“La simbologia del giardino e la sua evoluzione storica” di Giovanni Teresi

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Di fronte al giardino rinascimentale e barocco, quello moderno, con il suo minimalismo, potrebbe dare l’impressione di aver ristabilito un rapporto originario con la natura. Ma in ogni giardino si presenta il rapporto storicamente determinato fra uomo e natura, che a sua volta si rispecchia nel rapporto storicamente determinato che l’uomo instaura con gli altri uomini, divisi in gruppi.

Perciò, anche il rapporto espresso nel giardino moderno, con il suo disporre nella libertà la natura, è storicamente determinato, non assoluto, e anche la libertà che vi è riconosciuta e posta è il risultato di un processo storico di cui è momento.

Se è proiettato verso il futuro della conciliazione dell’uomo con la natura, il giardino è anche, se non piuttosto in origine, immagine archetipica: il giardino dell’Eden, il cui significato e i cui elementi si presentano e vengono declinati secondo diverse sensibilità storiche (inclusi i processi di secolarizzazione) nel movimento storico dell’Occidente (e non solo) (1).

Ma se l’Eden è l’origine, esso è anche promessa e prefigurazione dell’avvenire, ritorno al tempo del conciliato: storicamente, però, non è ritorno, riconciliazione, bensì immagine u-topica di un tempo “redento”, liberato dal dominio (dell’uomo sulla natura e dell’uomo sull’uomo).

Questa liberazione dal dominio, liberazione che è processo storico, si manifesta nella storia dei giardini come storia dell’emancipazione dalla natura immediata: non è storia astratta, bensì concreta dei determinati rapporti storici e sociali, è una storia del conflitto.

Si pensi alla differenza interna del Giardino, che può essere hortus di un’abbazia e sfarzo di Versailles: a sua volta quell’hortus si determina a partire da un luogo messo al sicuro dall’ordine/disordine temporale (e perciò stesso storico) e si costituisce in base a questa differenza (quindi si costituisce storicamente); mentre a sua volta lo sfarzo di Versailles è sì il trionfo dell’aristocrazia e del suo dominio che riesce a produrre lusso, ma il carattere razionale e ordinato dei suoi giardini sarà lo stesso principio che ne prepara il rovesciamento.

A partire da questo conflitto che si sviluppa in una lunga provenienza storica, conflitto che inizialmente è sopravvivenza in un ambiente spesso ostile e in cui il pericolo è onnipresente, il giardino è quello spazio naturale chiuso, conosciuto, controllato, in cui il pericolo, la minaccia, sono stati ridotti al minimo. La natura, nell’hortus, dà i suoi frutti grazie al lavoro, allo studio, alla programmazione di un piano che cerca di sottrarre il meccanismo di garanzia di sopravvivenza alla causalità e alla casualità naturali: è l’impulso al controllo e all’organizzazione, la spinta alla fuoriuscita dalla natura come instabilità e ostilità, è il mantenimento e lo sviluppo all’ennesima potenza della natura come vita e, esteticamente, come bellezza e grazia.

Più si emancipa realmente dal bisogno, più il giardino diviene espressione di una coscienza estetica che cerca non di rappresentare un modello irraggiungibile di armonia che sulla terra può essere solo sperato e pensato (quest’ultimo è però, certo, un primo essenziale passo per pensare il superamento dello status quo), ma di pensare un’utopia che non deve rimanere tale, bensì deve volere il suo tramonto come u-topia, deve volere il suo divenire reale.

Secondo i filosofi contemporanei, uno fra tutti Marvell, il giardino non è solo collegato all'estetica ma è strettamente connesso alla ricerca della vita felice, di una "piacevole solitudine".

Detto ciò, è evidente che il giardino nel corso della sua evoluzione temporale abbia subito forti condizionamenti dall'evoluzione dell'uomo stesso, dalle trasformazioni sociali e dal pensiero.

Attorno agli spazi verdi che nacquero alla periferia di Atene tra il IV e il III secolo a.C. si stabilirono alcune delle più celebri scuole filosofiche dell’antichità.

Il ginnasio, che si estendeva in prossimità del boschetto dedicato all’eroe Akademos, divenne il luogo prediletto da Platone e dalla sua scuola, mentre il non lontano recinto consacrato ad Apollo Liceo ospitò il celebre Liceo di Aristotele.

