La mostruosità del tempo secondo Agostino ed il pensiero di alcuni filosofi - Ricerca del pensiero storico di Giovanni Teresi

 

                                   "Paura ed ansia del tempo che passa" 

 

 Il tempo è subordinato all’eternità perché ne è immagine, copia. E ne è anzi una copia del tutto inadeguata, perché mobile. Per capire ciò è necessario risalire a Platone, che nel Timeo aveva definito il tempo come “immagine mobile dell’eternità”. Il tempo, anche se continuasse indefinitamente, è comunque una rappresentazione, qualcosa che ha un modello da rappresentare, un fine a cui tendere al di fuori di sé ed è perciò che deve dirsi, a rigor di termini , ‘finito’; l’eternità, invece, caratterizza tutto ciò che è fine a se stesso (come le idee platoniche e come appunto Dio per Agostino) e perciò è infinita. Agostino, sulla scorta del suo neoplatonismo di fondo, sottolinea più volte tale differenza, caratterizzando la tensione estro-versa della vita temporale dell’anima come distentio, mentre la vita eterna della mens (il nous plotiniano) è intentio, qualcosa cui si giunge solo per l’intervento gratuito di Dio. Così, alla fine dell’undicesimo libro, Agostino scrive:

“Ma poiché la tua misericordia è superiore a tutte le vite, ecco che la mia vita non è che distensione, mentre la tua destra mi raccolse nel mio Signore, il figlio dell’uomo, mediatore fra te, uno, e noi, molti, in molte cose e con molte forme, affinché per mezzo suo io raggiunga Chi mi ha raggiunto e mi ricomponga dopo i giorni antichi seguendo l’Uno…”.

Come sempre nelle Confessioni la riflessione filosofica è continuamente supportata dal riferimento scritturale, secondo la peculiare dialettica del credo per capire/capisco per credere. Agostino, un po’ forzando il testo di Paolo, ritiene di trovare conferma di quanto ha intuito sul tempo come distensione e dispersione dell’anima e sull’eternità come intensione.

Una o più cose, in quanto passate non sono più; in quanto future non sono ancora; in quanto presenti non sono che il limite inesteso (nullo) che separa il non più dal non ancora. Se il tempo fosse una realtà, esso – paradossalmente – non avrebbe alcuna realtà.

Un fatto è ora limpido e chiaro: né futuro né passato esistono. È inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro. Forse sarebbe esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro. Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell’animo e non le vedo altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del futuro l’attesa (XI, 26, 20).

In secondo luogo Agostino esclude che il tempo sia il movimento. Non è il banale movimento della ruota del vasaio come non lo è quello sublime dei corpi celesti. Qui, marcando la sua distanza dai Pitagorici e da tutta quella vasta umanità che, sottomessa al paganesimo, vede negli astri divinizzati la garanzia di un ordine immutabile per la loro vita sociale. Agostino mostra un certo significativo irriverente  Il tempo, dunque, non è il movimento in generale. In se stesso, infatti, il moto non può essere misurato, perché nel passare istante dopo istante, non è mai e non può perciò essere detto né breve né lungo, né uguale ad un altro. Ciò che può essere misurato è l’impressione che i moti producono nell’anima al loro passaggio e che perdura dopo il loro passaggio grazie allo sforzo da essa compiuto.

È in te, animo mio, che misuro il tempo. Non strepitare contro di me: è così; non strepitare contro di te per colpa delle tue impressioni, che ti turbano. È in te, lo ripeto, che misuro il tempo. L’impressione che le cose producono in te al loro passaggio e che perdura dopo il loro passaggio, è quanto io misuro, presente, e non già le cose che passano, per produrla; è quanto misuro, allorché misuro il tempo. E questo è dunque il tempo, o non è il tempo che misuro (XI, 27, 36).

