina appunto la formazione di 'isole dentro l'isola' e l'impossibilità da parte dello scrittore siciliano di non scrivere della Sicilia:

Impossibile per uno scrittore siciliano non scrivere della Sicilia: della sua gente, dei luoghi, della storia, dei vizi, delle virtù...Di qualunque argomento ragioni, anche il più eccentrico, il siciliano ragiona in effetti sempre della Sicilia, e di sé dentro la Sicilia, e della Sicilia dentro di sé. Esplicitamente o copertamente; ripetendosi o correggendosi o contraddicendosi... in un perpetuo processo d'approssimazione a una nebulosa che fugge. Come se il ritratto (l'autoritratto?) che traccia gli si mutasse ogni volta sotto la penna e invecchiasse al pari di lui (allo stesso modo certi pittori si travagliano tutta la vita davanti a un cavalletto e a uno specchio, nell'attesa che l'immagine inseguita consegni il suo segreto e si sveli).60 (G. Bufalino, Il fiele ibleo, in Opere 1989-1996, cit., p. 975.)

 

Sembra fondamentale la subordinazione di qualsiasi argomento a quello più importante di tutti, ossia la Sicilia; inoltre il tema precedentemente analizzato, la morte, e la teatralità insita nelle opere dello scrittore, si fondono con il tema madre della Sicilia.

Il tema della morte, quello dell'amore, la propensione al teatro e il gusto del rintanamento sono tutti aspetti derivati direttamente dall'insularità e dalla sicilianità; analogamente si può ipotizzare che questo predominio tematico influenzi anche la scelta della spazialità dei romanzi. In altre parole, lo spazio dell'isola non può che incidere sugli spazi di chi dell'isola ragiona anche quando sembra non riferirsi direttamente ad essa. E accanto agli spazi chiusi dello scrittore e dei narratori si rintraccia un altro spazio chiuso per eccellenza, quello del libro, metafora della dimensione letteraria. È un procedere per spazi concentrici, dall'isola, alla casa, al libro. Questi due spazi metaforici della claustrofilia, l'isola e il libro, influenzano inevitabilmente a loro volto gli spazi delle altre tematiche e il meccanismo stesso della scrittura. La Sicilia quale loggione da cui assistere alla vita e nel quale scrivere rintanato è un punto fermo della vita di Bufalino e questa scelta ricalca la stessa combinazione spaziale riscontrata in tutta l'opera, prima di tutto nella predilezione dei luoghi chiusi. Infatti, in un'intervista rilasciata a Gianni Bonina, Bufalino risponde:

 

Bonina: Nella triade di gialli da lei scritti, il teatro dell'azione è sempre rappresentato da luoghi chiusi: l'isola fortezza, le Malcontente e ora Flower City. Bufalino: È un dato fondamentale questo, sul quale dovrebbero studiare, ammesso che ne valga la pena, gli psiocoanalisti. Anche il mio romanzo, Diceria dell'untore, si svolgeva in un luogo chiuso ed era la Rocca […] Chissà da cosa nasce questa predilezione: Ricordi del ventre materno oppure la fondamentale claustrofilia che mi è propria?63 (G. Bonina, Un giallo anzi uno scherzo, «La Sicilia», 16 aprile 1996)

Anche Bufalino, seppur finga di porsi il quesito, giustifica la scelta degli spazi chiusi nei suoi romanzi con la claustrofilia che lo contraddistingue, la quale a sua volta deriva dall'insularità.

Parallelamente gli spazi sono influenzati dal vissuto dell'autore:

Ho praticamente vissuto sempre in Sicilia, direi che non soltanto per amore ancestrale, per il gioco delle radici, ma proprio perché si ama ciò che si vede, che è intorno a noi […] La Sicilia è argomento di molti miei scritti anche per ragioni di necessità fisica, giacché, vivendo qui, io non

ho altre esperienze se non siciliane... e se devo descrivere un luogo, inventare una storia, è chiaro che prediligo luoghi, personaggi e costumi che mi sono sotto gli occhi, che conosco bene.65

 

Gli spazi chiusi sono privilegiati da Bufalino sia nella sua opera che nella sua vita come unici luoghi adatti alla scrittura; questa propensione sembra derivare direttamente da due vocazioni: quella per la letterarietà come spazio chiuso del libro, (cosa altra rispetto all'insensata realtà), e quella per l'insularità che in qualche modo determina tutte le altra scelte dell'autore. Se da un lato il meccanismo della scrittura, quindi si mette in moto esclusivamente in luoghi protetti che hanno un affaccio sul mondo, dall'altro lato le tematiche non possono che risentire tanto dello spazio della scrittura quanto delle ragioni che inducono alla scrittura.

Il nesso Sicilia-ventre sembra chiudere l'infinito gioco di rimandi fino ad ora rintracciati e consente di dare un'altra pregnante giustificazione alla scelta degli spazi chiusi. L'unico strumento di liberazione dalla costrizione dell'insularità sono i libri con la possibilità che essi offrono di vivere ogni volta una vita nuova, diversa, lontana dalla nostra realtà:

Fin da ragazzo avendo eletto come mia patria vera la biblioteca, mi sono sentito in ugual misura siciliano ed europeo, uomo del mondo insomma.69 (A. Pavia, La luce e il lutto della Sicilia, «La Cooperazione», marzo 1987.)

Bufalino, alla stregua del Leopardi delle Operette morali drammatizza scelte opposte tra il piacere della sedentarietà e il gusto del vagabondaggio.

Parallelamente lo scrittore trova un precedente illustre siciliano che, come lui, attraverso due personaggi entrati ormai nell'immaginario comune, aveva teorizzato le due possibili reazioni all'insularità: Io [le] vorrei citare un illustre scrittore siciliano che mi ha preceduto, molto più importante di me, s'intende, Giovanni Verga, il quale ne "I Malavoglia" teorizza praticamente, incarnandola in due personaggi la duplice esigenza dell'isolano di starsene nel paese natio e di andarsene invece lontano. C'è padron 'Ntoni che rappresenta l'arcaica saggezza dei padri, il quale dice: qui è il paese tuo, il mare è amaro, il mare uccide, ma è il tuo mare. Non andare fuori Acitrezza, questo è il messaggio sottinteso. E c'è invece 'Ntoni, il nipote, che è stato a fare il soldato in continente: nell'800 era probabilmente l'unico strumento di evasione. [...]

Queste due anime della Sicilia, quella che evade e quella che rimane, tutto questo si può amalgamare quando uno rimane nel proprio paese ed evade, se non materialmente, attraverso quell'immenso e splendido veicolo di fuga che è il libro, la lettura, la biblioteca.71

Ed è così che prendendo le mosse da un esempio letterario isolano, Bufalino riesce a trovare la chiave di volta per sanare la contraddizione: dall'isola prigione si evade attraverso la letteratura, quella stessa letteratura che per Bufalino nasce e viene fruita proprio nello spazio chiuso delle sue prigioni. Lo scrittore dell'ossimoro trasforma in ossimoro la spazialità della sua scrittura che diventa così allo stesso tempo luogo della fuga e luogo della stasi in una contraddittoria sovrapposizione tra la dimensione del dentro e quella del fuori che solo in essa trovano il loro labile ma fecondo punto d'incontro.

 

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