Già secondo gli antichi, fu il filosofo Epicuro a segnare una svolta portando il giardino, sede della sua scuola filosofica, dentro la sua casa. Infatti, il verde spazio adiacente alla sua abitazione divenne il luogo simbolo di quel pensiero, attraverso il quale Epicuro intendeva rivelare il cammino verso la vera felicità e libertà, al riparo dalle pressioni della vita politica.

Plinio riteneva che Democrito fosse il massimo conoscitore della flora greca ma, tra gli autori le cui opere sono giunte fino a noi, è Teofrasto a citare il maggior numero di specie, menzionate anche da altri autori, a lui precedenti o successivi.

L’interesse per le piante nel mondo greco era legato alla possibilità di utilizzarne tutte le parti nei diversi momenti della vita quotidiana; la loro citazione nei testi classici riflette questa esigenza, soprattutto per quanto concerne gli utilizzi alimentari, economici e terapeutici.

La difficoltà delle analisi palinologiche non permette di verificare le citazioni dei classici; è tuttavia chiaro che alcune isole, come Cipro e Creta, ebbero il ruolo di ponte tra la Mesopotamia e la Grecia nello scambio di specie.

I tipi di giardino che si susseguono nella storia non sono altro che il prodotto dei relativi periodi storici e della filosofia imperante in quei momenti.

Pertanto, se nell'antica Roma il giardino per eccellenza era quello Epicureo, visto come luogo di pensiero e di discussione filosofica, piacevole e ben strutturato, nel medioevo, la severa dottrina cristiana fa abbandonare i piaceri del giardino antico, e il giardino viene sostituito da spazi chiusi o semplici frutteti.

 

Dalle recinzioni claustrali monastiche, fino alle raffinate costruzioni dell'Umanesimo, attraverso la lezione musulmana e le esperienze cortesi, il giardino riflette non solo la complicata vicenda storica del nostro Medioevo europeo, ma, anche, il rapporto tra messaggio filosofico e teologico ed esperienza botanica e naturalistica. Il giardiniere medievale ripete il gesto creatore di Dio, conosce le norme sapienti che possono piegare la natura per ricreare, se non la realtà, quanto meno l'illusione dell'Eden perduto. Il Paradiso terrestre ed i Campi Elisi sono gli archetipi, i modelli di una costruzione umana che osa sfidare il limite dell'eterno, nel sogno paradossale di una natura perfetta e, al tempo stesso, dominata dall'uomo e rappresentata dall’uomo nell’arte.

L’arte è anche, linguisticamente, un congiungimento all’essenza, ma è anche contemporaneamente sé che è areté, Idea, Principio, che si riflettono nella bellezza e nella cura della bellezza che possiamo coltivare.

 

Non potrà mai l’arte, in quanto tale, essere gioiosa com’è gioiosa la natura: alla quale siamo debitori di un piacere che non è solo contemplazione, perché, come più volte ci è accaduto di constatare … lo si può con maggior proprietà definire un piacere nella contemplazione”.  (2)

 

 Questo comporta che le riflessioni e considerazioni vanno ben oltre l’ambito estetico per investire pienamente la teoretica e l’etica. 

 

Scrive, Plotino nella quarta Enneade:

 

Gli antichi saggi, che hanno voluto fra loro presenti gli dei costruendo templi e statue, mirando alla natura dell’universo, capirono che è sempre facile attirare l’anima universale, ma che è particolarmente agevole trattenerla, solo che si costruisca qualcosa di affine e capace di riceverne la partecipazione. Ora l’immagine figurata di una cosa è sempre disposta a subire l’influenza del suo modello, come uno specchio capace di imprigionarne l’immagine”.

 

E da qui prende vita il gioco delle immagini, ovvero dei talismani, che attraggono le influenze celesti, dove il disegno delle planimetrie dei giardini ricordano i diagrammi mnemonici dell’ars memoria” 

I grandi miti cosmogonici e teogonici della Teogonia esiodea, nei quali è possibile rintracciare elementi di influenza orientale anatolica, accadica, fenicia, egeo-minoica, non fanno altro che raccontare la difficile gestazione e la nascita dell’universo ordinato, il kosmos, come lo chiameranno per primi i Pitagorici, a partire dal Chaos primigenio, l’immenso spazio abissale, spalancato, da cui tutto ha origine. La teogonia, le diverse generazioni di divinità e la vittoria su tutti prima di Kronos e poi di Zeus, descrivono il trionfo dell’ordine sovrano sulla natura e su tutta l’umanità, nella certezza che tra vicenda cosmica e vicenda umana ci fosse una strettissima analogia. Quando tempo cosmico, tempo religioso e tempo degli uomini finalmente si integrarono, nella Ionia del VI secolo a.C., alle genealogie divine si sostituirono quelle umane, che raccontano colonizzazioni, fondazioni di città, di ampi giardini recinti e storie di viaggi per terra e per mare.