E’ l’anima, dunque, che raccoglie, conserva e ordina le impressioni sensibili (imagines) sulla base delle idee (Agostino le chiama semplicemente ‘cose’, res, in quanto oggetti di cui le impressioni sono copie) che essa già possiede. antropocentrismo, lo stesso che ritroveremo in tutto il pensiero moderno.

Il pensiero è cogitatio, la cui etimologia richiama l’idea del cum – agere, cioè ‘spingere assieme’. Nell’anima tutto dipende dalla memoria e mette capo alla memoria. Il tempo, dunque, con la sua articolazione in passato, presente e futuro, non è che il modo con cui l’anima si dispone ad accogliere/introiettare/divorare/assimilare ciò che le si manifesta.

Il passato è la permanenza nella memoria di ciò che non è più; il presente è la permanenza di ciò che appare, ottenuta grazie alla attenzione con cui l’anima si dispone a selezionare e giudicare ciò che appare; il futuro è la presenza dell’attesa, di ciò che l’anima si aspetta, volendo alcune cose e non volendone altre, ma sempre sulla base dei criteri/valori presenti nella sua memoria. La freccia del tempo – del tempo che diventa ‘storia’, come dirà Hegel – non dovrebbe perciò essere raffigurata come orientata da sinistra a destra, dal passato al futuro, ma, al contrario, dal futuro al passato:

Chi, volendo emettere un suono piuttosto esteso, ne ha prima determinato l’estensione col pensiero, ha certamente riprodotto in silenzio questo spazio di tempo, e affidandolo alla memoria comincia a emettere il suono, che si produce finché sia condotto al termine prestabilito: o meglio, si produsse e si produrrà, poiché la parte già compiuta evidentemente si è prodotta, quella che rimane si produrrà. Così si compie. La tensione presente fa passare il futuro in passato, il passato cresce con la diminuzione del futuro, finché con la consumazione del futuro tutto non è che passato (XI, 27, 36).

La vita nel tempo non è insomma altro che un sistema sacrificale in cui il passato non passa mai solo perché sopra-vive sul futuro.

Dopo aver capito che il tempo di per sé non esiste, che il passato non è più e il futuro non è ancora, Agostino si domanda come ciò si possa conciliare con quanto dice la Bibbia circa la prescienza di Dio e le capacità profetiche di quegli uomini da Lui ispirati. Tale domanda, però, resta senza risposta.

Quindi tu, che sei il re del tuo creato, in che modo insegni alle anime il futuro? L’hai pure insegnato ai tuoi profeti. In che modo insegni il futuro, se per te nulla è futuro? O meglio, in che modo insegni le cose presenti che riguardano le future? Ciò che non è, non si può evidentemente insegnare. Il tuo procedimento qui è troppo lontano dalla mia vista, ha superato le mie forze, non vi potrò giungere; ma potrò con le tue, quando lo concederai tu, dolce lume dei miei occhi occulti (XI, 19, 25).

In Dio, dunque, conoscere equivale a creare. Poiché la creazione, in quanto tale, è creatio ex nihilo sui et subiecti, cioè si crea veramente solo quando si esula tanto da sé tanto dal materiale preesistente, anche la conoscenza che Dio ha del mondo deve essere dal nulla, cioè totalmente libera da ogni condizionamento della memoria, da ogni pre-concetto, da ogni presunzione. Dio è Dio, allora, perché, come l’intelletto attivo di Aristotele, non ricorda. Se per gli uomini, irretiti nella loro meccanica temporale-sacrificale, il patrimonio concettuale dei singoli dice della loro sapienza e quello valoriale delle comunità attesta la loro forza politica, per il Dio, che ha la sua casa in quanti si abbassano in cuore, è la smemoratezza a determinarne la creatività, l’accoglienza della novità, la capacità di perdonare. E allora anche l’attesa del futuro è finalmente reale! Solo così il tempo può davvero essere una freccia che esce dal passato e si dirige verso il futuro.

Giovanni Teresi

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