 

Il témenos greco e poi il templum latino, sono di fatto aree recintate, e così è per l’orto. L’evocazione di pace contemplativa dell’hortus conclusus dell’estetica cristiana ha molti precedenti arcaici, e ricorda il bosco sacro recintato delle culture mediterranee, legato alle divinità femminili, custodi di personalissimi orti primordiali che proteggevano i segreti della forza medicinale dei semplici. In questo universo allegorico vegetativo rientravano i giardini di Igiea, nei quali i discendenti di Asclepio acquisivano i saperi farmaceutici; quelli di Afrodite, che i greci chiamavano dea dei giardini, olezzanti di fiori afrodisiaci e di foglie dal sussurro ipnotico; quelli di Chloris, divinità verdeggiante e primaverile che sarà la Flora dei romani, signora di ogni specie floreale.

E se Demetra aveva potestà sui campi sconfinati di grano, Era si fregiava di un giardino chiuso, il più santo, custodito da ninfe e difeso da un drago insonne, e il penetrale segreto di Artemide, inviolato paradiso di tutte le erbe officinali, era protetto da sette cinte di mura e da portali di bronzo.

Nella mitologia greca, tra le pagine di Omero, possiamo ammirare la rappresentazione di un vero e proprio giardino archetipico, così come emerge dalla descrizione del prospero orto del re Alcinoo, nella ricca isola dei Feaci.

Qui la benedizione di una natura benevola e prolifica sposa perfettamente ingegno e visione estetica, e nella capacità di armonizzare uomo e ambiente si compie l’utopia di un’esistenza vicina agli dèi. Un’alta siepe delimita la sacralità del microcosmo, anche se il giardino è uno spazio privato, evidenza della ricchezza della casata. All’interno di un appezzamento cintato trovano luogo ortaggi e alberi da frutto in pieno rigoglio: peri, melograni, meli dai pomi lucenti, fichi dolci e floridi ulivi e viti.

Nell’Odissea Ulisse, nel suo viaggio verso Itaca, è sempre a contatto con l’acqua, simbolo della vita e della tranquillità. Quest’aspetto è rappresentato dal bellissimo fiume che porta nella terra dei Feaci, dove Ulisse trova ospitalità e aiuto per tornare nella sua terra.

 

È stata proprio la metafora della chiusura ad alimentare i passaggi culturali legati alla poetica del giardino, soprattutto nel medioevo letterario, che si rivela popolato di cavalieri erranti nell’atto di perdersi in perigliose selve allegoriche.

Nel poetico e solidale passaggio delle eredità spirituali, nel cristianesimo l’hortus conclusus diventerà il luogo prediletto di Maria, nuova custode, e si farà metafora stessa della verginità e della santità della madre di Dio.

 Il linguaggio dell’arte, intrecciato a quello simbolico della natura, segnerà il passaggio delle virtù figurate, di significati e simboli dalle radici profonde, in un’immutata corrispondenza. In questi omphaloi metafisici, riservatissimi e lussureggianti giardini di vita, prendeva vita l’ingegnosa aspirazione dell’uomo a riprodurre l’infinita meraviglia, a interpretare il ruolo di giardiniere di dio.

Nel disegno dei giardini si nascondono simboliche forme e proporzioni numeriche.

 Fin dall’antichità, infatti, un complesso apparato di simboli caratterizzerà il giardino, dove la natura, appositamente predisposta e sintonizzata con le frequenze dell’anima, entra in contatto con la nostra profonda essenza.

Già nell’hortus conclusus medioevale costituito da uno spazio di forma quadrata, diviso a sua volta in quattro settori da due vie perpendicolari che s’incrociano nel centro, si ravvisa non solo una metafora del Paradiso Terrestre ma, soprattutto, uno spazio declinato secondo la simbologia del numero quattro, in stretta analogia con i quattro elementi: acqua, terra, aria e fuoco, che, assieme ai rispettivi principi elementari (umido, secco, freddo, e caldo) erano, secondo gli antichi, alla base di tutte le manifestazioni della vita terrestre. Inoltre, secondo un quadro di corrispondenze sincroniche, ai singoli elementi oltre che gli umori fondamentali, erano associati le stagioni, i temperamenti e nella grammatica astrologica i pianeti e i segni zodiacali.

 In natura tutto è simbolo: il Sole, le costellazioni, la luce, la notte, le stagioni ci parlano con linguaggio solenne.

Per Esiodo Caos è lo stato primordiale, il “vuoto”, la “non materia” in cui erano presenti le potenzialità dell’esistere. Prima vi fu il Caos, poi sorse Gaia (la materia) che partorì il cielo stellato, sede delle Divinità che abitano sul monte Olimpo, ed Eros, il più bello tra gli Dei che scioglie le membra e soggioga lo spirito degli Dei e degli uomini. Secondo la mitologia egizia, il Caos era considerato un concetto astratto, che poi generò il Cosmo, forza creatrice e positiva. Per gli antichi egizi, il Caos era casualità, nell’accezione di casualità indifferenziata, che quindi poteva anche generare distruzione. Per combattere il Caos, c’era il Sole, nella sua personificazione di Ra, che con l’aiuto della Luce, aveva il compito di contrastare il Caos quotidianamente. Il Sole, con il suo carro spariva dietro l’orizzonte e la notte doveva affrontare il serpente Apopi per poi rinascere il giorno seguente.

Il potere creativo riconosciuto alla luce si traduce nel Medioevo con Roberto Grossatesta (1175-1253) nella cosiddetta Metafisica della Luce secondo la quale Dio crea un punto luminoso primordiale, che è la corporeità. Poiché la luce è per sua natura autodiffondente, questo punto originario si estende in tutte le direzioni dando luogo al mondo materiale.

Di conseguenza, l’ottica diventa fondamentale per la filosofia naturale in quanto, studiando la luce, possiamo comprendere l’origine e le strutture dell’universo. 

L’aria è ciò che tutto avvolge e permea, è lo spazio intangibile che tutto unisce, è l’energia vitale che i taoisti chiamano chi, gli induisti chiamano prana e noi chiamiamo etere. È la sostanza invisibile che pervade l’intero universo e che noi assorbiamo dall’ambiente tramite la respirazione. La sua sede è il mondo sottile fra Cielo e Terra.

Talete di Mileto, invece,  decreta, seguendo i più antichi filosofi, che sia l’acqua il principio di tutte le cose: ha un ruolo determinante nella produzione dai corpi; rende la natura feconda, nutrendo le piante e gli alberi; e senza il suo concorso la terra, secca, “abbruciata” rimarrebbe sterile.

 

Legato alla concezione del cosmo, l’albero è immagine dell’ascesa verticale verso i Piani alti e, come tale, fondamentale nelle culture sciamaniche e di grande importanza nelle civiltà antiche. L’albero assume in sé i concetti di saggezza, sacralità e potenza divina, oltre che mezzo di trasporto attraverso gli stati dell’essere e del cosmo. Spesso nei miti nordici, il guerriero o l’eroe vengono paragonati ad un albero, a simboleggiare la nobiltà dell’essere.

Con il filosofo greco Talete nel 600 a.C. i miti legati all’acqua diventano un vero e proprio discorso filosofico in cui l’arché, il principio primo di tutte le cose, è l’acqua sulla quale galleggia la terra. Talete trae tale conclusione dopo aver osservato che tutti i semi e i nutrimenti sono umidi e sostiene che “l’acqua è il principio di tutte le cose; le piante e gli animali non sono altro che acqua condensata e acqua torneranno ad essere dopo la morte”.

 Anche il fuoco ha il suo fascino. La poetica del sublime naturale legato al fuoco e ai vulcani è ben rappresentata da Leopardi ne “La ginestra”, dove lo “sterminator Vesevo” rappresenta il sublime dinamico di Kant.

 Il culto del fuoco deriva dalla natura spirituale della luce. Risale alla preistoria e il suo simbolismo è polivalente. In tutto il mondo si adora il fuoco come viva immagine del Sole e della Vita.

È il fuoco che Prometeo ruba agli Dei, quello che Vulcano adopera per fabbricare i fulmini di Giove e le armi degli Dei, la cintura di Venere, il trono d’oro del Sovrano dei Cieli.

Così i quattro elementi, in un’orditura complessa di miti e allusioni, si distendono sul palcoscenico grandioso del giardino. E sarà proprio nel Rinascimento, con la creazione dei primi orti botanici, realizzati secondo un preciso disegno, dove ancora il numero quattro e i suoi multipli sottendono alla suddivisione dello spazio.

Lo stesso principio filosofico ha ispirato l’ideazione dell’orto dei semplici del monastero, seppure nel rimescolamento di codici e nel cambiamento di paradigma, non più cavalleresco ma spirituale.

In questo caso l’uomo ha intrapreso un’opera di imitazione della creazione divina, nell’intento di catturare la visione edenica e intrappolarla in una dimensione umile e ridotta.

L'orto era concepito come una sorta di diagramma magico. Le aiuole, infatti, disegnate secondo un complesso sistema di corrispondenze sincroniche e di geometrie occulte, spesso riproducevano le figure della geomanzia, antica scienza divinatoria, citata dallo stesso Dante nel XIX canto della Divina Commedia, e il cui sistema simbolico mostrava evidenti connessioni con la scienza astrologica; così scriveva il botanico Parini:  

Determinate forme geomantiche hanno contenuti esoterici per cui solamente in quel posto le piante e i fiori raggiungono una determinata vitalità, un determinato splendore, una determinata esultanza di forme e di colori”.

 Questa conoscenza, che fino all’inizio dell’Ottocento era in possesso di ogni maestro giardiniere, è andata poi perduta nel tempo. 

Nel rinascimento italiano invece il giardino subisce l'influenza di una nuova estetica e di un imperante antropocentrismo. Il nuovo umanesimo conquista la natura e i suoi spazi, li plasma a piacimento attraverso terrazzamenti e geometrismi non naturali ma assolutamente umani.

Ma è in età moderna che meglio si comprende il legame del giardino con il pensiero del relativo periodo storico. Gli stili del giardino alla francese e all'inglese dipendono indubbiamente dalla filosofia socio politica del XVIII secolo nei rispettivi Paesi. E se il giardino alla francese, perfetto, geometrico, ricchissimo di statue e orpelli si lega al vezzoso materialismo di una Francia Rococò, il giardino inglese più libero e selvaggio è il riflesso del liberalismo ed empirismo filosofico tipicamente inglese.

Inoltre, il colonialismo dell'epoca influenzerà notevolmente il gusto per l'esotismo e l'introduzione di specie esotiche nei grandi parchi. Nell'Ottocento in Europa i giardini diventeranno sempre più irregolari, stravaganti ed esotici.

Con il passare del tempo il legame del giardino con l'arte si farà sempre più stretto, al punto che i filosofi del XX secolo considereranno i giardini al pari delle produzioni artistiche pittoriche. Sulla scia di una concezione tipicamente giapponese.

Fino alla visione contemporanea della realtà che si fonda sulla consapevolezza della interdipendenza e interconnessione dei fenomeni: la Natura appare come una trama complessa di relazioni tra le varie parti del Tutto.

Dall’organicismo all’illuminismo, dal romanticismo al trascendentalismo, dalla filosofia ambientale all’educazione ambientale, dal caos alla complessità, la natura è spunto di riflessione e strumento di definizione del ruolo dell’uomo sulla Terra.

Fertile e creativa, nutriente e rigogliosa, racchiude in sé sia i caratteri poetici di grembo materno che accoglie la vita e la nutre, che quelle più concrete della costanza, della pazienza, della forza.

La Terra è al tempo stesso materna e nutriente, ed anche materiale, solida e potente.

La nuova società della sostenibilità improntata da uno sviluppo duraturo deve essere in grado di conservare l’integrità degli ecosistemi; assicurare la produzione di beni salvaguardando l’ambiente; ridurre le emissioni nocive, orientando la scienza e la tecnica ad un uso più efficiente delle risorse naturali disponibili e diminuendo il consumo di quelle non rinnovabili; garantire la dignità e la libertà; lottare contro la povertà e il mancato riconoscimento dei diritti e delle pari opportunità.

La nobiltà e la dignità dell’uomo consistono non solo nel conoscere la fragilità del suo stato, ma anche nell’affrontare le forze distruttive della natura, rinsaldando i legami civili che sorgono dall’orrore del suo strapotere.

 Giovanni Teresi

 

 

(1)Sul giardino dell’Eden cfr. F. Cardini – M. Miglio, Nostalgia del paradiso. Il giardino medievale, Roma-Bari, Laterza 2002.

(2)Rosario Assunto, Il paesaggio e l’estetica, Giannini, Napoli 1972, p. 316. Su di lui vedi Vittorio Stella, Paesaggio, città e giardino nel pensiero neoromantico di Rosario Assunto, in “Filosofia oggi”, 2007, 1, pp. 21-44.

 

 
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